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PER UNA STORIA DEI SISTEMI ECONOMICI SOCIALISTI

Premessa

I paesi socialisti hanno costituito una concreta alternativa al sistema del capitale. Conservarne la memoria e valutarne serenamente le realizzazioni, riteniamo sia un compito spettante a tutti coloro si pongono in prospettiva rivoluzionaria consapevoli che l’emancipazione si costruisce sulla conoscenza.

In materia d’economia, ciò che d’alternativo ha realizzato il socialismo è argomento comunemente eluso o avvicinato con ampia superficialità, è quindi utile affrontare questo tema perché proprio su questo terreno le giustificazioni del capitalismo riescono a trovare la base più solida. Liquidare frettolosamente le esperienze alternative bollandole come inefficienti e manipolare/rimuovere tali esperienze, sono le pratiche più diffuse per attribuire carattere d’immortalità ed impareggiabile efficienza alla formula capitalista.

La volontà di chiarirci le idee in merito ad un argomento troppo spesso ignorato ci costringe ad un impegnativo percorso di ricostruzione storica ed approfondimento teorico, compito gravoso ma necessario per la difesa d’esperienze dal valore incalcolabile.

Quanti e soprattutto quali modelli economici sono stati sperimentati dal socialismo? Si può affermare che ha creato un nuovo modo di produrre? Se così è stato, in che misura? Che genere di rapporti di produzione ha creato?

Queste sono alcune domande cui si tenterà di dare risposta.

Per raggiungere il nostro obiettivo è innanzi tutto obbligatorio accumulare un bagaglio minimo di rudimenti teorici utili, altrimenti non è possibile andare oltre la descrizione letteraria dei temi sopraindicati.

Per attrezzarci culturalmente in materia d’economia è necessario imparare i concetti base di teoria economica, ma ciò non deve significare prendere per buoni i concetti dell’economia borghese. Tra la teoria economica borghese e quella marxista esistono divergenze fondamentali, differenze di prospettiva e di metodologia tali da portare a conclusioni divergenti, quando non opposte. Dobbiamo quindi tenerne conto e coglierne i punti nodali, saremo allora in grado di abbozzare una valutazione delle realizzazioni socialiste in campo economico dotati di una minima ma indispensabile competenza.

Schematizzando possiamo individuare i problemi intorno ai quali si sviluppano le divergenze fra le due teorie:

A)           La contrapposizione fra microeconomia e

        macroeconomia

B)     L’analisi del processo economico

MICROECONOMIA  E MACROECONOMIA

La teoria economica marxista muove dalla macroeconomia; parte dal comportamento dei gruppi sociali (classi) e deduce il comportamento individuale.

La procedura della teoria economica borghese è opposta; fedele all’individualismo metodologico* colloca al punto iniziale del ciclo economico l’individuo preso isolatamente, interpretandolo come soggetto autonomo, non a caso definendolo “operatore individuale” (l’imprenditore, il risparmiatore, il consumatore…), è questa la materia della microeconomia. Il perno dell’economia è il comportamento individuale. La collettività è concepita come un insieme d’operatori indipendenti, ed i gruppi sociali come una mera aggregazione statistica, i cui comportamenti non sarebbero altro che la risultante dei modi di agire dei singoli soggetti. La teoria borghese pertanto, nega alla macroeconomia la capacità d’analisi autonoma, poiché non sarebbe in grado di dire nulla di nuovo circa il comportamento individuale, autentico motore dell’economia. Quest’impostazione è dominante ed accreditata dai manuali di studio.

Apparentemente la microeconomia si fonda sulla razionalità più persuasiva, ma analizzando i suoi elementi portanti scopriamo che si basa sull’individuazione delle condizioni necessarie affinché l’operatore individuale possa sopravvivere e riprodursi giacché tale. La microeconomia si può ridurre alle sue proposizioni fondamentali che essa stessa definisce: “Condizioni d’equilibrio”

-         ogni soggetto deve rispettare il vincolo di bilancio (pareggio d’entrate e uscite)

-         ogni soggetto deve agire in modo da massimizzare il proprio profitto (d’impresa o sotto forma di soddisfazione individuale) compatibilmente con i vincoli di mercato

Queste sono le condizioni d’equilibrio, ma sono anche le condizioni necessarie perché l’operatore possa continuare ad esistere, infatti, qualunque soggetto che non le rispetti è espulso dal mercato.

Una teoria economica che si fonda sulle condizioni necessarie affinché la collettività continui a riprodursi fatta d’operatori individuali, è una teoria che non spiega come avviene il ciclo economico, ma come deve avvenire perché continui ad apparire così. In questo senso la teoria economica borghese è mistificante, autogiustificante.

Il “fulcro” del ciclo economico non risiede nel comportamento individuale bensì in quello del gruppo sociale. Questa non è solo opinione marxista; studi realizzati da illustri economisti borghesi, giungono alla negazione dei presupposti della microeconomia proprio sviluppando la macroeconomia come teoria autonoma!

Knut Wicksell tra 800 e 900, Joseph Schumpeter ai primi del 900, Michael Kalecki e J. Mainard Keynes negli anni 30’, concludono tutti con l’individuazione del ruolo dominante del gruppo sociale all’interno del ciclo economico.

*Nota

L’individuo non è assolutamente autonomo ma legato da mille vincoli agli altri individui (psichici e culturali ancora prima che materiali), è chiaro, eppure la scienza borghese utilizza quest’approccio analitico in tutte le branche del sapere.

Il punto di partenza della realtà è l’individuo, la prospettiva individuale è posta come chiave d’interpretazione d’ogni fenomeno umano.

Gli analisti del pentagono scelsero l’escalation, in altre parole il graduale e progressivo aumento della forza contro i vietnamiti perché valutarono essere quello il miglior mezzo di dissuasione per un nemico affrontato sul campo come massa, ma analizzato come un insieme di soggetti singoli, sensibili alle leggi dell’egoismo individuale, “motore della società”. Un nemico composto di soggetti inducibili a considerare sconveniente proseguire la guerra o cercare la vittoria. Così non avvenne.

Eppure basta confrontare le perdite umane subite dalle due parti in lotta, per comprendere l’apparente fondatezza della valutazione nordamericana secondo quella logica.

Perdite USA                                            60.000 militari

Perdite Nordvietnamite e Vietcong      600.000  militari e 3.000.000 civili

Certo la spiegazione della sconfitta statunitense non sta tutta nella metodologia d’analisi applicata a quel conflitto, ma è altrettanto certo che un tale strumento di lettura della realtà non è adatto per comprenderla in modo esaustivo, perché viziato da un errore di prospettiva. Lo stesso errore riscontrabile nella storiografia ufficiale quando si vuole spiegare il nazismo con Hitler o l’URSS con Stalin. Proprio quell’errore cui si riferiva B. Brecht citando un classico passaggio storiografico: “Cesare conquistò la Gallia!” e subito dopo aggiungeva “.. non aveva con sé neanche un cuoco?”

L’analisi del processo economico

La teoria classica del processo economico è stata realizzata da Lèon Walras (“Elementi di economia politica pura” Parigi 1902),  successivamente approfondita e rafforzata analiticamente, rappresenta tuttora il fondamento della teoria economica tradizionale. In questa visione, il processo economico appare come un grande insieme di scambi simultanei e multilaterali che coinvolgono tutti gli operatori sul piano di parità. Si tratta di un modello che garantisce la possibilità di realizzare un equilibrio completo e generale, che contempla la piena occupazione e il controllo da parte dei consumatori della proprietà dei mezzi di produzione attraverso il possesso dei titoli.

Questa costruzione teorica del processo economico ed il ruolo che in esso è riconosciuto alla moneta, contrastano radicalmente con l’analisi marxiana.

In quest’ultima è fondante la metamorfosi del capitale, dal capitale denaro a capitale merce, a capitale ricostituito in forma di denaro accresciuto in quantità (D - M - D+). Il processo economico è qui analizzato come ciclo del capitale!

Secondo lo schema classico dell’economia borghese, il denaro ha una mera funzione d’intermediazione, è uno strumento per superare il baratto, ma un’analisi profonda del ciclo economico, che voglia spiegare in quale modo la moneta fa il suo ingresso, quali soggetti ne vengono in possesso e a quali condizioni, svela questioni fondamentali che rimangono altrimenti sconosciute. Vediamole.

1-       In un’economia monetaria scompare la pretesa posizione di parità di tutti i

      soggetti cara alla teoria borghese

Il ciclo economico, inteso come ciclo monetario, rende evidente la disparità fra   coloro che hanno acceso al credito e coloro che ne restano esclusi.

Poiché le banche prestano soldi a fini di lucro, solo le imprese sono ammesse al credito, esse, infatti, utilizzano le somme di denaro ricevute per acquistare forza lavoro e creare un processo di produzione che realizza profitti. I lavoratori-consumatori, invece, vengono in possesso di moneta soltanto perché vendono la propria forza lavoro in cambio di un salario.

Si noti che anche economisti borghesi hanno compiuto questa ricostruzione; vedi Wicksell: “Interesse monetario e prezzi dei beni “ (cap. IX sez. B), vedi Schumpeter: “Teoria dello sviluppo economico” (parte X cap. V), vedi Kalecki: “A macrodinamic Theory of business” (in Econometrica” 1935)

...E il credito al consumo? Ai lavoratori-consumatori sono concessi prestiti per l’acquisto dei beni, ad esempio l’auto o la casa…

A ben vedere la sostanziale posizione di disparità non cambia, perché non si tratta di reale credito ai lavoratori-consumatori, ma di credito a favore delle imprese, le quali in tal modo sono messe in grado di collocare sul mercato una quantità maggiore di prodotto.

2-    Solo le imprese godono d’accesso al credito, per questo esse sole controllano e regolano la produzione.

Il consumatore può soltanto scegliere ciò che gli conviene fra ciò che è prodotto e non può influire sulle decisioni di produzione, né imporre prodotti nuovi che le imprese non abbiano già deciso di realizzare. Neppure la singola impresa, il singolo imprenditore può essere decisivo nel controllo della produzione perché subisce il condizionamento della concorrenza. L’insieme del settore delle imprese è realmente determinante!

La produzione precede la domanda e non viceversa, perché solo la produzione crea reddito, e solo il reddito può permettere una domanda solvibile sul mercato.

Se non fosse per la manipolazione della domanda indiretta che crea l’opposta impressione che quanto è offerto è ciò che è domandato, questa condizione sarebbe apparsa evidente da tempo. Si noti che la concezione classica sostiene che la produzione è controllata dal consumatore grazie al fatto che egli sarebbe in grado di valutare la soddisfazione che potrà trarre da ogni merce, indipendentemente dal fatto che quella merce sia stata posta in vendita e che egli n’abbia già fatto uso, permettendogli inoltre di contrattare il prezzo, contrattazione che nel modello astratto d’analisi del ciclo economico precede la produzione (!)

3-    La possibilità di contrattare il salario in termini reali viene meno perché il

     mercato del lavoro è separato da quello delle merci.

Il lavoratore-consumatore è succube della produzione, non può contrattare simultaneamente offerta di lavoro e domanda di prodotto, quindi non conosce con sicurezza il livello dei prezzi. Solo quando si reca concretamente sul mercato ad acquistare le merci conosce il salario reale, dunque non è esente da illusioni monetarie.

4-    Il salario nasconde il meccanismo con cui si realizza il profitto.

Le imprese come realizzano il profitto? Mediante lo scambio, risponde la teoria borghese. Sovraccaricare il prezzo delle merci, venderle ad un prezzo superiore al loro valore crea profitto. Ciò in realtà non è possibile, quello che si dovrebbe guadagnare costantemente come venditore si perderebbe altrettanto costantemente come compratore, annullando così l’attività lucrativa. Anche la distinzione fra produttori e consumatori non spiega nulla, ciò che i consumatori pagano al produttore dovrebbero averlo prima ricevuto da lui per niente.

La natura generale dei profitti risiede nel fato che le merci in media sono vendute ai loro valori reali, cioè in base alla quantità di lavoro che in esse è incorporata. Che cosa significa?

Un’unica merce, un paio di scarpe per esempio, è scambiabile in diverse proporzioni con altre merci, ma il suo valore resta sempre lo stesso. Che si scambi con una quantità di riso, seta o qualsiasi altra merce, il suo valore resta uguale, perché è uguale ad una terza cosa in grado di rappresentare la misura comune di tutte le merci: il lavoro sociale. Vale a dire il lavoro necessario per produrre la merce, secondo la divisione che di esso si realizza in una data società ed il livello raggiunto dalle forze produttive.

Siccome il salario è la forma retributiva della vendita del lavoro, deve esistere un “valore” del lavoro. Ma non esiste un valore del lavoro; sappiamo che il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro necessario a produrla e accumulata in essa, quindi affermare che il valore di una giornata di lavoro di 10 ore è uguale a 10 ore di lavoro non significa nulla. Il problema diventa chiaro soltanto se si approfondisce l’analisi di ciò che realmente retribuisce il salario; non retribuisce direttamente il lavoro, ma la personalità vivente nel compimento di una data attività messa a disposizione di chi la compra. La disponibilità al lavoro come merce di scambio è allora qualcos’altro dal lavoro, è la forza –lavoro. Il valore di quest’ultima è dato (come ogni altra merce) dalla quantità di lavoro necessario per la sua produzione, in altre parole dal valore di ciò che è indispensabile per produrla, svilupparla, conservarla e perpetuarla.

“..Supponiamo ora che la produzione della quantità media d’oggetti correnti necessari alla vita di un operaio richieda sei ore di lavoro medio. Supponiamo inoltre che sei ore di lavoro medio siano incorporate in una quantità d’oro uguale a tre scellini. In questo caso tre scellini sarebbero il prezzo o l’espressione monetaria del valore giornaliero della forza-lavoro di quell’uomo. Se egli lavorasse sei ore al giorno, produrrebbe ogni giorno un valore sufficiente per comperare la quantità media degli oggetti di cui ha bisogno quotidianamente, cioè per conservarsi come operaio.

Ma il nostro uomo è un operaio salariato. Perciò egli deve vendere la sua forza lavoro ad un capitalista. Se la vende a tre scellini al giorno, o diciotto scellini alla settimana, la vende secondo il suo valore. Supponiamo che egli sia un filatore. Se egli lavora sei ore al giorno, egli aggiunge al cotone un valore di tre scellini al giorno. Questo valore che egli aggiunge giornalmente al cotone costituirebbe un equivalente esatto del salario, o del prezzo, che egli riceve giornalmente per la sua forza lavoro. In questo caso però il capitalista non ricava nessun plusvalore, o nessun sopraprodotto. Qui urtiamo nella vera difficoltà. Comperando la forza lavoro dell’operaio e pagandone il valore, il capitalista, come qualsiasi altro compratore, ha acquistato il diritto di fare uso della forza lavoro, cioè di farla lavorare, per tutto il giorno o per tutta la settimana.(…) Pagando il valore giornaliero o settimanale della forza lavoro del filatore, il capitalista ha acquistato il diritto di usare questa forza lavoro per tutto il giorno o per tutta la settimana. Perciò egli lo farà lavorare, supponiamo, dodici ore al giorno. Oltre le sei ore che non gli sono necessarie per produrre l’equivalente del suo salario, cioè del valore della sua forza lavoro, il filatore dovrà dunque lavorare altre sei ore, che io chiamerò le ore di sopralavoro, e questo sopralavoro si incorporerà in un plusvalore e in un sopaprodotto. Se per esempio il nostro filatore, con un lavoro giornaliero di sei ore, ha aggiunto al cotone un valore di tre scellini, un valore che rappresenta un equivalente esatto del suo salario, in dodici ore egli aggiungerà al cotone un valore di sei scellini e produrrà una corrispondente maggiore quantità di filo. Poiché egli ha venduto la sua forza lavoro al capitalista, l’intero valore, cioè il prodotto da lui creato, appartiene al capitalista, che è, per un tempo determinato, il padrone delta sua forza lavoro. Il capitalista dunque anticipando tre scellini, otterrà un valore in cui si sono cristallizzate dodici ore di lavoro. Se egli ripete questo processo quotidianamente il capitalista anticipa ogni giorno tre scellini e ne intasca sei, di cui una metà sarà nuovamente impiegata per pagarei nuovi salari, e l’altra metà formerà il plusvalore, per il quale il capitalista non paga nessun equivalente. E’ su questa forma di scambio tra capitale e lavoro che la produzione capitalista o il sistema del (lavoro) salariato è fondato, e che deve condurre a riprodurre continuamente l’operaio come operaio e il capitalista come capitalista.”

(Karl Marx “Salario, prezzo e profitto”)

Per svelare meglio la natura occulta del profitto, proseguiamo ad indagare nel laboratorio della produzione…

Supponiamo un ciclo di produzione di tavoli in cui è impegnato un capitale di 100 milioni. Di questi 60 milioni comprano i materiali da lavoro, 30 milioni sono l’ammortamento del capitale fisso, macchine , impianti, edifici; abbiamo dunque un capitale costante (c) di 90 milioni, il cui valore passa nel prodotto. Altri 10 milioni servono a pagare i salari, sono il capitale variabile (v). Supponiamo inoltre che il prodotto finito valga 110 milioni, con un plusvalore (p) di 10 milioni: cioè 90 (c) + 10 (v) + 10 (p) = 110. Allora la forza lavoro, pagata 10 milioni, ne avrà prodotti 20 (i 90 di capitale costante sono passati interamente nel prodotto) cioè il tempo di lavoro è stato per metà tempo necessario e per metà pluslavoro. Il saggio del plusvalore è stato di 10 diviso 100, cioè del 100%.

Ma il capitalista (e tutta la scienza economica) non fa questo calcolo: non rapporta il plusvalore ai salari, ma a tutto il capitale. Non misura il saggio del plusvalore p/v, ma il “saggio del profitto” p/c + v, il rapporto fra il plusvalore e l’intero capitale impiegato.

Nell’esempio precedente, il saggio del profitto risulta 10 diviso 100, cioè del 10%.

Il plusvalore sembra allora derivare tutto dal capitale, diventa irriconoscibile: in questo miscuglio di uomini e cose che è profitto: ogni volta che in un calcolo apparentemente innocente si fa il rapporto fra il nuovo valore prodotto e l’intero capitale, si introducono di soppiatto i rapporti sociali dominanti.

La critica della economia politica distinguendo il capitale costante dai salari (il “capitale costante” è scoperta di K. Marx, non si trova questo termine nei libri di economia o di contabilità) rivela lo sfruttamento: il profitto del capitalista dipende dal fatto che egli può vendere qualcosa che non ha pagato!

E possiamo ora capire il mistero della autovalorizzazione del capitale, perché oggi “come un pero produce pere, il denaro produce nuovo denaro”. Detratta la parte consumata come reddito dal capitalista, il plusvalore diventa nuovo capitale, e subito la sua storia scompare: ormai il lavoro non pagato ha dimenticato la sua origine, ed è diventato solo un mezzo per appropriarsi di nuovo di lavoro non pagato. Il risultato è un continuo pompare lavoro vivo non pagato nel serbatoio “capitale” che cresce sempre di livello, mentre a chi fornisce quel lavoro vivo resta sempre in mano solo la sua forza lavoro da vendere: questo è il mistero della apparente autovalorizzarsi del capitale, del denaro che sembra figliare denaro.

E’ questa capacità di succhiare lavoro vivo, qualunque merce si produca, è ormai cosa pacifica e regolare, che la pompa è data in affitto dalle banche, diventa la capacità dei depositi di dare un interesse senza nemmeno nominare il genere di produzione in cui il denaro sarà impiegato: anche gli onesti risparmi diventano capitale. Da mena sera, a chiunque appartenga, il capitale succhia lavoro vivo (dice Marx citando un verso di Dante: “come se in corpo ci avesse l’amore”).

5-    La natura del capitale illumina la struttura classista della società il carattere falso di essa.

Il capitale è, dice Marx, valore che si valorizza, che si conserva e accresce incorporando pluslavoro, cioè sfruttando il lavoro salariato.

Allora per “capitale”, i marxisti intendono una cosa completamente diversa dai padroni (e dai loro portavoce, gli economisti). Per questi infatti, il capitale è l’anticipo: cioè i mezzi di produzione che il capitalista anticipa alla produzione, rendendo possibile lo svolgimento del processo produttivo. Essi dicono: un anticipo alla produzione c’è sempre stato. Per esempio il cacciatore della società primitiva per iniziare il suo processo produttivo (la caccia) doveva avere un anticipo, vale a dire un mezzo di produzione già prodotto in passato (nel suo caso l’arco e le frecce): l’arco e le frecce sono il suo “capitale”, la stessa cosa su scala più vasta avviene nell’economia moderna. Questo è un esempio tipico di ragionamento borghese, che non considera il capitale come un rapporto sociale, storicamente determinato, ma come una cosa, come un oggetto, di cui non si può fare a meno. In questo modo i borghesi “eternizzano” il modo di produzione capitalistico, ne celano la natura storica del tutto peculiare (separazione fra produttori e mezzi di produzione, sfruttamento, lavoro alienato, ecc.).

Marx fa l’esempio di un altro ragionamento di questo tipo, che può essere fatto da un ideologo del razzismo: che cos’è, uno schiavo negro? Un uomo di razza nera. Una spiegazione vale l’altra.

Un negro è un negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo. Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale. Sottratta a queste condizioni essa non è capitale, allo steso modo che l’oro in sé e per sé non è denaro o lo zucchero non è il prezzo dello zucchero.

Dunque il capitale è un rapporto sociale e non una cosa, un rapporto di sfruttamento fra proprietari del capitale (del denaro che viene investito e in questo modo si accresce) e proprietari di forza-lavoro, un rapporto tra classi, non “naturale-eterno”, ma storico-sociale, perché appare solo in un determinato periodo della storia umana (la società borghese moderna).

Ma al borghese e ai suoi portavoce il suo capitale gli appare come una cosa: una somma di denaro che cresce, oppure gli impianti della sua fabbrica. E’ questo che intende Marx quando parla di “feticismo” del capitale e delle merci.

Il prodotto del lavoro umano, della fatica e del sudore dei lavoratori salariati appare alla superficie del mondo capitalistico (il “mondo degli affari”, “l’opinione pubblica”, ecc.) come una cosa, dotata di una straordinaria virtù, quella di conservarsi, accrescersi e svilupparsi, arricchendo il suo proprietario: il capitalista, il venditore di merci (a chi viene in mente di pensare, per esempio, che l’interesse che gli frutta ogni anno il proprio denaro investito in un’azione non sia altro che la materializzazione di un pezzo di sfruttamento del lavoro operaio? L’esistenza di un “saggio d’interesse” è una cosa “naturale”: mentre lo s’intasca non si vede quale sia la sua origine!).

In questo senso nel capitalismo, i rapporti sociali tra gli uomini assumono la forma di feticci, di cose (merce, denaro, ecc.) che nascondono la loro vera origine.

Il sistema capitalista e il sistema socialista

La teoria e il movimento che propugnano il possesso e il controllo dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori per realizzare il potere (dittatura) del proletariato, formano la “sostanza” del socialismo.

Si tratta di una fase di transizione tra società capitalista e la meta ideale, la società comunista. Permangono numerosi parti del modo di produzione capitalistico, in primo luogo il salario e lo Stato.

Ma in termini prettamente economici, il socialismo in cosa consiste?

Il modo migliore di definirlo è mettere in luce ciò in cui differisce dal modo di produzione capitalistico;

il capitalismo e produzione di merci per il profitto privato basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione

il socialismo è produzione pianificata per l’uso basata sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione

                                                                                            

                                                    Confronto schematico

                                                                                                   

                                                               capitalismo                               Socialismo

Principio regolatore

Il mercato

Il piano

Forza motrice

Il profitto

La soddisfazione dei bisogni

Tipo di proprietà

Proprietà privata del capitale

Proprietà pubblica dei mezzi di produzione

Base politica

Domino dei ricchi , dei possessori del capitale

Potere al popolo lavoratore le cui organizzazioni di massa partecipano in modo determinante al governo e all’amministrazione

Un altro modo per comprendere meglio la diversa natura dei due sistemi mediante un confronto comparativo, sta nel considerare quelle che durante il dibattito sviluppato intorno ai problemi economici del socialismo nel secondo dopoguerra venivano definite “leggi economiche fondamentali”.

Quella capitalista corrisponde alla legge del plusvalore, cioè alla legge della formazione e del profitto capitalistico. Legge fondamentale del socialismo è invece l’assicurazione del massimo soddisfacimento delle necessità materiali e culturali della società.

Catalogazione e descrizione dei sistemi economici realizzati dal socialismo

Affrontiamo ora la catalogazione dei sistemi di funzionamento di un’economia socialista storicamente conosciuti, utilizzando il modello concepito dall’economista polacco Wlodizmier Brus, e da noi semplificato.
La classificazione è compiuta muovendo da un criterio di distinzione schematica tra:

A) Decisioni macroeconomiche concernenti le linee di sviluppo principali dell’economia nazionale e i grandi obiettivi della politica sociale

B) Decisioni microeconomiche a livello d’impresa o d’insieme d’imprese

C) Decisioni individuali prese dalle singole famiglie nella sfera dell’occupazione e del consumo

Se con il termine di “centralizzazione” indichiamo i metodi diretti di gestione dell’economia e col termine “decentramento” i metodi indiretti, possiamo giungere alla classificazione che segue.

Comunismo di guerra

Centralizzati A-B-C

Socialismo sovietico centralistico

Centralizzati A-B

Decentralizzato C

Socialismo sovietico decentrato

Centralizzato A

Decentralizzati B-C

Socialismo di mercato

Decentralizzati A-B-C

Economia mista

“Centralizzato” A

Decentralizzati B-C

Comunismo di guerra

URSS 1917-1920

La presa del potere da parte dei bolscevichi scatena la fuga dei capitalisti che abbandonano in massa il suolo sovietico.

L’esodo avviene sulla spinta delle misure d’esproprio del capitale privato operate dal governo rivoluzionario mediante le nazionalizzazioni, spesso accelerate dalla fuga d’interi consigli d’amministrazione aziendali. La gestione delle imprese tocca così agli organi di controllo operai.

Le distruzioni belliche, il caos post-rivoluzionario, la resistenza passiva di borghesi e zaristi, e soprattutto l’intervento degli eserciti stranieri per soffocare la rivoluzione, impongono la militarizzazione della economia.

La centralizzazione nella gestione della produzione e della distribuzione s’impone come misura di sopravvivenza della Unione Sovietica, soluzione pratica, ancor prima che ideologica.

Le direzioni generali (nel numero di parecchie dozzine), elaborano piani d’utilizzazioni delle risorse in base ai quali sono regolati i rapporti di scambio tra le varie unità economiche. Ciascuna direzione generale si articola verticalmente sotto l’autorità di una sola persona; è il cosiddetto “Glavkismo”, da “Glavki”, l’abbreviazione russa che sta ad indicare la forma istituzionale più significativa del sistema di gestione del “comunismo di guerra”. I rapporti di mercato sono notevolmente ridotti oltre che dagli scambi diretti fra unità economiche e dall’abolizione del commercio privato, dalla parziale demonetizzazione dei salari.

I lavoratori non ricevono quasi più salari in denaro, ma sotto forma d’assegnazioni in natura e su base egualitaria. La partecipazione al lavoro non è legata all’incentivo materiale bensì all’obbligo generale delle responsabilità, che è fatta rispettare con severi provvedimenti amministrativi. Tutto ciò corrisponde alla immagine del futuro contenuta in “Stato e rivoluzione” di Lenin, che prevede la realizzazione pratica della concezione marxiana della gestione centrale della forza lavoro.

Ogni membro della società - scrive Lenin- eseguendo una certa parte del lavoro socialmente necessario, riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro, con questa scontrino egli ritira dai magazzini d’oggetti di consumo una corrispondente quantità di prodotti”.

La terra, liquidati i latifondi e formalmente nazionalizzata, appartiene ai contadini. Essi devono però consegnare allo Stato Sovietico, dietro compenso in valuta, i prodotti eccedenti rispetto ai bisogni essenziali del nucleo famigliare.

La requisizione è un metodo diffuso.

Il governo rivoluzionario adotta inoltre una serie di provvedimenti determinati da sole istanze ideologiche. Servizio postale gratuito, distribuzione di pasti gratuiti per i bambini delle scuole, abolizione degli affitti e dei biglietti tranviari.

Il sistema di gestione economica denominato comunismo di guerra, può essere dunque considerato come un grandioso tentativo di creare nel breve periodo un ordinamento sociale i cui lineamenti si sviluppano all’interno della immagine del futuro del marxismo, o almeno della sua corrente bolscevica russa, e come risultato della situazione pratica di forza maggiore creatasi in seguito alla pressione della economia di guerra.” (Andras Hegedus)

L’eccezionale trasformazione socioeconomica realizzata è di portata tale da far pensare ad una scorciatoia verso il superamento dell’economia monetaria, che sia giunta la fine del capitalismo. Si anima un vivace dibattito sulle fondamentali questioni economiche che il movimento si trova ad affrontare, sicché nel 1920 si tiene un seminario: “Sui problemi dell’economia non monetaria”, in cui sono discussi vari progetti.

L’economista bolscevica Smit propone una misurazione composita dei costi come media calibrata di fatica umana, energia meccanica, calore, materie prime e macchine.

Strumlin elabora una variante di tale progetto; un unità-lavoro di costo definita “Tred” (tudovaja edinica) servirebbe a misurare i costi, ma egli vuole anche tenere conto della domanda del consumatore e dell’elaborazione di un meccanismo non monetario capace di conservare l’equilibrio tra domande e offerta. Alla fine giunge ad attribuire alla unità “Tred” una funzione quasi monetaria.

Kreve propone un altro progetto direttamente basato sulla teoria del valore-lavoro, i costi sarebbero espressi in unità standardizzate di lavoro socialmente necessario, utilizzate per scopi corretti con un’integrazione (in ore) per la spesa sociale in amministrazione, sanità, investimenti ecc. Al lavoratore si accrediterebbero le ore lavorative effettuate, e in conformità a queste si otterrebbero dai magazzini una quantità di prodotti pari al valore-lavoro da lui contribuito. In alcune di queste proposte il modello di consumo è determinato dal governo, e le merci sono distribuite come razioni. Tutti riconoscono che le funzioni del mercato non sono facilmente sostituibili e che il denaro non può essere abolito finché sono presenti le condizioni oggettive che rendono necessaria la sua esistenza.

Il primo sistema economico socialista realizzato, dunque, si configura come il frutto dell’integrazione di due fenomeni: l’ideologia comunista e la guerra civile.

Ma con la fine delle ostilità, le condizioni di dura necessità che tanto hanno contribuito ala sua formazione vengono meno…

Nazionalizzazione del capitale agrario e industriale

Centralizzazione della gestione di produzione e distribuzione

Parziale demonetizzazione: abolizione del commercio privato e retribuzioni con assegnazioni in natura

Socialismo Sovietico Centralistico

 URSS 1927/28-1960

Gli economisti sovietici degli anni 20’, dopo aver inseguito la completa demonetizzazione sull’onda dei successi del “comunismo di guerra”, si trovano alle prese con la necessità di sopravvivenza di uno Stato gravemente arretrato e isolato dal resto del mondo. Segue la NEP con le note contraddizioni, e la conseguente consapevolezza che la società socialista sarebbe rimasta dotata di un’economia di mercato, fino a quando non si fosse riusciti a superare la fase di transizione, ossia il passaggio dalla società capitalista a quella comunista.

Si pone allora una questione; come affrontare questa fase senza abbandonare gli obiettivi rivoluzionari? Esistevano in merito alla soluzione del problema varie teorie, ma due sole erano le impostazioni concettuali dominanti:

-     La pianificazione attraverso il mercato

 -    La pianificazione superando il mercato

All’interno del gruppo dirigente sovietico si formano due componenti che rispecchiano tale dicotomia; la “destra” guidata da Bucharin, Rykov (pres. del Consiglio dei Commissari del Popolo) e Tomskij (capo dei sindacati), che preme per spingere in direzione dell’economia di mercato, e la “sinistra” guidata da Stalin, Kuibysev (responsabile del Politburo per l’industria) e Kaganovic, che invece valuta improponibile la via “liberista”.

Il punto centrale della disputa consiste nel ruolo che si attribuisce alla “legge del valore” (più o meno equivalente a quella della domanda e dell’offerta) all’interno dell’economia socialista; Bucharin e i suoi seguaci valutano possibile l’azione dello stato attraverso il mercato, Preobrazenskij, invece nega che il potere regolatore dello Stato possa agire esclusivamente attraverso il mercato, additando la presenza di un conflitto fra due principi regolatori dell’economia: la “legge dell’accumulazione socialista” (indipendente dalle forze di mercato) e la “legge del valore”.

Stante il dibattito teorico, nel 27’ la maggioranza continuava ad insistere sulla necessità di giungere al socialismo attraverso il mercato, sicché gli abbozzi del “Piano Quinquennale” rimangono formalmente nei limiti della struttura di mercato della NEP, ma sono già evidenti i limiti quest’approccio.

L’industrializzazione sovietica non può essere finanziata con risorse interne, né con i prestiti e lo sfruttamento coloniale che avevano finanziato l’industrializzazione capitalistica dei paesi occidentali. Nelle condizioni dell’URSS, solo la classe operaia e i contadini possono essere le fonti principali dell’accumulazione di capitale per avviare l’industrializzazione, condizione                                                                                       indispensabile alla formazione di una potenza statale in grado di garantirsi l’indipendenza economica, in altre parole la sopravvivenza. Il pericolo di morte che grava sul paese sarà evidente già a partire dai primi anni 30’, quando diventerà prioritaria la difesa militare nei confronti del nazifascismo, che non farà alcun mistero delle proprie mire verso l’oriente europeo a spese del sovietismo.

Nell’ottobre-dicembre del 27’, una crisi cerealicola fa sì che i contadini vendano agli enti d’ammasso ufficiali solo la metà dei cereali venduti nei mesi corrispondenti dell’anno prima. La quantità è insufficiente per nutrire la città e l’esercito; per evitare una disastrosa carestia le misure di requisizione sono rapidamente ripristinate. Per la NEP è l’inizio della fine.

Nel corso del 1928 e del 29’ il ritmo dell’industrializzazione è incessantemente accelerato e, con l’aumento della spesa dello Stato, aumenta anche lo squilibrio tra offerta e domanda. Nell’estate del 1929 il mercato fra lo Stato e il contadino è ormai del tutto crollato.

Le prospettive che prevedevano che i contadini dovessero giungere volontariamente al socialismo, e che la città dovesse offrire per i prodotti agricoli prezzi che i contadini fossero disposti ad accettare, scompaiono rovinosamente.

Le minacce incombenti e le condizioni di generale arretratezza del paese inducono al superamento delle contraddizioni della NEP utilizzando il potere coercitivo dello Stato per spremere il capitale privato ed imporre, con la forza, il socialismo ai contadini. Ciò tradotto in termini politici significa intensificare la lotta di classe; nel 29’ prende il via la collettivizzazione agraria forzata e la conseguente eliminazione dei “kulaki” (i contadini benestanti) in quanto classe, mediante arresti e deportazioni.

Questa è una pagina della storia dell’URSS fra le più controverse; la rozza collettivizzazione forzata era l’unica via percorribile? Si è trattato di una tragedia inevitabile?

Si ricordi che la fine dell’ondata rivoluzionaria in Europa occidentale aveva spinto l’URSS ad adattarsi alla costruzione del “socialismo in un solo paese”, ma il contesto politico ed economico si prestava ben poco alla realizzazione di questo programma;

-         Il “Partito” era soprattutto Partito urbano. Alla vigilia della rivoluzione tra i suoi membri si contavano soltanto 494 contadini! E prima del 1917 esistevano solo quattro cellule rurali. Anche a metà degli anni 20’ il Partito rimaneva un’organizzazione prevalentemente urbana; all’inizio del 26’ solo il 16% degli iscritti e dei candidati all’iscrizione lavoravano come contadini, il che equivale ad un contadino su 150 unità domestiche.* Dunque il Partito rappresentava un lontano organismo urbano, e l’influenza del soviet del villaggio era inferiore a quella del “mir”, la tradizionale comunità di villaggio.

-         Verso la metà degli anni 20’ quella sovietica era ancora in grandissima misura un’economia contadina. La rivoluzione d’Ottobre aveva liberato i contadini dall’oppressione nobiliare e dai latifondisti, lasciandoli liberi di tornare al “mir”, la comunità autosufficiente e arcaica, quasi tribale. Logica, quindi la loro resistenza alla collaborazione con i proletariato urbano. L’URSS era un paese di contadini, ora riottosi, e con loro si procedeva alla rapida costruzione di uno Stato socialista industrializzato, “moderno”.

Dunque il governo sovietico punta sul massimo controllo statale mediante il meccanismo di pianificazione centralizzata “superando il mercato”. Per questo scopo sono sviluppati gli enti di controllo centrale del governo zarista (trasporti, agricoltura e statistica), aggiungendo altri due dipartimenti nevralgici: quello per l’industria, il cosiddetto Consiglio supremo dell’economia nazionale (Vesencha), e quello per la Pianificazione (Gosplan).

Numerosi resoconti sul funzionamento dell’amministrazione economica ne descrivono in modo convincente l’oculatezza e l’originalità, così come la confusione e le lentezze burocratiche. Aspetti presumibilmente coesistenti.

Va rilevato che la pratica dell’economia sovietica ha gettato le basi dell’equilibrio delle relazioni intersettoriali della teoria dello sviluppo economico. Si era nel 24’ quando l’Ufficio Centrale di Statistica cominciò a compilare il bilancio dell’economia nazionale per il 1923/24. Anche le recenti applicazioni della teoria dell’analisi quantitativa, rese possibili dalla scoperta della programmazione lineare per opera del matematico sovietico L. V. Kantorovich, sono comparse per la prima volta sul finire degli ani 30’ nella ricerca della migliore utilizzazione delle materie prime nelle imprese socialiste.

Il Piano Quinquennale si sbarazza dell’orientamento verso il mercato ed avvia un ciclo economico in cui l’anarchia pubblica della produzione cede il posto ad una regolamentazione pianificata della produzione, secondo le esigenze dello Stato Socialista. La direzione delle aziende si limita a produrre su ordinazione, per acquirenti già prescelti, ottenendo le materie prime da fornitori già selezionati, il tutto a prezzi fissati in sede centrale. Il controllo centrale delle risorse garantisce grandi successi iniziali, la virtuale eliminazione del meccanismo di mercato annuncia un rapido progresso verso il socialismo. L’euforia del momento genera grossolani errori di pianificazione, molte previsioni devono subire un notevole ridimensionamento; ad esempio la prima versione del 2° piano quinquennale per il periodo 1933/37 poneva come obiettivo produttivo del carbone la cifra fantasiosa di 250 milioni di tonnellate, ridotte a 150 milioni nel 34’.

Nonostante i costi umani e gli errori, la rapida industrializzazione forzata decolla.

Ecco gli indici comparati dello sviluppo industriale in URSS, USA ed Europa

 

                1913                                     

               1933

                  1938

URSS

                100%

               380,5%

                  908,8%

USA

                100%

               108,3%

                  120,0%

Inghilterra

                100%

                87,0%

                  119,3%

Germania

                100%

                75,4%

                  131,6%

Francia

                100%

               107,0%

                    95,2%

In questa fase la propaganda occupa molto spazio della vita pubblica allo scopo di intensificare la produzione facendo leva sullo spirito dei lavoratori anziché sugli investimenti in nuove attrezzature o sugli incentivi salariali. Per incitare le masse ad impegnarsi in un gigantesco lavoro collettivo, viene lanciata una campagna all’insegna dell’emulazione socialista; il minatore Aleksej Stakhanov che stabilisce un record nella produzione di carbone superando di 14 volte la norma, diviene il modello per una nuova categoria di lavoratori, vale a dire una categoria di lavoratori coscienti di partecipare alla costruzione di uno Stato in cui sono protagonisti, non più salariati al servizio dell’arricchimento di pochi.. Gli “stacanovisti” hanno pubblico riconoscimento oltre a particolari privilegi, come quello di consumare i pasti in speciali locali delle loro unità produttive. Centinaia e centinaia di fabbriche gareggiano le une contro le altre per raggiungere determinati obiettivi produttivi, in ogni fabbrica, in ogni cantiere l’organizzazione del partito si assume la diretta responsabilità del superamento delle quote fissate dal piano. Un decreto del 31’ stabilisce che in tutte le fabbriche con 500 o più lavoratori il partito deve essere presente con un’organizzazione a tre livelli, comprendente un comitato preposto agli affari del partito nell’ambito della fabbrica, un certo numero di cellule di reparto ed infine le “cellule di collegamento” o “gruppi di partito” all’interno dei reparti.

L’industrializzazione punta su alcuni settori e annette una speciale importanza ad un limitato numero di progetti industriali. Questi grandi “stroikj” (progetti di costruzione) non hanno soltanto un eccezionale rilievo dal punto di vista economico, ma sono esaltati ad uno ad uno come monumenti dell’industrializzazione e si trasformano in strumenti di propaganda. Il primo Piano Quinquennale comprende imprese d’eccezionali dimensioni: Dnieprostoj (un gran bacino idroelettrico sul fiume Dnieper), Belomorstroj (il canale per il collegamento dei fiumi del Mar Bianco e del Baltico), la fabbrica di trattori di Stalingrado e Magnitostroj, cioè un colossale centro siderurgico in una zona desertica a ridosso del versante orientale degli Urali, lontano dai potenziali nemici europei.

Accanto ai successi dell’industrializzazione vanno però prendendo corpo caratteristiche dello Stato Socialista che avranno gravi conseguenze nel futuro.

L’immane sforzo che si realizza, ottiene il coronamento grazie al controllo esercitato da un apparato burocratico di grandi dimensioni…

L’inadeguata base economica, il basso profilo quantitativo della classe operaia, l’impreparazione delle masse a servirsi di strutture statali nella vita civile di ogni giorno, offrono alla rivoluzione una prospettiva difficilissima, quasi impraticabile.

Ciononostante sotto la direzione di un piccolo ma combattivo partito comunista, viene portata a termine una radicale trasformazione dei rapporti di produzione, il cui funzionamento e legato al fatto che il partito (in quanto “avanguardia della classe operaia”), si fa carico dei compiti amministratrici ed educativi, che in condizioni di minore arretratezza  sarebbero svolti dalla classe operaia, ispiratrice della maggioranza della popolazione. In queste condizioni è giocoforza che nasca un apparato burocratico di partito, non come deformazione, ma come forma determinata che l’organizzazione dei rapporti socialisti di produzione deve assumere, data l’immaturità economica e sociale del paese.

Le vicende belliche del secondo conflitto mondiale daranno ragione alla priorità dell’industrializzazione forzata applicata alla pianificazione sovietica; soltanto le enormi potenzialità industriali costruite negli anni 30’, unite al sacrificio patriottico di milioni di sovietici, consentono di resistere ed infine schiacciare il nazifascismo.

La collettivizzazione dell’agricoltura, la gigantesca costruzione di nuove industrie, la generazione di un completo sistema educativo sono portati a termine con ritmi stupefacenti e sotto la dittatura dell’apparato di partito.

Contropartita sono grandissimi sacrifici e repressione brutale d’ogni resistenza; ma si ottiene anche un sicuro miglioramento delle condizioni di vita delle masse e della loro sicurezza sociale. La resistenza della popolazione sovietica alla propaganda nazista (anche nei territori occupati), la disponibilità a difendere la patria, con essa, il sistema socialista, mostrano chiaramente che le masse popolari sentivano la società sovietica come un progresso storico.

Anche la fase della costruzione, nel dopoguerra, è sostenuta da un analogo slancio e da larga adesione emotiva al sistema politico. Tutto lo sviluppo viene orientato ancora una volta sulla crescita della produttività sociale, e solo in subordine all’incremento adeguato del benessere individuale e sociale. In una situazione di grande arretratezza e di riduzione, per causa bellica, della capacità di sviluppare e soddisfare i bisogni materiali, l’interesse principale era quello per il miglioramento delle condizioni materiali di vita, ma questo dipende a sua volta dalla crescita della produzione industriale, che però (nonostante i successi ottenuti in certi dì settori) resta nell’insieme molto inferiore ai livelli dei paesi capitalistici industriali. Cosi per lunghi anni dopo la seconda guerra mondiale, la priorità economica è riconosciuta agli investimenti nella industria pesante, e il benessere individuale, perciò, si arresta molto al di sotto dei livelli di una moderna industrializzazione complessiva. Il “comunismo della costruzione del paese”, reso più duro dalla guerra e intessuto di sacrifici nel confronto con i paesi industrializzati dell’Occidente rimane la sorte anche della seconda generazione di cittadini sovietici”. (“Sconfitta e futuro del Socialismo” Hans Heinz Holz)

Ancora indici comparativi dello sviluppo industriale in URSS e USA

 

1943

1946

1947

1948

1949

1950

1951

1952

URSS

104

80

103

108

161

195

210

290

USA

2208

157

175

182

165

188

210

206

*Nota

“Razresenie agrarnogo voprosa v Rossii posle pobedy octjabr’skoj revolucii” 1961 pag 174 citato da R. W. Davies in “Le scelte economiche dell’URSS” 1980

Abolizione rapporti di mercato

Ripristino ottimizzato della direzione centralizzata di produzione e distribuzione

Abolizione del commercio privato

Collettivizzazione delle proprietà agricole

Industrializzazione forzata

 

Cina 1949-1977/78

Il primo intervento dello Stato all’avvento del regime rivoluzionario è la lotta all’inflazione, che raggiungeva il 20% al giorno. Nel novembre del 49’ una stretta selvaggia blocca tutti i prestiti bancari e la spesa pubblica non strettamente indispensabile. Gli speculatori avevano ammassato molta merce con denaro preso a prestito e si assoggettavano a pagare tassi d’interesse altissimi; di fronte ad una stretta così violenta sono costretti a vendere le merci. In concomitanza le imprese commerciali statali buttano sul mercato le loro scorte e i prezzi riescono a fermarsi. E’ emessa una nuova moneta, il “renminbi, ” ma il suo valore è talmente incerto che i prestiti nazionali sono calcolati in un’unità di conto, il “fen”, cioè l’equivalente di 3 kg. di riso, 0,75 di farina di grano, 1,33 metri di cotonata, e 8 kg. di carbone. Buona parte delle imposte sono riscosse in natura. Stabilizzatisi i prezzi, i risparmiatori tornano ad affluire nelle banche, può allora diminuire la stretta sul credito e concedere finanziamenti alle imprese e alle cooperative.

Subito dopo la proclamazione della Repubblica Popolare (1-10-1949), il regime espropria i possidenti e distribuisce le terre a 350 milioni (!) di contadini poveri. Ciascuno riceve in media 1500 metri quadrati di campo o risaia, un minimo appena sufficiente a  combattere la miseria, ma benchè ogni famiglia disponga di meno di un animale da tiro e ci sia meno di un aratro ogni due famiglie, il contadino cinese è compiaciuto della sua nuova condizione; gli basta volgersi indietro per essere perfino entusiasta: latifondismo, strozzinaggio, schiavitù, miseria e fame da quattromila anni!

Ai proprietari non coltivatori sono espropriati i terreni, i capitali agrari ed il bestiame. Ai proprietari coltivatori (i “kulak” russi) non si espropriano i terreni coltivati direttamente o attraverso salariati fissi, ma solo i terreni dati in affitto che superavano il limite del doppio della superficie media della proprietà terriera del villaggio. La terra ridistribuita tra i contadini non viene data in proprietà, ma in affidamento perpetuo. Sono espropriati 46,5 milioni di ettari, pari al 46% delle terre coltivate.

L’impegno bellico della Cina nel conflitto coreano a fianco dei nordcoreani contro gli americani costringe lo Stato ad allentare la pressione per la stabilizzazione dell’economia, e il mercato è nuovamente dominato dai privati. Le risorse finanziarie dello Stato sono insufficienti, le strutture deboli, i quadri impreparati e permeabili alla corruzione. Contromisura a tale condizione deficitaria è una gran campagna detta dei “tre contro” (sanfan) e dei “cinque contro” (wufan). La campagna è contro i tre vizi principali dei quadri, la corruzione, lo spreco e la burocrazia, e contro i cinque comportamenti negativi principali dei privati, le bustarelle, l’evasione fiscale, l’abuso di beni dello Stato, la truffa nei contratti, e la sottrazione d’informazioni economiche. Si mettono in moto le masse su obiettivi politici, per appoggiare le forze rivoluzionarie impegnate nello sforzo di assicurare l’incremento delle entrate dello Stato. L’attacco alla classe borghese porta ad investigare su 450.000 imprese, di cui ¾ risultano responsabili di qualcuno dei cinque vizi. Pochissimi dei piccoli capitalisti responsabili sono imprigionati, ma moltissimi sono costretti a pagare forti multe. Il loro potere diminuisce.

Frenato il rafforzamento del capitalismo si provvede alla costruzione di un’economia di Stato prima inesistente, nel campo dell’industria pesante, e all’esecuzione d’enormi opere pubbliche attraverso la mobilitazione della mano d’opera. Questo è il periodo in cui più stretti sono i legami e maggiore l’influenza dell’URSS; gli aiuti sovietici per la costruzione d’alcuni grandi impianti e lo sfruttamento delle risorse naturali sono sostanziali (i tecnici sovietici impegnati sono oltre 10.000). Durante il 1° Piano Quinquennale, l’aiuto ammonta alla metà di tutta la costituzione di capitali fissi. Non si tratta di doni, ma di condizioni di finanziamento particolarmente favorite. Mao definisce questo periodo come quello in cui la Cina “s’inclina da un lato”. Grazie a questi aiuti, infatti, è resa possibile la creazione di una base produttiva risparmiando alla Cina l’esperienza drammatica dei primi due piani quinquennali sovietici, quando la costruzione dell’industria avvenne attraverso l’accumulazione forzata ai danni delle campagne.

Il 1° Piano quinquennale è un successo, il prodotto interno lordo aumenta del 50%.

Alla riforma agraria  segue la cooperativizzazione delle campagne. Inizialmente ostacolata dai contadini, è diffusa con profitto quando risulta evidente che conviene sia allo Stato, che dirige la produzione, l’immagazzinazione e la distribuzione, sia agli agricoltori, che sono beneficiati dai salari distribuiti con i fondi cooperativi, salari che garantiscono un guadagno superiore a quello realizzato dal lavoro della singola famiglia.

La costruzione dello Stato socialista cinese registra due importanti novità: la formazione di due fazioni in seno al PCC; i “tecnocrati”, fautori di un modello economico regolato dal mercato, e i “politici”, sostenitori dell’egualitarismo e dei grandi movimenti di massa (si vanno delineando la “linea nera” e la “linea rossa”), e la differenziazione fra città e campagna .

Il periodo del “Grande Balzo in Avanti” (1956-66’) apre un nuovo corso politico; la necessità di accelerare i tempi della trasformazione economica (soddisfacente ma ancora troppo lenta) e la divisione tra maoisti e tecnocrati, spinge a seguire una via diversa da quella sovietica: aumento della produzione attraverso la collettivizzazione e il decentramento dell’iniziativa.

Se nel periodo del 1° Piano Quinquennale la campagna dei “Cento Fiori” aveva blandito l’opposizione controrivoluzionaria consentendo il fiorire di idee “liberiste”  il nuovo corso del “Balzo” promuove l’uniformità ideologica; si dice allora che “la campagna era servita ad individuare i 99 fiori da tagliare!”

La collettivizzazione delle campagne si accelera in modo forzato; nel 59’ le cooperative comprendono il 59% delle famiglie e compaiono i collettivi, unità produttive agricole dotate di autonomia economica ed amministrativa, presto sostituite dalle Comuni.

Nel 58’ sono create le Comuni Popolari, entità socioeconomiche che raggruppano decine di villaggi e decine di migliaia di persone, divise in brigate e in squadre. Ciascuna in media di 5000 famiglie, differiscono dai “kolchoz” sovietici poiché oltre ad essere una sorta di gigantesche cooperative di produzione, sono anche organi amministrativi, come dire grandissimi municipi o distretti, padroni delle officine sorte nel loro ambito, delle scuole, degli impianti elettrici e idraulici. Le brigate che le compongono, che riuniscono uno o diversi villaggi, restano le proprietarie delle terre, degli strumenti agricoli, delle bestie; le squadre, unità di base formate da alcune famiglie, hanno l’ultima parola in fatto d’assegnazione dei compiti e di divisione dei prodotti; la famiglia ha in concessione un orto e può disporre delle verdure coltivate e del maiale, del pollame allevato.

I contadini conducono un’esistenza che non è paragonabile alla vita, pur rigidamente egualitaria e austera, della gente di città. In agricoltura esiste la sproporzione dei redditi fra Comune e Comune, persino all’interno di una stessa Comune: le differenti condizioni naturali affrontate dalle Comuni (più o meno vicino alle città, su terreni più o meno fertili), così come le differenti condizioni naturali in cui operano le singole brigate, mantengono sproporzioni che non possono essere colmate dal sistema retributivo. I contadini sono retribuiti in denaro e cereali secondo il lavoro compiuto, che dipende sempre dalle condizioni del clima e dalla natura del terreno. Ciò li rende inferiori agli operai, che seppure a fronte di una produttività e costo della vita più elevati, sono pagati secondo la loro categoria, del mestiere e dell’orario, e sono pagati meglio. Inoltre gli operai hanno previdenze sociali: assistenza malattie, pensione, turni di riposo, che sono negate al contadino. Per tre pasti al giorno la spesa mensile è di 12 yuan, un quinto dello stipendio. Le cose essenziali, cibarsi, vestirsi, abitare in una modesta casa, i trasporti pubblici, i libri e i dischi, sono a buon mercato. Molto cari, invece, i beni non di prima necessità.

Anche nelle città si sviluppa una spinta verso la collettivizzazione dei consumi, le mense collettive, i nidi d’infanzia, ma trasportare i metodi di produzione delle Comuni nelle imprese industriali è molto più difficile. Senza arrivare a mutamenti istituzionali nelle forme di gestione, l’autorità d’organi operai come i consigli di fabbrica però cresce.

Quel che avviene è in pratica la liquidazione dell’impresa privata che con la campagna dei “cinque contro” era già stata assai ridotta. I capitalisti superstiti consegnano le loro imprese allo Stato, chiedendo di potervi lavorare in associazione; in corrispettivo alle proprietà conferite avrebbero ricevuto dei titoli che davano un interesse del 5%. L’interesse è pagato fino al 66’ poi cessa. In questo modo è liquidata la proprietà privata dei mezzi di produzione.

Nello stesso periodo si consuma la rottura con l’URSS.

La Cina socialista si configura come una sorta d’enorme laboratorio ideologico finalizzato a creare l’umanesimo socialista: la produzione al servizio dell’uomo (non viceversa) e l’uomo al servizio della società , quindi purificato dall’egoismo. Una concezione del mondo radicalmente alternativa a quella dei paesi capitalistici, anche a quella dell’URSS, dove sono gradualmente reintrodotti gli incentivi materiali per i singoli. Emulazione sì, ma per l’avanzamento della società e non per il tornaconto individuale. La tendenza sovietica degli anni 60’, a porre anche il tornaconto del singolo lavoratore alla base dello slancio produttivo, è definita con disprezzo in Cina: “comunismo alla gulasch”, in altre parole “mangereccio”.

I metodi di direzione dell’economia sono ben diversi; burocratico- amministrativo quello sovietico, ideologico-decentrato quello cinese. L’URSS cerca la coesistenza con le potenze capitalistiche, in primo luogo gli USA. Il revisionismo sovietico capeggiato da N. Khrusciov si attira le critiche cinesi, cui l’URSS risponde annullando un impegno per la fornitura d’armi nucleari, e nel luglio del 60’ richiama tutti i tecnici che assistono la Cina nella costruzione dei grandi impianti industriali, determinandone la chiusura di molti ed il caos nella produzione industriale (improvvisamente, oltre ai super-esperti, mancano anche i pezzi di ricambio…).

Mentre la Cina prova a creare una propria zona d’influenza in campo internazionale, con esito solo nei paesi più poveri fra quelli in via di sviluppo, la collettivizzazione forzata e la spinta verso l’impiego della mano d’opera nell’industria e nei servizi portano ad una caduta verticale della produzione agricola. La produzione dei cereali diminuisce del 40%, una pesante carestia si abbatte sulle campagne cinesi.

Segue la rettifica degli obiettivi economici accompagnati da un’autocritica del gruppo dirigenziale; le misure di pianificazione stornano gli investimenti dal settore industriale a quello agricolo e abbassano il tasso d’accumulazione.

 I “Settanta articoli della politica industriale” ristabiliscono funzioni direttive od organizzative tradizionali nelle fabbriche. Inoltre, si comincia la lenta ma progressiva liquidazione delle Comuni operando sul loro funzionamento economico. Conseguenza politica clamorosa della crisi è la perdita d’autorità da parte di Mao, l’equilibrio si è, infatti, spostato a favore dei “ tecnocrati”. Si apre la discussione sulle forme migliori d’incentivazione, si pensa di costruire grosse unità produttive che abbiano un grado d’autonomia. Per le imprese si pensa di prendere come misura d’efficienza il profitto invece che il prodotto interno lordo. In sostanza una discussione simile a quella che ha luogo nell’URSS.

Mao tenta di lanciare un nuovo movimento detto “per l’educazione socialista” con la parola d’ordine assai significativa “Rilanciare la lotta di classe!”, ma la direzione del partito la fa fallire. Mao decide allora di aprire una guerra senza quartiere contro la direzione dominata dai tecnocrati, la “linea nera”, ed è la “Rivoluzione Culturale”.

La violenta campagna politica contro la degenerazione del partito (da rivoluzionario a conservatore) condotta con la famosa parola d’ordine “Bombardare il Quartier Generale!”, si produce in continui attacchi di massa ora a questo, ora a quell’organo del partito, del potere statale o della cultura, portati soprattutto da masse di giovani, le “Guardie Rosse”. Gravissimi pericoli di disgregazione dell’unità nazionale sono corsi durante l’offensiva rivoluzionaria, veri scontri armati si verificano nel settembre del 67’, sedati dall’esercito con gravi perdite. Il movimento si articola in gruppi che nascono spesso casualmente, e vengono molto spesso a contrasto fra di loro.

Nel 69’ la situazione si stabilizza con il sistema cosiddetto dei “tre in uno ” vale a dire l’equilibrio a tre tra vecchi quadri ed esponenti delle masse ribelli, con la mediazione dell’esercito.

Tuttavia i criteri di gestione dell’economia cinese non sono immutabili, subiscono i condizionamenti procurati dalla lotta di classe, polarizzata nel PCC e rappresentata da Mao con la metafora della “linea nera “ opposta alla “linea rossa”.  

Seguiamo, ad esempio, i criteri retributivi. Il sistema retributivo è egualitario, ma tra la fine degli ani 60’ e i primi anni 70’ il sistema registra i primi segni di mutamento d’indirizzo; le categorie salariali sono otto, si va da un minimo di 35 yuan ad un massimo di 110. Più di due o tre volte il livello minimo. Un direttore guadagna tre volte l’operaio pagato meglio.

Comincia così un percorso in direzione della riabilitazione del mercato che porterà in definitiva all’abbandono del socialismo.

Abolizione rapporti di mercato

Direzione centralizzata di produzione e distribuzione

Collettivizzazione agricola

Industrializzazione forzata

Cuba 1960-69

Il criterio di costruzione dello Stato socialista cubano, avviato tra il 59’ e il 60’, segue il modello sovietico. Quello sovietico era lo Stato socialista che si era affermato fin dal 17’, sopravvissuto alla guerra civile e fortificato pur nell’isolamento, che aveva saputo sconfiggere il nazifascismo sul proprio suolo, ed impegnatosi nel confronto con gli USA, dal dopoguerra costituiva il riferimento ideale e l’aiuto concreto ad ogni movimento di liberazione. L’URSS era anche il grande alleato strategico e l’unico esperimento di società socialista cui attingere insegnamenti e risorse.

La riforma agraria nel maggio del 59’ cancella i latifondi e attribuisce titoli di proprietà a 150.000 contadini, inoltre vara il progetto d’istituzione di cooperative agricole. Il Dipartimento Industriale dell’INRA (Istituto Nazionale di Riforma Agraria) unisce tutti i fondi delle industrie nazionalizzate in unico fondo centralizzato, in cui i vari stabilimenti depositano i ricavi e ricevono i finanziamenti programmati in accordo ad un accordo prefissato. La Banca Nazionale è depositaria del fondo centralizzato, amministra il capitale finanziario (anch’esso nazionalizzato) e ad essa il Dipartimento industriale invia copia dei bilanci delle unità produttive mentre le agenzie bancarie, da parte loro, non effettuano pagamenti superiori alle cifre stabilite nel bilancio generale.

Trasporti e servizi subiscono lo stesso trattamento: nel marzo del 59’ sono nazionalizzate le cooperative dei bus e la “Cuban Thelephone”, gli affitti e le tariffe telefoniche sono dimezzate (legge 508 del 19/08/59), i prezzi dei libri di testo per la scuola elementare, superiore e professionale sono ridotti del 25/30% (legge 479), è anche ridotto il prezzo dei farmaci del 15/20%. Il tunnel dell’Avana, unico tratto autostradale a pagamento dell’isola, viene anch’esso nazionalizzato ed il pedaggio abolito.

Gli analfabeti a Cuba erano milioni, in alcune zone del paese lo erano pressoché tutti. Il governo rivoluzionario nel 61’ organizza una campagna d’alfabetizzazione nazionale senza precedenti; migliaia e migliaia di volontari, ragazzi e ragazze diplomati o laureati si recano nelle zone più povere del paese dove s’improvvisano maestri condividendo le condizioni di vita degli allievi. Sarà la stessa ONU a dichiarare alcuni mesi più tardi l’isola “territorio libero da analfabetismo”. Quest’operazione culturale di massa è la prima grande vittoria rivoluzionaria nell’edificazione dello Stato socialista ed è anche una gran lezione politica: tutti i contadini capiscono che esiste una concreta rivoluzione in corso.

Mentre la costruzione dello Stato socialista cubano prosegue, il modello economico di riferimento è fatto oggetto d’intense discussioni sviluppando quello che dall’ottobre del 63’ all’agosto del 64’ si chiamerà “Debate economico”.

In gioco è la scelta del sistema di gestione dell’economia socialista. Va diffondendosi nei paesi dell’Europa dell’Est un processo riformatore; sull’onda della revisione  politico-ideologica si fa strada una concezione favorevole allo sviluppo di forme di libero mercato in seno allo Stato socialista, e ciò a Cuba non può essere ignorato. In una fase di consenso nel campo socialista del modello decentrato di gestione economica, d’entusiasmo per forme di socialismo cosiddette “dal volto umano”, Ernesto Guevara de La Serna, detto “Che”, ministro dell’industria dal 61’ al 64’ e presidente della Banca Nazionale dal novembre del 59’, anima il dibattito difendendo il modello sovietico centralistico contro le più recenti esperienze di costruzione del socialismo (Yugoslavia, Polonia, Cecoslovacchia), e ciò appare come  un’eresia.

Molto significativo circa il contenuto del dibattito, e l’enorme importanza che questo assume nel quadro internazionale, è un articolo di S. Tutino apparso su “Rinascita” nel Luglio del 64’; vale la pena di riportarne ampi stralci:

Il numero di giugno della rivista teorica del PURS*, “Cuba Socialista”, reca un articolo di Ernesto Che Guevara sul significato della pianificazione socialista. E’ scritto in polemica con un saggio teorico-politico che l’economista francese Charles Bettelheim, conoscitore dei problemi cubani, aveva pubblicato nel numero di aprile della stessa rivista. L’articolo di Bettelheim (…) sosteneva che le forme e i metodi della pianificazione debbono essere adeguati al livello delle forze produttive e non imporsi secondo criteri disgiunti da questo fondamentale elemento della realtà. Che Guevara obietta sostanzialmente che vi sono momenti in cui i rapporti di produzione possono non corrispondere alle forze produttive esistenti: ci può essere un salto perciò i rapporti di produzione assumono un carattere socialista grazie al sostegno della coscienza rivoluzionaria, nonostante che le forze produttive non siano ancora giunte ad un grado di sviluppo teoricamente adeguato.

La discussione non è astratta. Rientra nel quadro di un dibattito generale in corso in larghi settori del movimento operaio e per certi aspetti si può riferire ad elaborazioni più ampie già fatte soprattutto in Yugoslavia, in Polonia e in Unione Sovietica. A Cuba, però la polemica aperta fra Bettelheim è Che Guevara si svolge in momento cruciale dell’impostazione di un sistema economico socialista. ( …) Tutti a Cuba sono stati d’accordo, ad un certo punto, che la priorità nello sviluppo economico doveva essere data alla produzione agricola. Quanto al sistema per sviluppare la riforma agraria: centralizzare o decentralizzare? Pianificare secondo i criteri del calcolo economico e quindi di una certa autonomia anche finanziaria delle singole aziende oppure considerare il piano come un rigido criterio di bilancio centralizzato che regola come legge assoluta i rapporti socialisti di produzione? I sostenitori del sistema del “ calcolo economico” affermano che una pianificazione rigida è irreale, dato l’attuale insufficiente livello delle forze produttive, i centralizzatori rispondono che in un paese piccolo come Cuba non solo si può, ma si deve evitare di lasciarsi dominare dalle contraddizioni esistenti al livello delle forze produttive. (..)

Che Guevara cita Lenin nella sua polemica con gli “eroi” della II Internazionale, i quali affermano che la Russia non aveva raggiunto un livello di sviluppo delle forze produttive tale da rendere possibile il socialismo. E sostiene che se il socialismo è stato possibile in Russia, a maggior ragione, con il progresso continuo di tutto il sistema socialista, che ha influito sulla coscienza della gente, a Cuba, a un certo momento della sua storia, si è potuto arrivare alla definizione della rivoluzione come regime socialista.

Come può avvenire il passaggio al socialismo in un solo paese colonizzato dall’imperialismo senza nessun sviluppo delle sue industrie di base, in una situazione di monoproduzione, dipendente da un solo mercato? (..) Le forze rivoluzionarie prendono il potere e basandosi sul fatto che già esistono le condizioni oggettive sufficienti per la socializzazione del lavoro, bruciano le tappe, decretano il carattere socialista della rivoluzione ed intraprendono la costruzione del socialismo. (..) Afferma Che Guevara: “Dire che la Empresa Consolidada (la struttura centralizzata di potere da cui dipendono le singole imprese di ogni ramo N. d. R..) è una  aberrazione equivale a dire che la rivoluzione cubana è una aberrazione (..) mai si può staccare l’analisi economica dal fatto storico della lotta di classe”.

 Guevara teme che fenomeni transitori possono diventare stabili e dare luogo, per esempio attraverso gli scambi liberi di beni di produzione tra diverse imprese (..) a fenomeni di particolarismo o di individualismo, sul terreno economico, tali da pregiudicare la stessa natura socialista dello sviluppo rivoluzionario.

“Concretamente – egli scrive- i fautori del calcolo economico non hanno mai spiegato in modo giusto come si sostiene, nella sua essenza, il concetto di merce nel settore statale, o some si può fare un uso “intelligente” della legge del valore nel settore socialista, con mercati paralleli (..) mentre l’uomo tende a dominare il fatto economico attraverso il piano, sono inevitabili certi errori di valutazione, dovuti spesso a deficienze tecniche di amministrazione. Ma da qui a teorizzare le conseguenze di questi difetti come una necessità corre un abisso.”

La concezione del Che non è piaggeria nei confronti della tradizione sovietica, né fiducia incondizionata nella burocrazia, è invece il frutto di una profonda analisi della legge del valore, dei criteri di pianificazione, dei rapporti tra economia di mercato e socialismo, che si condensa nel Sistema di Finanziamento da Bilancio, il modello di pianificazione da lui elaborato ed applicato a Cuba finché ricoprirà la carica di ministro dell’Industria (1961-1964).

In cosa consiste questo modello? Eccone una sintesi schematica.

Il Dipartimento d’Industria Amministrativa elabora il Piano annuale, la sezione finanza, contabilità e spesa amministra il fondo monetario centralizzato e invia copia del bilancio preventivo alla Banca Nazionale, depositaria del fondo, che a sua volta eroga i finanziamenti alle unità produttive secondo il bilancio preventivo. Gli investimenti sono decisi dalla Giunta Centrale di Pianificazione

Dip. Ind.        --->            Piano           Banca Nazionale  <------>                   Imprese

Amm.

Negazione autonomia finanziaria

In tal modo le imprese non dispongono di fondi propri, attingono denaro dal fondo centrale secondo tre conti: salari, investimenti e spese varie. Le entrate sono depositate nel fondo centrale.

Negazione e riduzione del sistema bancario

La o le banche sono di proprietà dello stato che le utilizza nella gestione dell’economia, impedendogli di assumere autorità decisionale. Si teorizza, quindi, la loro futura scomparsa.

Limitazione della funzione del denaro

Il denaro svolge il ruolo di misura del valore e mezzo di distribuzione e/o circolazione fra lo Stato e i piccoli proprietari, e il popolo consumatore. E’ così negata la funzione feticista del denaro quale merce per antonomasia, e sminuita la sua importanza nelle relazioni sociali.

Negazione del sistema creditizio

Le imprese non possiedono fondi propri, la banca non concede crediti per fondi delle imprese (che non esistono), ciò nega il capitale creditizio (D+D*), il capitale nella sua forma più pura.

Negazione della politica dei prezzi

Nella formazione dei prezzi non si può prevedere un margine (fra offerta e domanda) utile per l’impresa, perché il piano si piegherebbe così alla legge del valore. La soluzione al problema in un sistema centralizzato può essere l’analisi dei costi.

Affermazione di un sistema salariale nuovo

Un sistema che combina incentivi materiali e morali sul principio della retribuzione in funzione della qualità del lavoro.

Alla base del modello sopra sintetizzato sta la profonda riflessione che il “Che” compie abbracciando l’intera problematica della costruzione di una società socialista.

La tesi sostenuta fino allora era che, a differenza che nel capitalismo, dove la legge del valore agisce come una forza cieca che s’impone agli uomini, nell’economia socialista si può fare un uso cosciente di questa legge. Secondo Guevara, in primo luogo questa legge è condizionata dall’esistenza di una società mercantile. In secondo luogo, egli avverte che gli effetti del funzionamento della legge del valore non possono essere misurati a priori e devono essere il riflesso di un mercato dove si effettuano scambi tra produttori e consumatori, ma nel socialismo così non è, perché non esiste un mercato libero che esprima automaticamente la contraddizione fra produttori e consumatori. Spiega che la legge del valore è operante in un realtà globale che include i mercati mondiali, e che i mutamenti e le distorsioni d’alcuni settori della produzione si riflettono sul risultato complessivo.

Si affermava anche per creare le condizioni per rendere possibile l’estinzione della produzione e della circolazione mercantile, è necessario utilizzare e sviluppare le relazioni monetario-mercantili durante il periodo della costruzione della società comunista. Egli rifiuta quest’impostazione e affronta così un problema cruciale del processo rivoluzionario; il passaggio dal comunismo al socialismo è possibile soltanto a patto di eliminare completamente le categorie di valore mercantile, fintantoché il socialismo continua ad usare tali categorie senza prodigarsi allo sviluppo degli strumenti atti ad eliminarle, procura la sopravvivenza del “germe” capitalista. A questo proposito afferma:

Sarebbe come dire che abbiamo preso come arma contro il capitalismo un’arma del capitalismo trasferendola in un contesto dove non necessariamente essa ha mordente, efficacia, perché può svilupparsi soltanto in una piena società capitalista, cioè in una società in cui la filosofia è la lotta dell’uomo sull’uomo, dei gruppi contro i gruppi.” (“Il Piano e gli uomini” E. Guevara)

Ed ancora:

Rincorrendo l’illusione di realizzare il socialismo con l’aiuto delle armi spuntate che ci lascia in eredità il capitalismo (la merce come cellula economica, il profitto, l’interesse materiale individuale, ecc.) si può imboccare un vicolo senza uscita e vi si arriva dopo aver percorso un lungo tratto in cui le strade si incrociano più volte e dove è difficile capire dove si è sbagliato strada. Frattanto la base economica adottata ha compiuto il suo lavoro di scavo sullo sviluppo della coscienza. Per costruire il comunismo, contemporaneamente alla base materiale, bisogna costruire l’uomo nuovo.” (“Opere “ E. Guevara)

Infine:

Vincere il capitalismo con i suoi stessi feticci a cui si è tolta la loro caratteristica magica più efficace, il lucro, mi sembra un’impresa difficile.” (“Opere” E. Guevara)

Il “Che” intuisce la difficoltà di formare la coscienza comunista, vale a dire una sensibilità umana libera dall’egoismo, utilizzando un sistema economico in cui si rinuncia a fare del lavoro un dovere sociale e si continua, seppure in forma più blanda a far sì che sia ancora una vendita di merce. Quindi egli considera l’incentivazione materiale, su cui contano i sostenitori del calcolo economico, come un “cavallo di troia”, e per questo elabora un sistema salariale finalizzato al superamento di questa fase, in cui vige la sistematica combinazione d’incentivi materiali e morali in base al quale i lavoratori che si distinguono per la qualità del lavoro compiuto sono premiati con beni di consumo, ma anche con riconoscimenti pubblici per aver acquisito la coscienza di aver esaudito un dovere sociale. Egli riconosce la validità dell’incentivo materiale sul piano produttivo ma ne condanna l’uso quale leva fondamentale dell’economia socialista, perché sostiene che subordinare lo sviluppo della coscienza all’incremento dei consumi significa impedire la diffusione della morale rivoluzionaria nelle masse, in altre parole d’ impedire la creazione del comunismo. Non è un caso che la definizione dello stesso Guevara dà del sistema di finanziamento tramite il bilancio dello Stato recita: “Un modo più efficiente per arrivare al comunismo” che “convenientemente sviluppato, può elevare l’efficienza della direzione economica della Stato socialista, far maturare la coscienza delle masse e consolidare ancor più il sistema socialista mondiale.”

Il sistema del “Che” ha un’applicazione solo parziale; stretto fra la necessità di uscire dal sottosviluppo e fortemente condizionata dai paesi alleati (dove si afferma il ripristino delle categorie mercantili), il socialismo cubano abbandona le sue teorie in modo completo dai primi anni 70’.

Nel 1987 sarà Fidel Castro ad invitare al recupero del pensiero economico del “Che”, perché riferimento indispensabile nell’ambito del dibattito nato dalla crisi ideologica in corso nei paesi socialisti. Una tesi, quella di E. Guevara, che oggi risulta molto lungimirante, visto il volto del “capitalismo reale” là dove la restaurazione liberaldemocratrica si è compiuta….

 

graduale aumento dei beni di consumo, questa è la parola d’ordine, e in definitiva il grande strumento di formazione delle coscienze secondo i sostenitori dell’altro sistema (quello capitalista) …” (“Opere” E. Guevara)

*Nota

PURS: “Partito Unitario della Rivoluzione Socialista”

Nel 61’ il potere a Cuba è tenuto dalle ORI, “Organizzazioni Rivoluzionarie Integrate”, l’anno seguente nasce il PURS, che unifica il Movimento 26 di Luglio, il Direttorio Rivoluzionario e il Partito Socialista Popolare. Sarà soltanto nel 77’ che nascerà il Partito Comunista Cubano. (Il PCC nasce per la prima volta nel 1925, poi costretto alla clandestinità dalla dittatura d’ispirazione fascista di G. Machado negli anni 30’)

Abolizione rapporti di mercato

Direzione centralizzata di produzione e distribuzione

Cooperativizzazione agricola

Nuovo sistema salariale

Abolizione del commercio privato

Socialismo Sovietico Decentrato

                                                                                                 

URSS 1957-1990

Negli anni 50’ le attese di beni di consumo da parte della popolazione sovietica aumentano notevolmente. L’arretratezza del sistema di soddisfazione dei bisogni a confronto con quello raggiunto in occidente è palese, e a poco vale la critica circa la parvenza di cui riluce il mondo delle merci, l’esperienza diretta di un’effettiva penuria rende allettante l’offerta di merci della società capitalista, percepita come realtà sociale.

Sebbene inizialmente l’idea del gruppo dirigente sovietico sia di riequilibrare la priorità nell’allocazione delle risorse a favore dell’agricoltura e dell’industria leggera, il nuovo corso politico apre la strada a cambiamenti del meccanismo economico in direzione di una maggiore flessibilità, e di più forti incentivi legati alla produttività delle imprese.

Il XX Congresso del PCUS del 56’, sancisce la volontà di modificare il sistema sovietico di soddisfazione dei bisogni; l’Occidente non offre soltanto cose superflue, ma anche mezzi per rendere più facile la vita, mezzi che in URSS fanno difetto, quindi la dirigenza sovietica si appresta a soddisfare le richieste di beni di consumo.

Promesse avventate e obiettivi di pianificazione illusori, sotto la parola d’ordine irrealistica del “raggiungimento dell’occidente” previsto nell’arco di tempi brevissimi (cinque o dieci anni!), sono le contromisure alle richieste sopra accennate….

L’orientamento dei bisogni su modelli occidentali procura la conversione dell’economia al riallineamento su posizioni mercantilistiche, mentre lo sviluppo del socialismo non può che andare di pari passo con un diverso sistema dei bisogni, col desiderio di dare nuovi contenuti alla vita, insomma con una nuova visione del mondo. Ripristinata la gerarchia dei valori “occidentali” la competizione dei sistemi sociali non significa più contrapposizione di due modelli di vita, ma concorrenza circa lo standard dei consumi. Oltre la necessità di impegnarsi nella corsa agli armamenti, per raggiungere l’ “equilibrio del terrore” che blocchi le minacce d’intervento, vi è ora anche il vincolo autoimposto di produrre, anche in URSS, quella immensa raccolta di merci in cui si presenta la ricchezza capitalistica.

Il primo provvedimento pratico è preso nel 55’; viene promulgato un decreto sullo ampliamento dei poteri dei direttori d’impresa e altre misure in direzione di un rafforzamento del cosiddetto sistema “chozrascet” (autonomia finanziaria delle imprese) e degli incentivi. Nel 57 si compie il primo passo di un percorso mirato alla razionalizzazione degli strumenti produttivi in termini di mercato capitalistico; la riforma amministrativa dell’industria sostituisce la direzione accentrata per settori con la direzione decentrata su base territoriale, riforma, che in altre parole, elimina i ministeri specializzati e istituisce organi regionali di pianificazione, i “sovnarkhoz”.

La linea fondamentale di questo processo di riorganizzazione è la tendenza ad un decentramento dell’organizzazione produttiva in cui sono lasciati maggiori margini d’iniziativa nella pianificazione e nella gestione, sia agli organi regionali, sia alle stesse unità di base.

Nei primi anni 60’ è un fiorire di teorie, proposte operative e discussioni accademiche d’economisti sovietici fautori di un’economia in cui la leva degli incentivi materiali sia preponderante e l’autonomia finanziaria della azienda sia maggiore. L’economista Libermann, ad esempio, nel quadro di una pianificazione che unisce elementi di forte decentramento, propone un meccanismo d’incentivi aziendali basato sull’unico indice della redditività della azienda, proseguendo nel solco innovativo operato dalla riforma salariale del 56’, che si propone un maggior collegamento fra il salario ed i risultati produttivi e quindi un’articolazione più elastica degli incentivi individuali. Alla riforma del 57’ ne segue un’altra nel 62’; i 102 “sovnarkhoz” creati in precedenza sono raggruppati in 47 consigli regionali, mentre nel 61’ il territorio della URSS è diviso in 17 grandi regioni economiche con un consiglio di coordinamento e pianificazione in ognuna di esse.

Le misure di decentramento amministrativo non mutano sostanzialmente l’economia sovietica, tuttavia ne modificano l’orientamento lasciandola in un logorante “via di mezzo”; dal dibattito teorico esce vincente la formula di una economia di transizione mista a pianificazione centralizzata, ma in cui coesistono elementi di “libero mercato”, che rimane per buona parte solo teorizzata. Rimangono delusi i quadri dirigenti allettati dalle sirene delle potenzialità retributive delle qualifiche, e demotivati i lavoratori in genere, sempre più sottoposti a criteri produttivi di profitto mercantile, insinuati da illusorie aspettative rivolte al capitalismo e disillusi da dirigenti sempre più assoggettati alla cultura borghese, incantati da quel modello che riduce la ricchezza al godimento consumistico.

Rinunciando al perseguimento senza mezzi termini dello sviluppo prioritario delle forze produttive, la dirigenza sovietica genera stagnazione e programma implicitamente la sconfitta nella competizione dei sistemi; lasciare che tutto continui così sembra la soluzione meno pericolosa, ma proprio la conservazione dello status quo significa stabilizzare la pratica burocratica in cui si fa strada il meschino individualismo borghese..

La politica economica di Gorbaciov è l’ultimo corollario di un modo di pensare tutto interno alla mitologia dell’offerta di merci, della parvenza dell’abbondanza che nel capitalismo un crescente “prodotto interno lordo” porta con sé.

Nicolaj Smelev, a suo tempo economista “in prima linea” nella perestrojka gorbaciovana (che ha oggettivamente portato alla liquidazione del socialismo con tutto quello che n’è seguito, fino alla barbarie attuale), membro dell’Istituto per gli Studi su Stati Uniti e Canada dell’Accademia delle scienze dell’URSS, è l’autore di un saggio pubblicato in Italia nel 1987 intitolato: “Profitto, concorrenza mercato: se le parole ci fanno paura per noi non c’è scampo”. In esso era possibile leggere affermazioni di questo genere: “Tutto ciò che serve è coraggio, fermezza, coerenza per liberare le forze economiche interne. Che cosa vi si oppone? Prima di tutto vi è l’eccessiva cautela ideologica verso il pericolo di fare uscire dalla bottiglia lo spirito cattivo del capitalismo, è assolutamente chiaro che tale timore è infondato” (sic!)  (..) Noi dobbiamo decidere una volta per tutte che cosa sia più importante per noi; avere prodotti nostri a sufficienza, oppure inchinarsi per l’eternità davanti ai sostenitori dell’eguaglianza di tutti nella povertà (..) E’ ormai chiaro a tutti che noi siamo debitori della rilassatezza, dell’ubriachezza, dei lavori mal fatti in gran parte a quest’innaturale piena occupazione..”

Oggi Smelev è schierato contro le aberrazioni prodotte dal capitalismo che lui stesso ieri ha entusiasticamente contribuito a ripristinare, ma da filocapitalista quale egli è, considera quello impostosi nei paesi dell’ex socialismo come una sorta di “capitalismo selvaggio”, mentre si tratta puramente di “capitalismo reale”. Esiste un capitalismo “dal volto umano” se non a causa delle limitazioni a contraddizioni rispetto ala sua propria natura impostagli dalle masse lavoratrici attraverso durissime lotte di classe?

Se la lotta con il mondo occidentale poteva essere vinta, di certo non era possibile sul terreno a lui congeniale della produzione dei beni di consumo, ma sul terreno di una scelta alternativa di valori, che mettesse in primo piano il pieno sviluppo delle facoltà e della cultura degli uomini.

Riabilitazione/reintroduzione rapporti di mercato

Decentramento amministrativo di produzione e distribuzione

Ripristino incentivi materiali/gerarchia salariale

(Paesi socialisti dell’Est Europeo)

Polonia

Il primo tentativo di realizzare in un paese vicino all’URSS, una pianificazione centralizzata con un meccanismo di mercato regolato si verifica in Polonia.

All’approvazione dell’idea di una riforma in generale, (scaturita dal Comitato Centrale del partito nel 56’), segue un periodo di sperimentazione che investe l’intera economia del paese; allargamento dell’autonomia d’impresa e drastica riduzione degli obiettivi obbligatori fissati a livello centrale, creazione di un “fondo di stabilimento” che lega gli incentivi da assegnare alla forza lavoro ai risultati finanziari dell’impresa, e “legge sui consigli operai”, che conferisce a questi ultimi una posizione importante nella struttura di gestione, compreso il diritto di porre il veto alla nomina del direttore generale, o di chiederne le dimissioni.

La messa in opera di queste misure coincide con il ritorno al potere di Gomulka (ottobre 56’).

Viene anche creato un “Consiglio Economico” che elabora la bozza di una riforma economica complessiva tesa a combinare la macroprogrammazione con un mercato regolato.

Tale fase sperimentale è abbandonata verso la fine del 58’, e ripristinata l’amministrazione centralistica.

Cecoslovacchia

Nel 1958 in Cecoslovacchia è approvata una bozza di un “Nuovo sistema di pianificazione e finanziamento per l’industria”, con obiettivi molto più limitati che nella Polonia del 56’, ma nel 60’ quasi tutte le innovazioni sono già praticamente rientrate.

Ungheria

Dopo il tentativo di smantellare lo stato socialista (ottobre-novembre del 56’) stroncato dai sovietici, in Ungheria ci si astiene da programmi di riforma di vasta portata. Tuttavia alcuni piccoli passi in direzione dell’ammorbidimento del sistema sovietico centralizzato sono compiuti. Una riforma dei prezzi è del 59’.

Dall’inizio degli anni 60’, in tutti i paesi dell’Est europeo riprende il processo riformatore di pari passo con la revisione ideologica e politica, soltanto l’Albania, (che dal 61’ abbandona praticamente il Patto di Varsavia per seguire la linea cinese antirevisionista) rimane estranea all’ondata riformatrice. In questa fase sono i paesi più sviluppati (URSS, DDR, Polonia) a guidare la revisione del modello economico.

DDR

La Repubblica Democratica Tedesca è la prima a riprendere le riforme: nel 63 approva le “Direttive del nuovo sistema economico”, iniziandone l’applicazione l’anno dopo. Le misure introdotte non smantellano gli obiettivi obbligatori e dell’allocazione fisica, ma incrementano l’autonomia delle imprese rafforzando la redditività del sistema, sia in relazione agli incentivi personali che alle prospettive d’espansione delle imprese.

URSS, Bulgaria, Romania, Polonia

I programmi di riforma sovietici, bulgari e rumeni sono concettualmente simili, benché differenti per molti aspetti pratici.

Ungheria

Nel 65’ il partito ungherese approva un progetto che in tute le soluzioni fondamentali corrisponde al modello di un’economia a pianificazione centralizzata con un meccanismo di mercato regolato. Nel 68’ è introdotto il “Nuovo

Meccanismo Economico”.

Cecoslovacchia

Per ciò che riguarda la Cecoslovacchia, le idee radicali di riforma in direzione di un’economia di mercato si fondono col movimento socialdemocratico noto come “Primavera di Praga” (1968-70) e ne condividono la sorte. Il modello centralistico è ripristinato nei primi anni 70’.

Con la sola eccezione dell’Ungheria, la seconda ondata di riforme economiche si consuma in un fallimento.

“..l’esperienza ungherese dal 68’, nonostante un relativo successo, non lascia dubbi sul fatto che certi assunti importanti sottesi al “Nuovo modello Economico” non si sono realizzati per nulla, o si sono realizzati in misura minore di quella prevista.  E’ il caso, in primo luogo, della forza di competizione che avrebbe dovuto sostituire la pressione degli obiettivi del piano, senza le conseguenze negative di questi ultimi. Gli economisti ungheresi hanno individuato molti fattori responsabili del fatto che l’idea di fondo di una pianificazione  centralizzata con un meccanismo di mercato regolato – tale da rendere vantaggioso per le imprese ciò che è vantaggioso per l’economia nazionale, e a dare micro-risposte a macro-politiche trasmesse nel linguaggio dei parametri finanziari invece che in quello degli ordini e delle costrizioni fisiche – abbia trovato delle serie difficoltà.

Questi problemi e altri simili appartengono chiaramente alla sfera dell’economia. Ma l’esperienza ungherese e quella dei tentativi di riforma economica abortiti altrove sembrano porre in evidenza un altro punto d’importanza fondamentale, e in altre parole il fatto che la soluzione dei problemi economici dei paesi comunisti, e in particolare dei problemi del meccanismo economico, non può essere separata dagli aspetti politici. La frase di Schumpeter: “Nessun sistema sociale (..) in cui si suppone che ognuno sia guidato unicamente dai propri scopi utilitaristici (..) può funzionare” ha un rilievo particolare per il socialismo, che si suppone debba porre fine all’alienazione del lavoro e generare comportamenti basati sulla valorizzazione degli interessi comuni.

(Wlodizmier Brus “Il funzionamento di un’economia socialista” in “Storia del Marxismo” Einaudi 1982)

Riabilitazione/reintroduzione rapporti di mercato

decentramento amministrativo e finanziario di produzione e distribuzione

Ripristino incentivi materiali/gerarchia salariale

SOCIALISMO DI MERCATO

 Yugoslavia (1945-1965) 1965-1990

In Yugoslavia, consumatasi nel 1948 la rottura con l’URSS, la necessità di fornire un’alternativa ideologica al modello sovietico insieme con una maggior quantità di beni di consumo allo scopo di reggere il confronto con i paesi occidentali, lascia ampi spazi di riforma. I prodotti di quest’innovazione sono: autogestione, decentramento economico e adozione del sistema di mercato.

Lo spunto da cui prende le mosse la teorizzazione del modello economico iugoslavo è il concetto di socializzazione. Rilevando che la natura della socializzazione dei mezzi di produzione vigente nei paesi socialisti è sì una forma di possesso sociale nata da una rivoluzione politica vittoriosa, ma è una forma indiretta, perché i mezzi di produzione, il reddito nazionale prodotto, e il surplus socialista realizzato non sono a diretta disposizione del popolo lavoratore che produce tale ricchezza, ma sono gestiti da uno Stato che agisce a suo nome, si ritiene necessario un processo di socializzazione la cui essenza consiste in un passaggio da forme indirette a forme dirette di proprietà sociale. Con un chiaro riferimento agli scritti di Marx sulla comune di Parigi in cui egli sottolinea la libera associazione dei produttori diretti come l’essenza del comunismo, è costruita la definizione iugoslava di socialismo: “Il socialismo è un sistema sociale basato sulla socializzazione dei mezzi di produzione, in cui la produzione sociale è guidata dai produttori diretti associati”.

Il socialismo iugoslavo ne consegue che la forma istituzionale del possesso sociale diretto dei mezzi di produzione è l’autogestione dei produttori. Da qui il termine di “socialismo autogestito” che si applica alla versione iugoslava. Secondo questa versione, l’essenza economica del processo di socializzazione consiste in una limitazione dell’attività economica diretta dello Stato e in un’estensione del terreno delle decisioni autogestite mediante un crescente decentramento del controllo sull’economia. Nel mercato è riposta la fiducia, interpretandolo come meccanismo di regolazione dell’economia. Inoltre è pienamente riconosciuto il conflitto tra la massima autonomia per i produttori associati e i diritti e i bisogni della società nel suo insieme, conflitto considerato contraddizione dialettica, che si risolve solo attraverso l’applicazione a tutti i livelli del sistema sociale e politico del principio dell’autogestione. In linea di principio, l’autorità economica deve limitarsi ad elaborare previsioni attendibili delle linee di sviluppo nel periodo pianificato, combattere i segni di “imperfezione” del mercato e le minacce di monopolismo, correggere i processi di mercato nei casi in cui si muova su una strada contraria agli obiettivi sociali di lungo periodo.

Questo è un modello che per definizione può essere posto in pratica solo gradualmente; dai primi anni 50’ in poi è un continuo decentramento amministrativo e finanziario, fino alla definitiva riforma economica del 65’, che pone fine alla pianificazione centralizzata.

Il socialismo di mercato introduce così la competizione interna.

La competizione interaziendale ed inter-repubblicana (la Yugoslavia è uno stato federale) connaturata al decentramento, necessariamente si proietta sul terreno dei poteri politici; per le aziende, i settori produttivi, le repubbliche, diventa intollerabile che lo Stato federale possa prelevare una parte dei profitti delle singole unità aziendali e/o repubblicane per la ridistribuzione su priorità nazionali “iugoslave”. Lo sviluppo del decentramento ha riportato sulla scena la cosiddetta “questione nazionale”: venuta meno un’effettiva centralizzazione in grado di unificare in maniera equilibrata il mercato interno, l’immissione sul mercato internazionale ha ingigantito i contrasti tra “nazioni” relativamente più favorite e quelle più arretrate mettendo in causa la stessa unitarietà del quadro statale federativo. La guerra del 1991/93 che ha distrutto la repubblica federativa iugoslava, è in questo senso alquanto indicativa.

Più insidiosa la questione dell’autogestione operaia. L’operato “autigestionario” permette di appropriarsi, perché compartecipe della proprietà aziendale, di qualche punto in più della quota profitti, ma a patto di spersonalizzarsi sempre più in quanto classe di fronte alle esigenze del mercato, del capitale; di scatenare “naturalmente” la concorrenza fin dentro la “propria” azienda. Questa logica si conclude nel dividere i lavoratori e di portarli a perdere al momento della resa dei conti. Si è cominciato con la riaffermazione dei “collettivi operai”, delegati a pure funzioni di contrattazione, e si è finito, con il puro “diritto” ad essi lasciato di ratificare le decisioni autonomamente prese dal “mercato”: riduzione dei salari, intensificazione dei ritmi, peggioramento delle norme di lavoro, licenziamenti, chiusure per fallimento delle aziende, ecc.

Reintroduzione rapporti di mercato

Smantellamento della direzione centralizzata di produzione e distribuzione

Progressivo aumento dell’autonomia federalista

Economia Mista

 URSS 1921-1926

Conclusasi vittoriosamente la guerra civile, la maggioranza dei contadini del neonato Stato Sovietico si ribella alla consegna obbligatoria delle eccedenze agricole e al divieto di commercio.

Ad ostilità concluse, l’insofferenza contadina nei confronti delle requisizioni del periodo bellico aumenta al punto di scaturire in aperta ribellione, soprattutto là dove i conflitti sociali si erano smorzati per effetto del livellamento operato dalla rivoluzione, o perché lontano dalle zone di guerra.

Il contadino - dice Lenin all’Assemblea dei militanti dell’organizzazione moscovita del PCUS - essendo un piccolo padrone, è per sua natura incline al libero commercio che noi consideriamo un reato.”*

Tra il 1920 e il 1921 il rapporto fra potere sovietico e contadini è ormai in crisi, per sanare la frattura nell’autunno del 21’ le requisizioni sono sostituite con un imposta in natura e il ristabilimento di una certa libertà di scambio per i produttori rurali. Nel dicembre dello stesso anno il Congresso Agrario Panrusso riorganizza il diritto di possesso individuale della terra distinguendone diverse forme, ossia l’”Artel”, la “Kommuna”, il “Mir”, L”Otrub” e lo “Chutor” (i primi tre designano una gestione di tipo comune, gli altri due di tipo individuale). I contadini ottengono il diritto e la possibilità di scegliere liberamente fra queste forme.

Le concessioni ai contadini non servono soltanto ad assicurare il consolidamento del potere sovietico, ma ad incentivare le produzione agricola, che insieme agli altri settori dell’economia versa nello sfacelo postbellico. Infuria la carestia. Ad incoraggiare l’imponente serie di riforme che vanno sotto il nome di Novaja Economiceskaja Politika (NEP), sono le circostanze d’estrema difficoltà in cui si trova il primo Stato socialista; le distruzioni belliche, l’arretratezza ereditata dalla Russia zarista, la fine della spinta rivoluzionaria in Europa occidentale e il profilarsi di un isolamento irreversibile: l’intenso ritmo di ripresa dei paesi che avevano preso parte alla guerra, è poi un motivo in più per sviluppare un processo di potenziamento dello Stato sovietico.

Le riforme producono trasformazioni sostanziali, accanto alle misure di parziale liberalizzazione agricola, altre ne sono introdotte a favorire il piccolo commercio e la piccola industria. Inoltre sono realizzate concessioni al capitale straniero allo scopo di rimettere in moto l’industria, in pratica paralizzata. Il sistema economico diventa misto, lo Stato controlla tutto il commercio esteso, la maggior parte dell’industria e del commercio all’ingrosso; i privati controllano parte dell’industria, buona parte dell’agricoltura e del commercio al minuto. I settori trainanti sono controllati dallo stato, ma anche il settore statale si trova ad agire in un contesto di mercato. Attraverso la trattativa con i consumatori, la direzione stabilisce la proporzione relativa dei prodotti, i costi sono coperti con il ricavato delle vendite ed il piano statale si limita in larga misura ai soli investimenti.

Le direzioni generali, i Glavki, sono sostituite con i “Trust”, che si amministrano in modo indipendente e non sono dotati soltanto di funzioni di direzione e di vigilanza. Qui, per la prima volta, prendono corpo interessi particolari separati dagli organi di direzione statali. I Trust possono comprare e vendere in libertà. Si forma anche un sistema di divisione degli utili: il 23% dei profitti spetta ai fondi di mantenimento dei Trust e il 3% può essere suddiviso tra i dirigenti e gli esecutori.

La soppressione dell’appoggio centrale alle imprese statali colpisce soprattutto le aziende dell’industria pesante, giacché non possono scambiare i propri prodotti con altri generi di consumo o venderli sul mercato libero. Le imprese dell’industria leggera riescono invece a sfruttare tale possibilità, ma su di esse si fanno sentire gli effetti della caduta dei prezzi dei prodotti industriali. Si delinea presto una situazione a tutto vantaggio dell’agricoltura; per compensare questo squilibrio dannoso si ricorre al sistema dei cartelli, che costituiscono il monopolio delle vendite dei prodotti dell’industria. Alla fine del 1922, l’attività dei cartelli copre più del 50% dei Trust e in alcuni settori realizza il monopolio delle vendite di tutti i prodotti.

Il ripristino legalizzato dei rapporti di mercato, se imprime un ritmo di sviluppo accelerato in termini di produzione di beni e d’accumulazione di risorse, crea però uno strato di piccoli imprenditori privati, soprattutto nel commercio. In questo ceto, tollerato dal potere sovietico e largamente impopolare, l’occidente vede il depositario di un nuovo ordinamento sociale…

Nel 1921 si tiene a Mosca un processo contro 35 imprenditori accusati di aver violato la legislazione del lavoro, sfruttato minorenni, adolescenti e donne, prolungato la giornata lavorativa, ecc.. Un chiaro segno delle enormi contraddizioni che la NEP porta con sé. Oltre alla ricomparsa d’antichi mali quali lo sfruttamento e le sperequazioni in genere, alcune contraddizioni sono più gravi perché cariche di conseguenze per il futuro; l’organizzazione scientifica del lavoro – il taylorismo anzitutto – presupposto dei rapidi aumenti della produttività, impone l’ampliamento degli apparati di direzione specialistici, e metodi burocratici (nomina anziché eleggibilità, scomparsa del principio della revocabilità, formazione d’interessi particolari separati, ecc.). Contribuisce ad andare in questa direzione la maggiore complessità del sistema finanziario, che comporta bilanci economici espressi in denaro e tecnici specializzati. Gli apparati di direzione dei trust e dei cartelli non sono meno militarizzati dei Glavki, ed in tali rapporti di produzione trovano ampio spazio gli interessi personali.

L’incentivo economico è utilizzato come elemento propulsivo nella disciplina del lavoro, permettendogli così di rientrare a far parte, a pieno titolo, dei mezzi del potere.

*Nota:

V. I. Lenin “Opere” vol. 31 pag. 437

Riabilitazione legge di mercato e rapporti di mercato

Smantellamento direzione centralizzata di produzione e distribuzione

Apertura ai capitali stranieri

Ripristino commercio privato

Ripristino gerarchia salariale di vertice

Riduzione del controllo statale all’industria su larga scala, al commercio estero e a gran parte del commercio all’ingrosso

Parziale liberalizzazione agricola

Cuba 1995-Attualità

Alla scomparsa dell’URSS lo Stato socialista cubano si ritrova solo. La dissolvenza del “campo socialista” priva la rivoluzione cubana del suo più importante alleato, nonché fonte di materie prime e tecnologie. I paesi socialisti asiatici, sono lontani e poco influenti sull’economia dell’isola, e per di più già avviati sul percorso della restaurazione del mercato capitalista.

Alcuni dati circa la dipendenza dell’economia cubana dai paesi dell’Est:

-         Lo zucchero era esportato in Europa orientale in 5/8 milioni di tonnellate, ma ai prezzi di favore del COMECON rendeva come 16 milioni di tonn.

-         Il petrolio era importato dall’URSS in 13 milioni di tonn. fino al 1989, interrottosi il flusso di greggio, la produttività della sola canna da zucchero cala del 45% (vengono meno i pezzi di ricambio dei trattori di fabbricazione sovietica, gli erbicidi, i fertilizzanti, ecc.)

-         La “torula”, un derivato della canna da zucchero era esportato in RDT destinata agli allevamenti bovini in cambio di latte in polvere in quantità da coprire il fabbisogno nazionale.

Cuba si trova pertanto ad affrontare un’improvvisa autarchia. A fronte di un regime economico insostenibile lo stato cubano si garantisce la sopravvivenza sottoponendo il proprio modello economico ad una profonda trasformazione.

L’agricoltura è ristrutturata avviando nell’ottobre del 93’ la cooperativizzazione su larga scala; 400 unità di base di produzione cooperativa gestiscono il 52% della terra coltivabile, un altro 25% è gestita dai proprietari individuali usufruttuari (dal marzo 95’ le terre incolte sono date in usufrutto). Il rimanente 20/25% spetta alle cooperative dello “Esercito Giovanile del Lavoro” (EJT), composto di giovani volontari o da coloro che prestano servizio civile in attività agricole.

Il lavoro autonomo è organizzato dal settembre 94’; l’anno successivo i lavoratori autonomi legalizzati sono già 150.000, per lo più impiegati nel piccolo commercio.

L’industria turistica già nel corso degli anni 80’ era divenuta l’unico settore grandemente remunerativo dell’economia cubana, per prima aveva aperto i battenti ai capitali stranieri, mediante la formula delle società commerciali miste composte di cubani e investitori esteri. Complessi alberghieri e villaggi turistici erano diventati “cittadelle capitalistiche”; le strutture ancora di completa proprietà statale erano state anch’esse convertite al turismo straniero per incamerare valuta pregiata.

Quando sembra giunta la vittoria finale del blocco economico imposto dagli USA, proprio gli investimenti stranieri divengono più che mai questione vitale! Nel 94’ ammontano a ½ milione di dollari, l’anno successivo al doppio.

La trasformazione dell’economia, dal modello sovietico decentrato a quello dell’economia mista, si avvia ufficialmente con l’approvazione nell’ottobre del 95’ della legge sugli investimenti stranieri. Ne regolamenta modalità e settori di competenza; lo Stato mantiene il controllo di Sanità, Istruzione e Difesa. Per la prima volta dal 1961 sono consentiti investimenti stranieri in beni immobili, e la proprietà privata di soggetti esteri al 100%. A fine 95’ si registrano 36 paesi investitori, 176 società miste e altre 300 in via di formazione.

Dal 95’ è stata inoltre legalizzata la libera circolazione del dollaro al fine di ridurre gli effetti deleteri del mercato nero, che già da parecchi anni usava la valuta statunitense. Questa misura ha però restaurato la discriminante mercantile dell’epoca neocoloniale. Oggi, infatti, in virtù delle “libertà” offerte dal mercato capitalista, solo chi possiede dollari può acquistare prodotti, giacché la valuta nazionale (il peso cubano) è molto debole in termini di capacità d’acquisto reale, perché inutilizzabile per comprare merce straniera. I cittadini cubani che possiedono dollari sono gli appartenenti a tre categorie: i dipendenti d’impresa straniere o a partecipazione mista (per lo più impiegati nel settore turistico), coloro che se li procurano in modo illecito (mercato nero e prostituzione) e coloro che godono il vantaggio d’avere parenti residenti all’estero (considerevole è il flusso di dollari provenienti dalla Florida, patria adottiva degli esuli controrivoluzionari). Nella sola Miami i cubani sono circa 700.000, più di un milione in tutto lo stato. Il 40% della popolazione dell’Avana ha parenti residenti all’estero.

Sono state ripristinate forme blande di tassazione sui servizi di base come acqua, gas, telefono.

Esistono anche alcune “aree economiche speciali” (spazi di libera impresa, costruiti appositamente per attirare gli investitori esteri avidi di mano d’opera a buon mercato e priva di tutele), già sperimentate dalla deriva capitalistica dei paesi socialisti asiatici…

Notevole è la propaganda antisocialista svolta dal massiccio afflusso turistico che dagli anni 80’ transita nell’isola ostentando un modello di vita (consumismo, snobismo, becero edonismo vacanziere) che è l’opposto o per lo meno stridente con quello vigente nel paese. Riuscendo però ad imporsi come immagine di ciò che è la realtà dei paesi capitalisti, e fornendo in tal modo il miglior veicolo pubblicitario della retorica anticomunista e antisocialista in genere. Le profonde e traumatiche contraddizioni procurate dal nuovo corso economico sono evidenti.

Cuba resiste! Visti i rapporti di forza e il nuovo ordine mondiale questo è eroico, ma ciò che difende sono i minimi termini dello stato socialista, questo deve essere chiaro.

Riabilitazione legge di mercato e rapporti di mercato

Smantellamento direzione centralizzata di produzione e distribuzione

Apertura agli investimenti stranieri

Ripristino commercio privato

Cooperativizzazione agricola

Cina 1981-Attualità

Lo scontro tra le fazioni del  PCC, che polarizzano la lotta di classe in Cina, prosegue per tutti gli anni 60’ e 70’. La “linea rossa” e la “linea nera” continuano a darsi battaglia. Dal 66’ la “rivoluzione culturale” genera un’improvvisa recrudescenza della lotta in corso, facendo registrare una poderosa offensiva delle forze rivoluzionarie, ma si consumerà un amaro epilogo.

Lin Piao scompare in incidente aereo nel 1971, Jan Qing (moglie di Mao), Jao Weny Uan, Wang Hogwen e Zhang Chuqiao (che saranno definiti dagli avversari “la Banda dei Quattro”) conducono lo scontro con i destrorsi.

Mao, ormai privo della piena lucidità è sostituito da Zhou En Lai, quest’ultimo è colpito dal cancro e muore nel gennaio del 76’. La lotta si riaccende; Deng, succeduto a Zhou En Lai, è destituito e allontanato. La morte di Mao sopraggiunge il 9 settembre. Hua Guo Feng, inizialmente in bilico fra le opposte fazioni, arresta e condanna a morte i “Quattro”. La linea nera” ha prevalso.

Deng occupa il posto di Hua ed inizia le riforme.

Eliminata la resistenza della “linea rossa”, Deng controlla il processo che la storiografia borghese si compiace di definire “demaoizzazione”. Dal 78’ allo 89’ si consolida definitivamente il potere dei destrorsi. Il novembre del 79’ sono istituite le prime quattro “zone economiche speciali”, vere zone franche per gli investitori stranieri. L’abbandono definitivo dell’economia socialista necessita però di una profonda revisione ideologica, per questo motivo nel giugno del 1981 il comitato centrale approva la “Risoluzione su alcune questioni che riguardano la storia del partito”, documento in cui si seppellisce il pensiero di Mao individuando nel “Grande balzo in avanti” del 57’ l’inizio di tutti i mali della Cina, e nella rivoluzione culturale il “fallimento” maoista.

Le riforme economiche investono la Cina socialista già dal 1981, ma a partire dal 92’ è avviata una radicale politica di riforme economiche; ritorno allo sfruttamento familiare delle terre, abolizione delle comuni popolari, riapertura agli investimenti esteri, resurrezione del potere tecnocrate, dell’impresa privata, del mercato, conversione della burocrazia all’affarismo e alla corruzione, in una parola al mondo del denaro.

Questa svolta si compie mediante un graduale recupero dei principi del sistema di mercato, un cammino che ripercorre la storia a ritroso. Vediamolo.

Nel periodo tra il 79’ e l’85’ si avvia il percorso riformista partendo dalla liberalizzazione delle produzioni e dall’adeguamento dei prezzi dei prodotti agricoli. Ciò per portare ad un aumento di reddito nelle campagne e quindi della domanda di beni di consumo della popolazione rurale, domanda che è soddisfatta non dalla industria di Stato (che continua ad essere diretta con i metodi della pianificazione), ma dalla cosiddetta industria collettiva, quella dipendente dalle province e dai comuni, oltre che dalle cooperative. Il conseguente aumento della produzione industriale procura l’estensione della occupazione industriale e l’inevitabile sviluppo delle zone urbane. Utilizzando la tecnologia tradizionale e lasciando le porte aperte agli investimenti esteri concentrati nelle zone economiche speciali, si innesca un processo capace di autoalimentarsi, perché il maggior reddito genera un volume maggiore di risparmi. (Si tratta di un processo capace di decentramento, ma ben diverso da quello sperimentato dalle comuni; mentre le comuni puntavano all’autoconsumo, ora si punta a ristabilire i rapporti di mercato, a sostituire l’economia monetaria a quella del baratto).

Tutta la prima fase della svolta avviene su questa linea.

Tra il 78’ e l’84’ le vendite dei beni di consumo aumentano del 84% nelle aree urbane e del 146% nelle aree rurali. Si noti che non si opera una sorta di controriforma agraria con la restaurazione della proprietà individuale della terra, ma si procede con sapiente gradualità a spostare la proprietà verso il basso, da un organo collettivo ad un altro più piccolo, dalla Comune alla brigata e poi alla squadra (corrispondente ad un gruppo di famiglie, cioè ad un piccolo villaggio), ed infine alle singole famiglie. Il passo successivo è il trasferimento alle singole famiglie, oltre la terra, di macchine e animali. Il processo si compie in modo sottilmente ambiguo, vuoi per i sospetti e le resistenze che può innescare, vuoi per la ancora incerta stabilità del potere destrorso. La decollettivizzazione non viene minimamente menzionata, non esistono direttive in proposito, soltanto nel machiavellico Documento n. 75 del 1981 traspare appena; si dice che c’è una discussione in corso, che lo stato sostiene la gestione famigliare in due casi: nelle aree povere dove i “lavoratori hanno perso la fiducia nella produzione collettiva” e dove “il sistema era stato provato e aveva avuto successo”. Le espressioni, specialmente la prima dato che la stragrande maggioranza dei contadini preferiva la gestione familiare, erano ambigue al punto di consentire un’espansione generalizzata del sistema della “Responsabilità Familiare della Gestione”, come si chiamò senza dare una direttiva espressa. Formalmente tale sistema è ancora vigente.

Con la nuova costituzione del 82’ lo Xiang (tradizionale denominazione di villaggio) è l’organizzazione amministrativa che sostituisce le Comuni, cancellandole. Ciò, infatti, è necessario per consentire alle società miste la gestione delle imprese industriali di proprietà di quelle che erano le Comuni. Le società miste includono fra i soci, oltre agli organi locali, le brigate e le squadre, che diventano organismi collettivi di partecipazione verso l’alto, non organi attraverso i quali esercitare il potere, come era nel regime delle Comuni. Di fatto queste imprese sono gestite da manager. L’effetto delle riforme è un aumento della domanda da parte delle campagne, un aumento del tasso di natalità, un aumento della produttività agricola tale da causare persino una sovrabbondanza di mano d’opera. Quest’ultimo fenomeno accade   soprattutto vicino alle città, dove l’agricoltura è specializzata.

L’altra gran leva di trasformazione è l’apertura agli investimenti stranieri (saliti a 3,5 miliardi di dollari nel 89’), questi si concentrano nelle zone economiche speciali dove vige una larga autonomia delle autorità locali, possibilità di deroga ai regolamenti in materia di salari, prezzi e collocamento dei lavoratori, oltre a esenzioni fiscali. Allo stesso scopo sono create le “zone aperte” (nel 84’ interessano 14 città) con incentivi più ristretti di quelli delle zone speciali, ma con un forte decentramento d’autorità, soprattutto in materia valutaria e di commercio con l’estero.

Anche il sistema di finanziamento è un proliferare di contraddizioni; nel 78’ in Cina c’era una sola banca, la Banca del Popolo, che era banca d’emissione e banca commerciale, in sostanza era il cassiere dello Stato. Oggi è solo la banca centrale, ci sono altre sei banche commerciali, tutte di proprietà dello Stato. Il risparmio non va solo ai depositi bancari, ma anche ai titoli di Stato, obbligazioni d’impresa, e alle azioni quotate in Borsa, là dove è possibile, cioè a Shanghai e Shenzen. In altre città esistono delle Borse di fatto, cioè esiste un mercato di titoli. Il decentramento amministrativo favorisce la deregolamentazione, basta pensare che le due Borse principali sono regolate da organismi locali, i controlli sono inesistenti. Così le banche di Shanghai e Shenzen sono diventate centri di speculazione finanziaria e monetaria, su cui affluiscono capitali esteri fluttuanti.

Nella posizione più debole si trova l’industria di Stato che fornisce prodotti di base, infatti, essa fornisce una gran parte delle entrate dello Stato, ed è lo strumento di cui questo si serve per controllare l’economia: quando c’è una crisi la prima cosa che lo Stato fa è tagliare gli investimenti nell’industria pubblica…

Contemporaneamente procede la liberalizzazione dei prezzi per i prodotti agricoli e industriali.

Il passaggio all’economia di mercato non avviene senza scosse; lo sviluppo rapido e incontrollato provoca inflazione e crisi finanziaria dello Stato. Le entrate dello stato cadono dal 34% del prodotto interno lordo nel 78’ al 20% nel 91. Ma la quota del governo centrale è circa la metà, perché questo non è in grado di riscuotere imposte se non dalle imprese che gestisce direttamente, per le altre deve raggiungere accordi con le province, che a loro volta trattano con gli enti locali che riscuotono direttamente. Il sistema fiscale è quindi una vera e propria contrattazione, simile a quella della Cina imperiale, i contributi dipendono dai rapporti di forza delle singole province, senza contare che le imprese di Stato tendono ad accordarsi con l’amministrazione, barattando il versamento delle imposte con i sussidi. L’inflazione porta nel 88’ il paese sull’orlo della catastrofe, il costo della vita aumenta del 22%, un milione di piccole imprese private falliscono. Nel 50’ i provvedimenti di deflazione avevano portato alla collettivizzazione accelerata, ma nel 89’ rischiano d’avere conseguenze altrettanto significative, ma di segno opposto…nei giorni di “Piazza Tien An Men” la protesta per la stretta confluisce con la richiesta di passaggio alla forma politica liberal-democratica. La repressione della protesta non modifica però la politica economica, semplicemente frena un movimento che rischiava di far perdere il controllo al gruppo dirigente.

Nell’ottobre 84’ sono approvate le “riforme di struttura dell’economia” in cui per la prima volta appare l’espressione “socialismo di mercato”. Nei primi mesi del 92’ Deng rilancia in prospettiva liberale; la nuova parola d’ordine è: “Arricchitevi!”….

Deceduto Deng le tensioni generate dalla “svolta” lasciano prevedere un futuro molto conflittuale, e dato il ruolo che occupa nel mondo il “pianeta Cina”, molto rilevante per i destini globali.

La liberalizzazione ha consentito che la maggior parte dei risparmi dei contadini è investita nelle città, mentre gli investimenti nelle campagne sono fermi. Il reddito medio annuo nelle campagne è meno della metà di quello delle città. Dai 18.000 “Ghethiu”, cioè i lavoratori autonomi ufficialmente registrati nello 80’, oggi, nel 98’ sono ormai 15 milioni.

 L’Italia, al pari di tutti gli altri sistemi d’impresa riconducibili ad una nazione, si è lanciata al “business”. Decimo partner commerciale della Cina, ha investito un miliardo di dollari e creato 300 società miste italo-cinesi. Gruppi industriali come ENI, IRI, FIAT, MONTEDISON, FATA, Barilla, e un considerevole numero di piccole e medie imprese, stanno attivandosi in direzione del mercato più grande, e ancora vergine del mondo.

 Il processo di restaurazione del liberismo è tuttora in corso, perciò è utile considerare il contenuto del documento “Decisioni sui temi che riguardano la costituzione di una struttura dell’economia socialista di mercato”, approvato nella terza sessione del Comitato centrale del XIV congresso.

L’obiettivo è realizzare entro il 2000 le riforme delle industrie di stato, del sistema bancario, della sicurezza sociale, del sistema fiscale. Il mercato libero dovrebbe essere esteso al lavoro, alla proprietà immobiliare, alla finanza. Lo Stato dovrebbe mantenere la proprietà delle maggiori imprese, le altre sarebbero privatizzate. Quelle che rimarranno statali sarebbero trasformate in società miste, pubblico-private con gestione manageriale. Per quanto riguarda la finanza, tre banche di sviluppo dovrebbero gestire i crediti “politici”, lasciando libere le banche commerciali; la Banca del Popolo applicherebbe tassi d’interesse di mercato. Lo Stato dovrebbe cessare di essere il gestore dell’industria pubblica, per diventare semplice proprietario azionista, separando proprietà e gestione, perciò i manager sarebbero indipendenti dai ministeri, avrebbero completo controllo sulle retribuzioni e la politica del lavoro, e sarebbe ammesso il fallimento anche per le imprese statali.

La volontà di procedere su questa linea è confermata dagli eventi di questi ultimi anni; nel giugno del 93’ si sono aperte agli stranieri le attività di servizio, come trasporti, banche e commercio, è stato soppresso il doppio tasso di scambio che dovrebbe consentire la convertibilità dello yuan entro il 99’, sono stati avviati gli esperimenti di azionariato operaio…

 La visita ufficiale del presidente degli USA nel 98’ e ancor più l’ingresso nel WTO, formalizzano il riavvicinamento della Cina al regime di mercato libero. La presenza nel WTO scongiura l’emarginazione e forse l’implosione del tipo di quella verificatasi nell’est europeo nei primi anni 90’.

 Allo stato attuale, il mantenimento del controllo globale dell’economia da parte del PCC garantisce una prospettiva dialettica per il futuro di questa nazione, ancora in grado di ostacolare l’imperialismo occidentale e sempre più di alterare i rapporti di forza internazionali.

Riabilitazione legge di mercato e rapporti di mercato

Smantellamento direzione centralizzata di produzione e distribuzione

Apertura agli investimenti stranieri

Ripristino commercio privato

Ritorno alla proprietà agricola individuale

Conversione della burocrazia all’affarismo

Cronologia DELL’applicazione dei Sistemi economici socialisti

Comunismo di guerra

URSS

1917-1920

Socialismo Sovietico Centralistico

URSS

Cina

Cuba

Corea del Nord

Vietnam

Yugoslavia

Albania

Polonia

Bulgaria

romania

Cecoslovacchia

ungheria

ddr

burkina faso

etiopia

angola

mozambico

zimbabwe

1927/28-1960

1949-1977/78

1960-1969

1954-Attualità

1976-1986

1945-1950

1948-1990

1948-1956

1948-1960

1948-1960

1948-1958

1948-1957

1949-1963

1984-1987

1974-1990

1975-1989

1978-1982

1980-1990

Socialismo Sovietico Decentrato

URSS

CUBA

YUGOSLAVIA

POLONIA

BULGARIA

ROMANIA

CECOSLOVACCHIA

UNGHERIA

DDR

1957-1990

1970-1994

1951-1964

1956-1958 / 1960-1971

1961-1989

1961-1989

1958-1960 / 1968-1970

1958-1960 / 1968-1981

1964-1990

Socialismo di Mercato

YUGOSLAVIA

1966-1990

Economia Mista

URSS

CUBA
CINA

VIETNAM

1921-1926

1995-Attualità

1981-Attualità

1986-Attualità

Conclusioni

Questa rassegna delle realizzazioni economiche del socialismo, per quanto lacunosa e lontana dal chiudere la ricerca in modo definitivo, ci consente di tracciare una panoramica significativa sull’esperienza più costruttiva, in termini concreti, dell’alternativa al capitalismo.

Quale bilancio?

Difficile evitare di cadere in polemiche ed obiezioni, eppure se vogliamo avere una prospettiva rivoluzionaria che non parta da zero dobbiamo fare i conti con questa storia, ma per evitare di avvitarci in sterili conflitti ideologici dobbiamo ripartire dagli elementi concreti, semplici, magari “volgari” come vitto, alloggio, sanità, istruzione, ecc. Troppo spesso questi dati sono ignorati; chi è già sazio ed al sicuro, si concentra sugli aspetti ideali della causa rivoluzionaria, aspetti certamente sostanziali, ma punti finali di un percorso d’emancipazione che concerne tutta l’umanità, e “secondari” nei confronti delle esigenze elementari della vita d’ogni uomo. Proprio oggi, lontano da molte esperienze socialiste, queste esigenze conoscono la privazione più vasta e profonda di tutta la storia dell’umanità.

Sarà un caso?

Le esperienze economiche socialiste sono state molte, spesso frutto di laboriose elaborazioni, e coronate dal successo; grandi paesi come la Russia e la Cina hanno potuto uscire dalla loro secolare arretratezza emancipando centinaia di milioni d’uomini e donne dalla miseria e dallo sfruttamento. L’Unione Sovietica, in particolare, l’esempio più duraturo nel tempo di costruzione del socialismo, nonostante le distruzioni arrecate da due guerre mondiali e da una guerra civile, è arrivata a contendere in molti campi l’egemonia alle più forti potenze capitaliste, nei confronti delle quali ha saputo mantenere per alcuni decenni una parità strategica ed un ruolo di contrappeso di fondamentale importanza.

Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la socializzazione dei mezzi di produzione e la pianificazione dell’economia.

Per socializzazione intendiamo quel processo (già trattato da C. Marx nel “Manifesto” del P.C.) con cui la classe lavoratrice, guidata dal proprio partito, conquista il potere politico e attraverso di esso, sottrae alla borghesia tutto il capitale. Accentra nelle mani del proprio stato i mezzi di produzione, la terra, il credito, la distribuzione, i trasporti, i servizi e le infrastrutture. La proprietà di tutto ciò diventa collettiva, indivisibile ed inalienabile, lo scopo della produzione non è più il profitto, ma il soddisfacimento dei bisogni dei lavoratori stessi.

Da questo punto di vista, nel complesso di uno stato socialista, i termini statalizzazione, nazionalizzazione e socializzazione dei mezzi di produzione, sono sinonimi.

Le esperienze dei paesi socialisti ci hanno offerto una varietà di modelli piuttosto ampia, in alcuni di essi la costruzione del socialismo ha fatto più strada, in altri ha incontrato maggiori difficoltà, un po’ ovunque si sono realizzati grandi successi nella lotta all’analfabetismo, si sono raggiunti livelli di servizi e garanzie sociali sconosciuti in Occidente, basti paragonare la scuola e la sanità cubane con quelle di qualsiasi  altro paese dell’America Latina, ma anche dell’Italia. E che dire della piena occupazione, vera ragione dei bassissimi livelli di criminalità di quei paesi, dell’emancipazione femminile come parità concreta fra i sessi, della convivenza armonica in paesi multietnici come l’URSS e la Yugoslavia, o multirazziali come Cuba.

Questo è il socialismo, il tentativo di raggiungere un livello di civiltà superiore, fondata sulla soluzione della contraddizione tra il carattere sociale della produzione ed il carattere privato dell’appropriazione.

E da qui occorre sempre ripartire.

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Referenze Bibliografiche

-“Storia del Marxismo” ava Ed. Einaudi 1982

-“Sconfitta e futuro del Socialismo” Hans Heinz Holz Ed. Evangelista 1994

-“La Cina contemporanea” Napoleone Colajanni Ed. Tascabili Economici

   Newton 1994

-“Il Calendario del Popolo” Numeri vari

-“Rinascita” Numeri vari

-“Il pensiero di Karl Marx” Cesare Pianciola Ed. Einaudi 1978

-“Introduzione alla teoria economica marxista” John Eaton  Ed. Einaudi 1978

-“Il Socialismo Cubano” Centro di Documentazione Popolare (dispensa

   autoprodotta)

-“Attualità del Che” ava Ed. Teti – J. Martì