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- pensiero resistente - dibattito teorico - 01-01-12 - n. 391
La rivoluzione permanente: Come la dialettica diventa metafisica
di Renato Ceccarello
29/12/2011
Tornare sulla teoria della Rivoluzione Permanente di Trozki e sulla polemica con quello che è stato definito il "socialismo in un solo paese" (ma non solo con questo) sembrerebbe, a prima vista, imbarcarsi in una disputa "lunare", all'apparenza enormemente distante dalle questioni pressanti di oggi circa il movimento operaio e il comunismo.
Niente di più falso. La disputa tra (schematizzo) Stalin e Trozki, attualizzata, è disputa sulla linea politica generale dei comunisti, quindi sulle alleanze, sulla tattica, sul "far politica", o sul non farla affatto perché degli schemi astratti ci danno sempre la verità in tasca, senza bisogno di "analisi concrete di situazioni concrete" (Lenin). Si tratta, in ultima analisi, da un lato, di giudicare se atteggiamenti di tipo settario, di modesto sforzo intellettuale, sono la miglior risposta per uscire dal nostro stato di crisi; dall'altro di stabilire un confine oltre il quale l'atteggiamento più aperto e le alleanze più larghe ed ardite diventano revisione della teoria del socialismo nella teoria e collaborazione di classe nella pratica. Si tratta, ancora, della linea da seguire, e nei paesi capitalistici avanzati e in quelli di nuova industrializzazione o in via di sviluppo, rispetto alle congiunture politiche dei singoli paesi, per nulla omogenee.
Con riferimento ai paesi ex-coloniali o semicoloniali, ed ora di nuova industrializzazione, si tratta di considerare - e mi riferisco solo a leader del campo borghese in paesi con presenza di partiti comunisti - se la politica verso Sun Yat Sen in Cina, Ataturk in Turchia, Sukarno in Indonesia, Mossadeq in Persia, Nasser in Egitto, Mandela in Sudafrica, Chavez in Venezuela, Lula in Brasile, Morales in Bolivia, Kirchner in Argentina, Correa in Ecuador, debba essere la stessa di quella da seguire nel caso, rispettivamente, di Chang Kai Shek, dei generali turchi, di Suharto, dello Shah, di Mubarak, di De Klerk, o dei golpisti sudamericani, o se invece (come io penso) impostazioni politiche, congiunture e fasi diverse (pur riconducibili a politiche non socialiste) debbano essere affrontate con politiche articolate.
La teoria della Rivoluzione Permanente in Trozki
La teoria della Rivoluzione Permanente prese spunto da uno scritto dello stesso autore, "Bilanci e Prospettive", scritto sul finire del 1905 su quella prima rivoluzione russa in cui egli ebbe, dall'interno di quel paese, una parte importante.
Come noto, tale rivoluzione, a carattere democratico, con la politica assunta dal Partito Bolscevico secondo la parola d'ordine "dittatura democratica degli operai e dei contadini", pur non essendo una mera rivoluzione borghese, doveva distinguersi dalla rivoluzione socialista con obiettivo politico schematizzabile nello slogan "dittatura del proletariato". Essa si proponeva, nella sostanza, due obiettivi:
1) l'abolizione dell'assolutismo;
2) la soluzione della questione agraria, riassumibile nell'abolizione della proprietà fondiaria, retaggio feudale, con la distribuzione della terra ai contadini.
La teoria poggia su due presupposti:
a) che i contadini non siano in grado di esprimere una forza politica indipendente, in grado di dare alla rivoluzione democratica l'impronta di quella classe, e quindi di esserne da essa diretta;
b) che la borghesia non avesse un interesse di classe a realizzare gli obiettivi di questa rivoluzione, spinta in ciò dall'interesse al compromesso con la nobiltà fondiaria e la reazione.
Ebbene, Trozki afferma che, con questi presupposti, spettava al proletariato porsi alla testa di tale rivoluzione, appoggiandosi sui contadini, per realizzarne gli obiettivi. Esso perciò doveva porsi il compito di assumere il potere in forma di dittatura del proletariato, portare a termine la rivoluzione democratica ed iniziare, senza soluzione di continuità, la rivoluzione socialista, con "incursioni sempre più vaste sulla proprietà dei mezzi di produzione".
Sulla base di queste considerazioni lo scritto del 1905 conteneva un pronostico sulla successiva rivoluzione russa e, in genere, sulle rivoluzioni che iniziano come non proletarie che, stante in preteso carattere ovunque oscillante della borghesia, si sarebbero svolte secondo il tracciato schema di cui sopra.
Le successive rivoluzioni del 1917, effettivamente, parvero confermare questo schema: dalla rivoluzione democratica di febbraio (senza che Kerenski, i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi desse realmente corso alla rivoluzione agraria) si passo alla rivoluzione socialista del novembre con la presa del potere da parte del proletariato. Con il decreto che sanciva (nelle campagne i contadini erano già passati alle vie di fatto) la distribuzione delle terre la rivoluzione d'ottobre completava la rivoluzione democratica ed iniziava quella socialista.
Sorge qui subito la domanda: doveva questo schema essere una legge? Di modo che ogni rivoluzione che non iniziasse immediatamente come socialista dovesse ricalcarlo? Il carattere oscillante e compromissorio delle borghesie nazionali è sinonimo di meccanici mutamenti di rapporti di forza a favore del proletariato? Per chi scrive è evidente che se esso fosse ripetibile nello spazio e nel tempo ci troveremmo di fronte una ricetta che ridurrebbe ogni analisi di situazione concreta ad un caso di scelta della tattica contingente, e soprattutto, nella storia ci sarebbero state delle conferme. Ma non è così, e, a ben vedere, non fu così nemmeno per la rivoluzione russa.
Differenza con Lenin
Contrariamente a quanto afferma Trozki Lenin non aderì affatto alla teoria della Rivoluzione Permanente. Lo stesso Trozki parla della sua divergenza con Lenin a proposito del 1905, segnatamente sul primo presupposto, quello sull'incapacità dei contadini di esprimere una direzione politica indipendente. Egli però minimizza questi contrasti riducendoli ad una questione puramente quantitativa sulla quota di potere che le due classi avrebbero assunto nel corso della rivoluzione democratica.
La formula della dittatura democratica degli operai e dei contadini (che, per inciso, Trozki contrattava) aveva, e di proposito, un carattere algebrico. Lenin non risolveva in anticipo la questione dei rapporti politici tra i due protagonisti della dittatura democratica, il proletariato e i contadini. Non escludeva che i contadini fossero rappresentati nella rivoluzione democratica da un partito indipendente, indipendente non solo dalla borghesia, ma anche dal proletariato ed in grado di realizzare la rivoluzione democratica unendosi al partito del proletariato nella lotta contro la borghesia liberale. ... Lenin ammetteva la possibilità che il partito rivoluzionario contadino (i socialisti-rivoluzionari, n.d.r.) avesse la maggioranza in un governo di dittatura democratica (1)
Al contrario, quella che per Trozki è "ponderazione di elementi algebrici", per Lenin è analisi concreta della situazione non data una volta per tutte al di fuori dello spazio e del tempo. E proprio sull'analisi concreta della situazione che nell'aprile del 1917 capì che le masse operaie e contadine avrebbero potuto andare ben oltre gli obiettivi, perseguiti tra l'altro solo in modo parziale, della rivoluzione di febbraio. Capì che, in quel contesto, la rivoluzione borghese di febbraio si era già da subito trasformata in un freno alla corsa delle masse, che il potenziale di lotta e trasformazione poteva essere liberato da una nuova rivoluzione, radicalmente diversa dalla precedente. In ciò sta il suo genio politico. Senza che per questo si debba fare una colpa a quanti, di parte bolscevica (e rappresentavano la quasi totalità del partito), non cogliendo questa potenzialità concreta, si erano fino a quel momento limitati ad un appoggio critico alla rivoluzione di febbraio, come a costituire l'ala radicale di sinistra. Lenin e non Trozki seppe traghettare questi compagni verso nuovi obiettivi da conseguire con una diversa politica.
Il confronto con Stalin sulla prospettiva dell'edificazione socialista
Secondo la lettura riformista di Marx, che nella Russia trovava espressione nel menscevismo, lettura secondo i canoni dell' "evoluzionismo volgare" (2) dovevano essere necessariamente i paesi più avanzati a giungere per primi al socialismo mediante la graduale trasformazione delle strutture della società capitalista senza una necessità di ricorrere ad eventi rivoluzionari. Per la stessa lettura la Russia doveva attraversare un lungo periodo di sviluppo capitalistico prima di arrivare al socialismo. L'assolutismo doveva perciò cedere il passo ad una rivoluzione democratico-borghese che sviluppasse in profondità le forze produttive capitalistiche.
Come noto Lenin e il bolscevismo, e in seguito il movimento comunista, rompono con questo schema, compresa l'impostazione filosofica che ne è di premessa, affermando che le classi dominanti non cedono pacificamente il passo a quelle dominate, nemmeno nei paesi a sviluppo più avanzato, tanto più se questo cedere il passo significa espropriazione, trasformazione dei rapporti di proprietà. Di qui la teoria leninista della rivoluzione proletaria. Secondo Lenin per passare al socialismo occorre la rivoluzione proletaria. Dove e da quali paesi cominciare? Qui la risposta si fa articolata.
Un punto fermo è dato dal carattere internazionale del socialismo e del comunismo, il cui affermarsi, la cui vittoria definitiva, necessita della vittoria della rivoluzione proletaria nei paesi più avanzati, o almeno in una parte di essi, per esempio, restando a Lenin, in Germania. L'affermarsi del socialismo nelle nazioni avanzate è garanzia da un lato della difesa contro la reazione del capitalismo internazionale, sconfitto ma non vinto, dall'altro di armonioso processo di edificazione, dove le difficoltà riscontrate nelle realtà più arretrate incontrano il soccorso di quelle più avanzate, e dove le carenze di specifiche derrate, materie prime, tecnologie di un paese vengono compensate dall'abbondanza di un altro.
Ma si considera anche che, malgrado l'auspicio che la rivoluzione si affermi per prima nei paesi avanzati, non necessariamente inizia da li, ma da dove lo sviluppo storico ineguale rende le contraddizioni più esplosive, dove, per restare ad una celebre metafora leniniana, si è accumulato molto materiale infiammabile. Per un'altra metafora altrettanto celebre, dove la catena imperialista di dominio mondiale ha l'anello più debole. E, con buona probabilità, ciò può essere in un paese arretrato.
La legge dello sviluppo ineguale rende altamente improbabile una rivoluzione simultanea in più paesi. La prima rivoluzione non è però che l'inizio di un processo che, a breve termine, dovrebbe coinvolgere altri paesi. In sostanza, da qualche parte si deve pur cominciare, e questo inizio è probabile in un paese capitalistico arretrato. Se però non arriva in tempo il soccorso della rivoluzione vittoriosa in altri paesi, è altamente probabile che i primi tentativi siano destinati a soccombere, anche sul piano militare.
Ebbene, questo era il quadro teorico e politico del bolscevismo in Russia del 1917, dopo l'arrivo di Lenin in Russia e fino ai primi anni della rivoluzione. Una concezione cui aderirono tutti i dirigenti bolscevichi. Nonché il quadro di riferimento della III Internazionale ai primi due congressi. Lo stesso Lenin, subito dopo l'ottobre, osservando che il contagio russo (Germania, Ungheria, Slovacchia) non produceva rivoluzioni vittoriose, giudicava altamente probabile che il suo tentativo dovesse soccombere sotto la pressione di nemici soverchianti.
Ma non andò così.
Forse per la particolare congiuntura internazionale (la guerra imperialista doveva infuriare ancora per un anno), forse per un insperato sostegno di larghe masse contadine, assai oltre una auspicata benevola neutralità, forse per la pressione sulle proprie borghesie del proletariato internazionale (da ricordare, perché emblematico, l'ammutinamento dei marinai francesi a Odessa) la rivoluzione d'ottobre riuscì prima a sopravvivere e successivamente ad affermarsi nelle guerra civile sconfiggendo le armate bianche e l'aggressione internazionale. Successe ciò su cui pochi potevano razionalmente scommettere: essa si affermava senza la vittoria in altri paesi.
Già nel 1921 al 3° congresso dell' I.C. si prendeva atto dell'inizio di una fase di riflusso dell'ondata rivoluzionaria in Europa e si inaugurava una politica conseguente: la tattica di resistenza e di accumulo di forze attraverso il Fronte Unico.
Sorse successivamente la domanda: che fare? Rinunciare all'edificazione socialista, a quella "incursione nella proprietà dei mezzi di produzione", per stare alla metafora della "Rivoluzione Permanente, alzare bandiera bianca dicendo alle masse: "Scusate, ci siamo sbagliati" ?
Nella sua presa d'atto della nuova situazione Lenin, senza ammettere apertamente di essersi sbagliato nelle previsioni, e quindi nella teoria, cominciò ad affermare che era possibile edificare il socialismo anche con le sole forze della Russia. Negli scritti del 1923 "sulla cooperazione" e "sulla nostra rivoluzione" egli afferma e prospetta l'opera di edificazione socialista. (3) Egli non ebbe il tempo di portare a termine questa correzione di rotta imposta, in primo luogo, dai fatti. Ma le citazioni tratte da scritti importanti e conosciuti sono sufficienti a smentire il sodalizio teorico con Trozki, e quindi che sia stato Stalin a compiere la cesura con l'impostazione della Rivoluzione Permanente di quest'ultimo (4)
E' vero invece che Stalin, dal 1924 al 1926, trovando delle resistenze all'avvio dei piani quinquennali per la modernizzazione del paese, sviluppò le riflessioni di Lenin dandovi un carattere organico sulla base delle condizioni russe ed internazionali (gli insperati successi sulla ricostruzione economica all'interno - anche se l'economia rimaneva inferiore ai livelli del 1913 - e le contraddizioni interimperialiste conseguenti alla pace di Versailles) affermando "possiamo costruire il socialismo in un solo paese", cosa assai diversa dalla negazione del carattere internazionale del socialismo.
Per far ciò affronta, dandovi una articolazione la tesi allora corrente dell'impossibilità della costruzione del socialismo in un solo paese, intaccata, ma non del tutto demolita dall'ultimo Lenin.
Per Stalin vanno distinte due questioni diverse:
a) La questione della possibilità dell'edificazione del socialismo nelle condizioni storiche concrete di allora della Russia sovietica, quindi di un paese esteso, ricco di materie prime ma arretrato ed isolato, senza una concreta possibilità di soccorso del proletariato vittorioso in paesi avanzati, questione verso la quale andava data una risposta positiva e
b) la questione della garanzia assoluta della vittoria in caso di intervento esterno verso la Russia sovietica, verso la quale la risposta era invece negativa. (5)
Sulla prima questione la risposta di Stalin è senz'altro una correzione di rotta delle concezioni del Partito dettata in primo luogo dalla realtà dei fatti, che già abbiamo illustrato.
Ma, a ben vedere, non si tratta solo di questo. Bensì della sistemazione a livello teorico di una concezione in cui il leninismo, qui inquinato da una sorta di determinismo tipico più del positivismo che della dialettica e dominante nella II Internazionale, approdava a gravi contraddizioni.
Come teoria della rivoluzione proletaria che si svincolava dal determinismo socialdemocratico, il leninismo da un lato doveva ammettere (teoria dell'anello debole) che tale rivoluzione potesse con alta probabilità iniziare in un paese arretrato, ma dall'altro, nel momento in cui negava che tale rivoluzione potesse vincere e dar luogo alla costruzione del socialismo, anche senza il soccorso del proletariato vittorioso dei paesi avanzati, tornava in quel determinismo da cui si era distaccato.
Questa contraddizione è particolarmente evidente in Trozki. Nella sua concezione della Rivoluzione Permanente, ossia della rivoluzione che dei paesi arretrati iniziava come democratico borghese per trasformarsi sotto la guida del proletariato vittorioso in socialista, comportava, nella seconda fase, l'adozione di misure socialiste. (6) Ebbene, come qualificare tale fase se non fase della costruzione del socialismo? Altrimenti, a che pro adottare progressive misure socialiste? Come inquadrare affermazioni del tipo "I successi industriali conseguiti negli anni di pace sono una prova imperitura degli incomparabili vantaggi dell'economia pianificata" (7) se la costruzione del socialismo è impossibile? E quindi, come conciliare la necessità di misure socialiste dove il socialismo è impossibile? E con la qualificazione di "utopia reazionaria" (8) per un tale progetto di edificazione in condizioni arretrate che altrove, nello stesso scritto, veniva invocato?
Nella contraddizione ci sono anche evidenti problemi di logica formale. Poiché si sostiene l'assoluta necessità del sostegno del proletariato vittorioso di altri paesi sorge la domanda: di quanti di questi? Fino a raggiungere quale "massa critica" in grado di cambiale la quantità in qualità? P. es. se la rivoluzione dei Consigli avesse vinto nella sola Ungheria la situazione cambiava? E se in luogo di un una confederazione di repubbliche quale fu l'URSS si fosse distinta la Georgia, l'Ukraina, il Kazakstan, ... la Russia considerata separatamente sarebbe stata ancora un paese isolato? E dopo il 1945? E dopo il 1949?
Tale contraddizione, dicevamo, andava oltre Trozki per comprendere, politicamente parlando, la totalità di quei dirigenti che venivano a costituire, dopo la morte di Lenin, l'opposizione. Segnatamente Zinoviev e Kamenev. A riguardo del primo Stalin scrive, non senza una punta di sarcasmo:
"Edificare il socialismo senza avere la possibilità di condurre a termine la costruzione; costruire sapendo che non arriverai a condurre la costruzione, ecco l'assurdo a cui è arrivato Zinovev" (9)
Sulla seconda questione, quella della garanzia assoluta che l'imperialismo non possa intervenire vittoriosamente manu militari Trozki assume ancora una volta una posizione opposta a quella di Stalin, stando almeno alla seguente citazione
"... Siccome al momento della costruzione completa del socialismo (ovviamente ammesso per ipotesi, n.d.r.) l'URSS avrebbe, ammettiamo, una popolazione da 200 a 250 milioni di abitanti, domandiamo. Di quale intervento (militare, n.d.r.) potrebbe trattarsi? Quale paese capitalista o quale coalizione di paesi oserebbe pensare a un intervento in simili circostanze? Il sol intervento concepibile potrebbe intervenire dall'URSS. Ma sarebbe necessario? E' difficile crederlo." (10)
E, invece, alla prova dei fatti, non solo l'Unione Sovietica fu aggredita dalla coalizione nazi-fascista, che all'epoca rappresentava l'ala più reazionaria e sciovinista del capitale finanziario (rapporto Dimitrov al VII congresso dell'I.C.) e quindi del sistema imperialista; ma anche dopo la vittoria della coalizione antifascista l'ala per così dire "democratica" dell'imperialismo (gli angloamericani) non rinunciò mai, per tutta la guerra fredda, all'acquisizione di un vantaggio strategico in funzione di un'opzione militare (11). Se è vero che ciò costrinse, per tutta l'esistenza dell'URSS, prima come paese isolato, poi come paese integrato in un campo socialista, a dirottare ingenti risorse per la difesa in proporzioni decisamente maggiori di quelle del più vasto e sviluppato campo avverso, a discapito della produzione di beni di consumo, e quindi con qualche sofferenza sul piano del consenso di massa, specie in paesi alleati, ciò non impedì affatto la costruzione di un potente sistema socialista.
Il colpo di Canton non fermò la rivoluzione cinese
Il confronto tra la posizione di Trozki secondo la Rivoluzione Permanente e l'I.C. dovette toccare un punto assai caldo sulla rivoluzione cinese, le cui caratteristiche sociali di partenza non erano così distanti da quelle della rivoluzione russa del 1905. Anche la Cina era un paese a dominanza contadina, semifeudale, con poche isole industriali coincidenti con territori a concessione straniera: Nanchino, Shangai e Hong-Kong con presenza dell'imperialismo angloamericano, la Manciuria a Nord con dominanza Giapponese: A differenza della Russia l'impero era in completo disfacimento, con la più parte delle regioni centro-settentrionali in mano a feroci "signori della guerra". Solamente nella regione meridionale di Canton poté insediarsi un governo nazionalista che preconizzava una rivoluzione nazionale. La rivoluzione cinese doveva perciò avere un carattere da un lato agrario, dall'altro democratico, nazionale ed antimperialista, ma con differenze politiche importanti rispetto alla realtà russa del 1905 ed ancor di più del 1917.
In primo luogo la presenza preponderante, tra le forze antimperialiste, del Partito Nazionalista Cinese, il Kuomintang, fondato dal Dr. Sun Yat Sen, grande personalità democratica ed amico dell'Unione Sovietica fino alla morte nel 1925. Ricordando che dalla fondazione, nel 1921, il P. Comunista Cinese, sotto la guida di Chen Tu Hsiu, che successivamente aderirà al trozchismo, unificava l'azione forse di un centinaio di militanti, diviso in pochi gruppi sparsi nell'immenso paese, e che da tale fondazione ai fatti del 1927 dovevano passare solamente sei anni (!) l'osservazione e l'azione dell'I.C. doveva concentrarsi, appunto, sul Kuominang, secondo le disposizioni dei Congressi e della Sezione Orientale. Tale linea era per altro stabilita in via generale già dal II congresso dell'I.C. dove era esplicitamente previsto il sostegno ai movimenti nazionalisti (12) e successivamente specificata nel corso dei successivi. Tra le specifiche veniva stabilito per i comunisti il duplice compito:
a) di partecipare alla rivoluzione nazionale, cercando, nei limiti del possibile, di porla sotto l'egemonia del proletariato (un compito però di prospettiva, non di ordine tattico)
b) di mantenere, nell'ambito di tale compito generale, la propria autonomia e di agire affinché tale autonomia fosse mantenuta dal Movimento Operaio. (13)
Come si può vedere dalle citazioni in nota, che coprono un arco di tempo in cui Lenin è nel pieno possesso delle propri capacità fisiche e mentali, prima della malattia, le indicazioni generali dell'I.C., se permettevano accenti diversi sull'obiettivo nazionale (alleanza nel Fronte Unico Antimperialista) e sull'obiettivo sociale (autonomia nell'ambito dello stesso fronte), consentendo una gestione tattica non univoca, escludono il rovesciamento della borghesia nazionale, diversamente dalle prescrizioni della Rivoluzione Permanente e come secondo le posizioni di Trozki sulla Cina, a meno che le condizioni politiche e i rapporti di forza non consentissero una tale impresa. Tali condizioni si verificarono in Cina, effettivamente, nella seconda metà degli anni '40 del secolo scorso. Ma pensare che potessero già essere presenti nel 1926-27, in un paese per metà ancora occupato dai potenti "signori della guerra", stante il limitato sviluppo del movimento operaio cinese, seppur accresciuto dopo il 1921, e stante i rapporti di forza con il Kuomintang, significa sconfinare nella fantapolitica.
Stando invece alla realtà è innegabile che inizialmente lo scenario della rivoluzione democratica ed antimperialista dovesse essere inizialmente occupato dal Kuomintang, che arrivò persino a chiedere (la domanda non fu accolta) l'adesione all'I.C., almeno fino alla "spedizione del Nord" del 1926, e la liberazione delle principali città lungo il fiume Yang-Tze, tra cui Shangai, e fino al perfido tradimento di Chang Kai Schek (che era subentrato a Sun Yat Sen) nel 1927.
Piuttosto va considerata la giustezza della linea generale dell'I.C. e la sua attuazione generale sostanzialmente corretta che consentirono, nel quadro dell'iniziale alleanza con il movimento nazionalista, ma con il mantenimento dell'autonomia del movimento operaio, la considerevole crescita del P.C.C. in grado di giocare, in tale alleanza, un ruolo di primo piano con, non è male ricordarlo, proprie forze armate.
E' vero, invece, che nel 1927 l'I.C. fece dei gravi errori tattici che fecero si che il P.C.C. non fosse in grado prima di parare il colpo che Chang Kai Schek sferrò contro il movimento operaio a Shangai, e, successivamente, di attuare vittoriosamente, come risposta, un'insurrezione frettolosamente preparata, nella città di Canton.
L'orgia di sangue scatenata dai nazionalisti nelle due città, se non scompaginò il P.C.C. mise oggettivamente in difficoltà l'I.C. di fronte a Trozki e Zinovev, al punto che, verificata la non ulteriore attuabilità della linea politica di alleanza con la borghesia nazionale cinese dopo un ulteriore tentativo attuato con la frazione di sinistra del Kuomintang, il VI congresso dell'I.C. del 1928 diede una drastica sterzata a sinistra, inibendo ogni possibilità di accordo in Europa con la II° internazionale (bollata di socialfascismo) e restringendo l'attuabilità del Fronte Unico operaio solo a partire "dal basso", con effetti non so quanto positivi sul movimento operaio europeo in fase di riflusso; ma invece, incredibilmente, con effetti del tutto opposti in Cina.
Il recupero della parola d'ordine della costruzione dei Soviet, seppur nei soli posti dove era possibile costruirli, ossia nelle campagne, permise alla rivoluzione cinese di trovare, pur con altri errori tattici (linee Wang Ming e Li Li San), la sua via, resistendo alle campagne militari del Kuomintang, ritirandosi al momento opportuno verso le zone sovietiche del Nord da dove era possibile un nuovo sviluppo del movimento, con la possibilità di sfruttare appieno le contraddizioni del campo avverso specialmente dopo l'invasione giapponese (14) e di moltiplicare la propria potenza nella lotta contro l'invasore.
Dopo la fine della II guerra mondiale, nel confronto decisivo con i nazionalisti, le forze popolari, rafforzatesi e moltiplicatesi nella rivoluzione nazionale e sociale, dovevano conseguire una splendida vittoria nel 1949 che avrebbe potenziato, fino alla rottura provocata dall'insorgere del fenomeno revisionista, il campo socialista.
Note conclusive
La maggior parte dei paesi socialisti tra il 1989 e il 1992 doveva crollare. Ma questo collasso non significa affatto una tardiva conferma dell'impossibilità della costruzione del socialismo "in un solo paese". E non perché i paesi coinvolti fossero più di uno e per niente isolati.
Le condizioni tecniche e materiali, ed anche politiche, della costruzione del socialismo, almeno dopo gli anni della ricostruzione del dopoguerra, malgrado la distorsione di risorse indotta dalla corsa agli armamenti imposta dall'imperialismo, erano nettamente e incomparabilmente migliori di quelle degli anni '30, per non parlare degli anni '20, dove si partiva dalla base dell'industria zarista faticosamente rimessa in piedi e da uno scambio con la campagna assai precario e, prima della collettivizzazione delle campagne, fuori del controllo statale.
Certamente il socialismo era perfettibile, per esempio sul piano dell'armonizzazione degli interessi del singolo e del collettivo nei posti di lavoro (dove il movimento emulativo andava esaurendosi), così come sul piano della migliore definizione delle forme di proprietà e delle conseguente ricollocazione di alcune risorse (chi scrive è oggi del parere che la proprietà cooperativa potesse avere una maggior estensione, fuori dell'agricoltura, nel campo della produzione di beni di consumo e dei servizi, dove poteva anche essere lasciata in vita la proprietà individuale).
Nei primi anni '60 il divario tecnologico tra i due campi fu drasticamente ridotto a detrimento del dogma trozkista ed a conferma della superiorità del socialismo. Nel campo atomico ed aerospaziale, ma non solo, l'URSS riuscì anche a primeggiare per un certo periodo.
Non fu perciò questo il piano che doveva causare il progressivo indebolimento del campo socialista: al contrario il rapporto causa-effetto andava invertito, perché tale indebolimento doveva avvenire per il venir meno di fondamentali condizioni politiche.
Queste ruotano attorno al presupposto che, non solo per il periodo di transizione in questo o quel paese o gruppo di paesi, non solo fino a che la resistenza delle classi spodestate in questi paesi è vinta, ma per tutto il periodo di coesistenza a livello mondiale con l'imperialismo la dittatura del proletariato va mantenuta e rafforzata, e non sostituita da uno "stato di tutto il popolo" che politicamente significa la rinuncia che l'intera comunità socialista sia sotto la guida di una classe al potere. Va da se che la dittatura di una parte della società su tutta la società presuppone non solo una diversa sostanza del partito al potere che della classe operaia deve mantenere una strutturata rappresentanza politica, ma la mobilitazione diretta delle masse (con controllo operaio, ispezione operaia, sindacati che abbiano un potere reale).
Il mantenimento di tale dittatura è la necessaria condizione politica affinché il socialismo, a livello globale ancora meno potente dell'imperialismo, possa attrezzarsi socialmente contro la guerra (non importa se "fredda", anziché calda) che quest'ultimo gli muove.
La coesistenza e la competizione con l'imperialismo non possono essere "pacifiche", non nel senso che necessariamente esse debbano cedere il passo al conflitto armato (anzi: la lotta per la pace è un fondamentale obiettivo politico e come tale fu messo in evidenza dalle grandi conferenze dei P.C. e operai del 1957 e del 1960), ma nel senso che l'imperialismo, nel confronto con un sistema avverso, non rinuncia ad alcun mezzo di sovversione, facendo leva non solo e non tanto sulla resistenza delle classi vinte, ma su ogni piccola crepa del sistema, su ogni piccolo problema e difficoltà, persino sugli inevitabili conflitti generazionali e di genere, mentre, viceversa, il campo socialista non rinuncia ad applicare attivamente l'internazionalismo proletario.
Come storicamente si è dimostrato tale dittatura ha avuto profonde e positive ricadute sul piano economico, in termini di emulazione, di efficienza dei collettivi produttivi, di lotta agli sprechi, al burocratismo e al parassitismo, tutti fenomeni negativi riscontrabili negli ultimi anni dell'esperienza del campo socialista, non ultimo quello da più parti denunciato del connubio tra direttori di fabbrica e maestranze per resistere all'innalzamento degli indici produttivi, che per i primi significavano maggiore difficoltà a raggiungere gli obiettivi del piano, per i secondi un più intenso impegno lavorativo.
Ebbene, in tutte le esperienze in cui il socialismo è stato sconfitto il principio del venir meno, e in modo sempre drammatico, con scadenze databili, della dittatura del proletariato è un dato di fatto.
Per rimanere a tre esperienze diverse e importanti:
- In URSS nel 1957 ad una drammatica riunione del comitato centrale del Partito convocato in fretta e furia da Kruscev che era stato sfiduciato dall'Ufficio Politico, venne defenestrato il cosiddetto "gruppo antipartito" (Molotov, Malenkov, Kaganovic), erede del gruppo dirigente staliniano, dando luogo ad una progressiva e grave forma di revisionismo di cui le conseguenze politiche salienti furono la rottura del campo socialista e la (seppur parziale) conciliazione con l'imperialismo.
- In Cina, senza entrare nel merito della dolorosa e oscura vicenda della liquidazione del gruppo di militari facente capo al maresciallo Lin Piao (15) che lo scrivente ritiene indebolisse fortemente la sinistra del Partito, la liquidazione, subito dopo la morte di Mao nel 1976, della cosiddetta "banda dei quattro" che propugnava la prosecuzione della lotta di classe nel socialismo e l'instaurazione esplicita della dittatura del proletariato, diede campo libero alla frazione revisionista capeggiata da Deng Xiaoping.
- In Albania, in una altrettanto drammatica riunione del comitato centrale del Partito del Lavoro dopo l'89 e prima dei torbidi partiti dalla città di Elbasan l' "ala dura" del partito , capeggiata dal compagno Simon Stefani, ministro dell'interno, venne, a quanto comunicato da Radio Tirana, "pensionata" (!) col risultato di paralizzare il partito di fronte alla controrivoluzione che di li a poco sarebbe scoppiata, con conseguenze drammatiche per lo stesso gruppo (revisionista) uscito "vincitore".
Se il revisionismo dei vari gruppi dirigenti, a partire da quello che si impossessò del potere in URSS dopo la morte di Stalin è, in definitiva, esso stesso un frutto della pressione dell'imperialismo e al tempo stesso una sua vittoria strategica, è altrettanto vero che siamo fuori dell'orizzonte teorico di Trozki, anche perché come dimostra l'esperienza di altri paesi e di altri partiti, in Europa segnatamente il KKE, il PCP, AKEL, tutto ciò poteva essere evitato. O, in altre parole, l'esito della lotta tra i due campi, le due concezioni, le due linee, non era scontato.
Non dalla Rivoluzione Permanente, non dal determinismo della socialdemocrazia classica, ma dal patrimonio del movimento comunista e del socialismo reale, pur filtrato dall'analisi e dalla riflessione, dovrà partire la ripresa di un movimento verso il quale la società civile mondiale, in preda ad una spaventosa crisi economica, sociale e morale, pone domande urgenti.
Note:
1) La rivoluzione permanente- Einaudi 1967 - pag 18 introduzione.
2) Usiamo qui un epiteto dello stesso Trozki(Ivi - pag 103).
3) Nello scritto "sulla cooperazione" Lenin afferma: " ... l'organizzazione in maniera sufficientemente ampia e profonda della popolazione russa in cooperative nel periodo della Nep, è tutto quanto ci occorre, dato che ora abbiamo trovato quel grado di coordinazione dell'interesse privato, dell'interesse commerciale privato, con la verifica e il controllo da parte dello Stato, quel grado di subordinazione dell'interesse privato all'interesse generale, che prima rappresentava un ostacolo insormontabile per molti, moltissimi socialisti. In realtà il potere dello Stato su tutti i grandi mezzi di produzione, il potere dello Stato nelle mani del proletariato, l'alleanza di questo proletariato con milioni e milioni di contadini poveri e poverissimi, la garanzia della direzione dei contadini da parte del proletariato, etc, non è forse tutto questo ciò che occorre per potere, con la cooperazione, con la sola cooperazione, ... , condurre a termine la costruzione di una società socialista integrale?" (4 gennaio 1923 - sulla cooperazione - da Opere Complete, Editori Riuniti, p. 429).
E ancora, riferendosi alle critiche della socialdemocrazia europea (ma il riferimento può ben essere esteso a Trozki) secondo cui la Russia non ha raggiunto il livello produttivo sulla base del quale è possibile il socialismo, secondo una lettura dogmatica ed, appunto "evoluzionista volgare" di Marx, bolla tutto ciò come "incredibile pedanteria" (16 gennaio 1923 - Sulla nostra rivoluzione - da Opere Complete, Editori Riuniti p. 438). Inoltre scrive:
"... è infinitamente banale il loro argomento studiato a memoria durante lo sviluppo della socialdemocrazia dell'Europa occidentale, secondo il quale noi non saremmo ancora maturi per il socialismo, e secondo il quale da noi non esisterebbero, come dicono diversi signori "scienziati" che militano nelle loro file, le premesse economiche obiettive per il socialismo" (ivi p. 437).
4) Già alla fine del 1922, come riportato da Stalin ne "la rivoluzione d'ottobre e la tattica dei comunisti russi" (vedi opera citata) Lenin nel "discorso all'Assemblea Plenaria del Soviet di Mosca il 20 nov. 1922" afferma quanto segue:
"Il socialismo già da ora non è più una questione di un avvenire lontano, non è più un'immagine astratta qualsiasi, una specie di icona. ... Abbiamo introdotto il socialismo nella vita di ogni giorno e di ciò dobbiamo renderci conto. Ecco qual'è il compito dei nostri giorni, ecco qual'è il compito della nostra epoca. Permettetemi di terminare esprimendo da sicurezza che, per quanto difficile sia il nostro compito e per quanto nuovo esso sia rispetto ai compiti precedenti, e per quanto numerose siano le difficoltà che esso ci procuri, noi, tutti insieme, non domani, ma in qualche anno, tutti insieme adempiremo a questo compito a qualunque costo, in modo che la Russia della Nep diventerà la Russia sovietica.
5) vedi "questioni del leninismo" da Opere Scelte- ed Mov. Studentesco, 1973- p 551
6) Trozki scrive: " ... la dittatura del proletariato sarebbe stata lo strumento con cui si sarebbero realizzati gli obiettivi storici della rivoluzione borghese in ritardo. Ma non ci si sarebbe potuti arrestare a questo. Giunto al potere il proletariato sarebbe stato costretto a compiere incursioni sempre più profonde sul terreno della proprietà privata in generale, cioè avrebbe dovuto avviarsi sulla strada delle progressive misure socialiste" (La rivoluzione permanente- Einaudi 1967 - pag 18 introduzione)
e ancora
"la teoria della rivoluzione permanente ... dimostrava che nella nostra epoca l'assolvimento dei compiti democratici nei paesi arretrati porta questi paesi direttamente alla dittatura del proletariato e che questa dittatura mette all'ordine del giorno i compiti socialisti" (ivi - pag 23 introduzione)
7) Trozki, opera citata, p. 189 dell'appendice "socialismo in un paese solo?"
8) Trozki scrive: "Mirare alla costruzione di una società socialista nazionalmente isolata significa, nonostante i successi temporanei, spingere indietro le forze produttive, anche rispetto al capitalismo. Tentare di realizzare una compiuta proporzionalità tra tutti i settori dell'economia entro i confini nazionali, indipendentemente dalle condizioni geografiche, culturali e storiche di sviluppo di un paese che costituisce una parte del mondo nel suo insieme significa perseguire un'utopia reazionaria" (opera citata, prefazione all'edizione. americana, pag. 7)
9) "questioni del leninismo" da Opere Scelte- ed Mov. Studentesco, 1973- p 554.
10) Trozki - opera citata, prefazione all'edizione. americana, pag. 10
11) Filippo Gaja - "il secolo corto" - ed. del Maquis
12) "... L'I.C. appoggia ogni movimento rivoluzionario nazionale contro l'imperialismo. Al tempo stesso non dimentica che soltanto una coerente politica rivoluzionaria, volta a trascinare nella lotta attiva larghissime masse, e una rottura completa con tutti i sostenitori della riconciliazione, a vantaggio del proprio dominio di classe, possono guidare alla vittoria delle masse oppresse" (da Storia dell'I.C. di Jane Degras - tomo 1° - II congresso I.C. "tesi sulla questione orientale" p. 408).
13) sono qui riportate alcune citazioni che permettono di inquadrare la linea "orientale" dell'I.C. (Lenin vivo). "... Il rifiuto, da parte dei P.C. delle colonie, di partecipare alla lotta contro la tirannia imperialista, motivato con il pretesto della "difesa" degli interessi autonomi di classe, costituisce opportunismo della peggior specie, il quale non può che gettare discredito sulla rivoluzione proletaria in Oriente. Egualmente dannoso è il tentativo di rimanere ai margini della lotta per gli interessi più urgenti e quotidiani della classe operaia, nel nome dell'"unità nazionale" o della "pace sociale" con la borghesia democratica". (ivi)
"Soltanto la forma sovietica può assicurare l'attuazione coerente della rivoluzione contadina nelle campagne" (ivi)
"la classe operaia delle colonie e delle semi-colonie deve imparare che soltanto l'allargamento e l'intensificazione della lotta contro il giogo imperialistico delle grandi potenze potrà assicurare il ruolo di direzione rivoluzionaria, mentre d'altro lato soltanto l'organizzazione economica e politica, nonché l'educazione politica della classe operaia e degli altri strati semiproletari della popolazione possono ampliare l'ondata rivoluzionaria contro l'imperialismo." (ivi)
" I P.C. di paesi orientali e semicoloniali d'oriente, che si trovano in uno stato più o meno embrionale devono partecipare a qualsiasi movimento che consenta loro di radicarsi tra le masse." (ivi)
"... Ma nell'oriente coloniale la parola d'ordine che deve essere messa in rilievo nel momento attuale è quella del fronte unico antimperialista..." (ivi, "Il Fronte Unico Antimperialista" - nell'ambito del IV congresso dell'I.C. - p. 413)
"Il movimento operaio nei paesi coloniali e semicoloniali deve innanzitutto conquistare la posizione di elemento rivoluzionario autonomo nell'ambito del fronte antimperialista generale ... " (ivi)
"Il proletariato sostiene, anzi porta avanti in prima persona rivendicazioni parziali, quali per esempio la rivendicazione di una repubblica democratica indipendente, dell'abolizione dell'inferiorità politica delle donne, etc; nella misura in cui i rapporti di forza esistenti non gli permettono di considerare l'attuazione del programma sovietico come compito immediato." (ivi)
"Nei paesi coloniali e semicoloniali il Comintern ha un duplice compito:
costituire un nucleo di Partiti Comunisti che rappresenti gli interessi del proletariato nel suo insieme;
dare il massimo appoggio al movimento rivoluzionario nazionale diretto contro l'imperialismo, diventare l'avanguardia di tale movimento, potenziare ed espandere il movimento sociale all'interno di quello nazionale." (ivi, "tesi sulla tattica" approvate dal IV congresso dell'I.C. - p. 448)
14)Nel noto incidente di Xian del 1936 Chang Kai Shek venne fatto prigioniero da alcuni suoi generali partigiani dell'intensificazione della lotta di liberazione nazionale e consegnato ai comunisti. L'azione dell'I.C. impose che fosse liberato in cambio del suo impegno a costituire il Fronte Unito Antigiapponese.
15) La liquidazione avvenne (pare) durante un tentativo di colpo di stato nell'ottobre 1971. Secondo Yao Ming Le ("Congiura e morte di Lin Biao" Garzanti 1984) si sarebbe trattato di un mero conflitto di potere. Pare, invece, che il famoso rapporto Lin Piao al IX congresso del P.C.C. del 1969 sia stato solamente da lui letto, perché la versione da lui redatta non sarebbe stata approvata. E' invece un dato di fatto che di li a poco la liquidazione il Segretario di Stato USA Kissinger arrivasse in Cina per stabilire con i cinesi le tappe del reciproco "disgelo". Come non collegare i due fatti? Quali erano, dunque, i reali motivi del contendere tra Mao Tsetung e Lin Piao?
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