www.resistenze.org - pensiero resistente - dibattito teorico - 03-07-16 - n. 596

Quali cause della crisi?

Renato Ceccarello

01/07/2016

Compagni di diverse organizzazioni politiche, pubblicisti, blogger, mettono in risalto una causa ultima  della crisi capitalistica che in questo momento sta interessando la quasi totalità dell'economia mondiale a seguito del crac di alcune istituzioni finanziarie statunitensi nel 2007.

Si possono riconoscere due principali filoni che si rifanno a rispettivi apparati analitici: secondo un primo filone la crisi è conseguenza della caduta del saggio di profitto; secondo un altro filone la causa della crisi risiede nella sovra-accumulazione di capitale. La diversa interpretazione della crisi viene poi assolutizzata e posta come una specie di vessillo a marcare la diversità delle posizioni politiche. La qual cosa mi pare deleteria: per la ripresa del movimento operaio non è bene che si innalzino barriere, ma che si allarghi il confronto, non perché, ecletticamente, "la verità sta nel mezzo", ma, al contrario, perché le diverse posizioni e tesi siano più argomentate, il che equivale a mettere in evidenza i punti deboli delle tesi "avverse".

Certamente il terreno è difficile. In Marx ed Engels non esiste una teoria organica della crisi, né risulta elaborata in periodi successivi. In Marx esistono invece due filoni analitici che possiamo rintracciare nel libro I° e nel libro III° del Capitale. Volendo vi entra anche il libro II° quando viene evidenziata la suddivisione della produzione di merci in due filoni: produzione dei mezzi di produzione e produzione di beni di consumo, che a loro volta vengono divisi in beni che rientrano nella riproduzione della forza-lavoro e beni di produzione di lusso. Vi entra perche l'anarchia della produzione capitalistica rende problematica la circostanza per cui gli scambi tra le sezioni del capitale non lascino dei residui produttivi che non vengono assorbiti dal mercato. Tale osservazione è comune ai modelli quantitativi posti dai sistemi economici, in una parola per l'economia neoricardiana che passa ad esempio per Piero Sraffa.

Il concetto di anarchia produttiva è ben presente in Marx-Engels. Il modo di produzione capitalistico è da costoro visto come  anarchico in cui il singolo capitalista, da "pianificatore perfetto" all'interno della propria azienda, nulla può contro le tendenze espansive o contrattive del mercato.

E' anche nota la soluzione: ossia il passaggio al modo di produzione dei "produttori associati" (socialismo) come soluzione della contraddizione tra "forze produttive" che reclamano di essere organizzate e gestite secondo un piano e i "rapporti di produzione" capitalistici che le imbrigliano in unità produttive che si connettono attraverso quella struttura eminentemente anarchica che è il mercato.

Nemmeno il passaggio della libera concorrenza al monopolio ha potuto attenuare il carattere anarchico della produzione capitalistica. Nel modo in cui si pone attualmente il capitalismo monopolista, con poche eccezioni nel campo delle alte tecnologie, l'anarchia produttiva non ha potuto essere soppiantata. Molti monopoli internazionali (multinazionali) competono l'uno rispetto all'altro. Il principio pianificatore si è molto allargato dal momento in cui era ristretto a singole numerose fabbriche di ogni dimensione, al momento attuale in cui si applica ad oligopoli di grande dimensione; malgrado ciò l'avvento della globalizzazione, ponendo a confronto diretto multinazionali di tutto il mondo, rende impossibile la determinazione ottimale di quote produttive ed investimenti. Ciascun monopolio scommette sul fatto che i favori del mercato saranno sulle sue merci "innovate", col risultato che tutti si trovano con stabilimenti di grandi potenzialità produttive sfruttate solo in parte, feonomeno che si accentua con le crisi globali.

Naturalmente, dal periodo ottocentesco della libera concorrenza alla fase attuale della globalizzazione ci sta il secolo XX°, con le sue guerre mondiali, con la grande crisi del '29, con l'esperienza grandiosa dei primi stati socialisti, con la fase keynesiana dove il mito dello stato regolatore dotato di strumenti anticiclici si doveva infrangere con la realtà del debito pubblico e la ristrutturazione del mercato mondiale nella quale il peso del mercato nazionale doveva progressivamente ridursi. Soffermandosi su tutto questo si fa un'opera emerita di indagine storica che meglio permette di capire la realtà attuale, ma che non può sostituirsi al suo studio.

Nel libro I° del Capitale la crisi è vista come crisi di sovrapproduzione di merci. Di essa si da una descrizione per grandi fasi: ristagno, ripresa, euforia, crollo; si constata la sua periodicità (sui 10 anni), ma sfortunatamente non si da un modello econometrico in cui entri la capacità di assorbimento delle varie componenti del mercato (numero di operai, contadini, artigiani, commerciati, pubblica amministrazione, borghesi e loro propensione alla spesa) in cui e il numero di lavoratori e non e la loro capacità di spesa si allarga e si contrae seguendo licenziamenti, assunzioni, movimenti del salario, a seconda delle diverse fasi e dei momenti di ristrutturazione in cui all'operaio si sostituisce un macchinario sempre più progredito.  E' evidente che tali modelli devono essere prodotti e resi disponibili, rompendo l'uso di classe dei dati statistici.

Come abbiamo evidenziato la situazione non migliora con il subentrare del monopolio. Certo il monopolio, con la sua più ampia capacità di programmazione può influenzare la scelta di mercato, e in certo qual senso programmare la sua evoluzione, attenuando la sovrapposizione di merci; può mettere alle sue dirette dipendenze lo stato capitalista, ma non può impedire la concorrenza con i monopoli di altre nazioni ed il conflitto per l'accaparramento dei mercati di sbocco (e qui abbiamo la storia del XX° secolo e dell'inizio del XXI°).

Con il progresso della tecnologia (uso dell'informatica, della statistica, delle ricerche di mercato) è possibile seguire l'evoluzione del mercato e prevenire le crisi di sovrapproduzione di merci. Per alcuni prodotti si lavora con il "Just in time" in cui il prodotto è prima "ordinato" e poi "prodotto". Ma il fatto che spariscano fenomeni come magazzini pieni e merce invenduta non attenua il fenomeno per cui nelle fabbriche si procede con la sottoproduzione e che quindi una parte di queste sia costretta a chiudere per problemi di redditività. La concorrenza permane, anzi si intensifica con l'obiettivo di mettere fuori mercato chi produce senza coprire i costi. Perché questo succede? Perché capacità produttiva capitalistica e dimensioni del mercato permangono grandezze destinate a non incontrarsi ed il mercato mondiale stesso si pone, di fronte ai produttori monopolistici, non più come entità insensibile alla fase del ciclo capitalistico, esogena, ma come entità determinata dal ciclo stesso.

La crisi assume sempre più dimensioni internazionali e si manifesta ovunque come sovrapproduzione di capitale, cioè sovrabbondanza dei mezzi di produzione rispetto a quelli necessari per produrre e vendere nel mercato mondiale.

E qui si innesta l'altro filone di lettura della crisi: quello del saggio di profitto, il cui sviluppo è caratteristico del libro III° del Capitale.

Ripetendo per l'essenziale l'analisi di Marx, la concorrenza spinge i capitalisti a sostituire il macchinario con altro più produttivo, ma al tempo più costoso. Perché lo fa? Perché la sostituzione può in un primo momento abbattere i costi con la maggiore produttività e permettere di competere con altri capitalisti lucrando un profitto straordinario che costringe tutti ad adottare i nuovi macchinari e le nuove tecniche di produzione. Alla fine, quando tutti hanno adottato l'innovazione, si constata che il rapporto tra il profitto ottenuto ed il capitale investito è diminuito. Non va dimenticato che esistono anche numerose controtendenze (ad esempio anche il costo del macchinario può risentire della maggiore produttività, e quindi calare), per chi il fenomeno si manifesta come legge di tendenza che spesso l'alternarsi delle fasi del ciclo capitalistico maschera.

Malgrado questa espressione come "tendenzialità", esistono tuttavia evidenze statistiche che mostrano il fenomeno della caduta del saggio di profitto come operante nei paesi capitalistici tradizionali dopo gli anni '50 del secolo scorso. Come conseguenza si può notare una tendenza del capitale, particolarmente visibile dopo gli anni '80 del secolo scorso, di spostarsi dalla produzione alla speculazione, ossia in attività non direttamente produttive, dove ci si può attendere, con un governo oculato delle posizioni, un profitto maggiore. Tali sono le attività speculative sui titoli di borsa e di debito pubblico, sull'immobiliare, sui corsi delle merci che saranno prodotte e commercializzate in futuro.

Un fenomeno anche questo non nuovo, per il quale Lenin aveva a suo tempo coniato il termine di "capitale finanziario" che doveva adattarsi al fenomeno della fusione tra fabbrica e banca, in cui pochi magnati della finanza  potevano disporre del controllo di enormi quantità di capitale produttivo. Questo rapporto tra produzione e speculazione non è mai stato marxisticamente analizzato in modo adeguato, forse per le difficoltà culturali degli studiosi marxisti  di "liberarsi"  della centralità della categoria marxiana della produzione per poterla così ridurre - almeno come ipotesi di lavoro - ad appendice delle categorie finanziarie e dare così un'interpretazione della crisi a più largo raggio, indagando tutti i meccanismi che portano alla concentrazione ed all'allargamento delle ricchezze che paiono oggi essere di preminente matrice finanziaria.

Rimane il fatto che un capitalismo ristagnante, a forte sovrapproduzione di capitale, deprime in maniera considerevole il tasso di profitto con la conseguenza che non si capisce attraverso quale mezzo il capitale, fino a che trova sbocco nella finanza, possa dar luogo ad un nuovo ciclo espansivo.

Forse il problema sarà risolto dalla ripresa che seguirà un violento crollo dell'economia capitalistica, per esempio a causa di un  conflitto mondiale per la ripartizione di materie prime, risorse umane, mercati di sbocco.

O forse siamo arrivati (storicamente) al punto in cui la contraddizione tra carattere sociale delle moderne forze produttive e carattere privato dell'appropriazione aspetta semplicemente di essere risolta.


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