Un fatto vero - di cui dobbiamo assolutamente tener conto, anche se in un certo senso possiamo avere una forte resistenza ad accettarlo - è che l'immagine del marxismo, generalmente diffusa tra sostenitori ed avversari, è proprio quella, che - a partire dalla direzione Stalin/Bucharin dell'Internazionale Comunista, fino al dissolvimento del Campo socialista europeo - si andò costruendo, consolidando e, nonostante certi mutamenti, conservando.
Intendo dire che il 'marxismo della vulgata' o il cosiddetto 'diamat' (la sigla per indicare il tedesco dialektische Materialismus), nella coscienza diffusa, non pretendono indicare solo un certo mododi interpretare ed organizzare la lezione di Marx e di Lenin, ma sì l'essenza, la verità, il significato autentico di quella stessa lezione.
Due conseguenze di questo 'fraintendimento' (che, ovviamente, né è casuale, né è eminentemente un fenomeno teoretico) sono, da un lato, la debolezza, che la cultura di ispirazione marxista dimostrò di fronte alla più recente renaissance irrazionalistica (il così detto 'post-moderno') e, dall'altro, il fatto che anche da parte di ambienti marxisti o, comunque, ad esso vicini, si vada cercando la possibilità di un rilancio della lotta al capitalismo e per il socialismo, ma che lo si faccia per lo più mescolando il vino della lezione di Marx e di Lenin con acque (più o meno torbide), che derivano da equivoche tradizioni culturali, lontane e perfino opposte rispetto al marxismo.
Quella codificazione del marxismo - che, lo dicevo, viene significata, spesso, col termine diamat -, naturalmente, ebbe anche (ed essenzialmente) conseguenze politiche, le quali gravarono fortemente (e, in definitiva, negativamente) sia sui partiti arabi, che su quelli latino-americani. Non sto dicendo che conseguenze negative non vi furono anche per i Partiti europei - tutt'altro! -; sto solo avanzando l'ipotesi, che esse furono particolarmente gravose per i Paesi arabi e latino-americani.
Per essere più chiari, il centrale riferimento all'Urss ed al Pcus, assai spesso, significò per i Partiti comunisti dei singoli Paesi (ripeto, particolarmente in America Latina e nel mondo arabo) dover accettare linee politiche, che ne riducevano la capacità egemonica sulle masse lavoratrici e oscuravano le prospettive socialiste delle lotte.
Come ha scritto recentemente il brasiliano José Louis Fiori, nonostante le grandi differenze che distinguono l'un dall'altro i singoli Paesi latino-americani, tuttavia ognuno di essi ha percorso, alla grossa contemporaneamente, alcune tappe fondamentali, dal punto di vista dello sviluppo sia economico che politico.
Per esemplificare tale convergenza, si pensi agli anni 50, quando si ebbe la caduta dei governi democratici - in seguito all' intervento, diretto o no, degli Usa - in Guatemala, in Brasile, in Argentina e in Colombia; inoltre, in seguito alla fallita invasione di Cuba nel 1961, mediante golpe militari vennero imposti regimi dittatoriali in quasi tutta l'America Latina. Con gli anni '90, infine, il neoliberalismo s'andò imponendo in Mexico (Carlos Salinas), in Venezuela (Andrés Perez), in Argentina (Carlos Menem), in Brasile (Fernando H. Cardoso) ed in Perù (Alberto Fujimori). Ma non basta, poiché l'elezione dell'indio e socialista Evo Morales in Bolivia, e della militante socialista Michèle Bachelet in Cile, tra il 2005 e il 2006, furono solo due tappe di una traiettoria vittoriosa, cominciata in Brasile nel 2002 e proseguita in Argentina, Venezuela e Uruguay, potendo arrivare ancora nel 2006, in Perù, Ecuador e Mexico. L'avanzata della sinistra latino-americana coincide - nota ancora Fiore - con gravi sconfitte della sinistra europea.
Va detto, però, che l'autore brasiliano usa con una certa ambiguità il termine 'sinistra europea' (come d'altronde lo abbiamo visto fare anche rispetto alla sinistra latino-americana), intendendo con essa sia le formazioni laburiste, socialdemocratiche, sia anche quelle comuniste, di formazione più o meno recente o, addirittura, ricche di una lunga tradizione.
E' per questo che Fiore arriva a considerare sconfitte della sinistra europea i risultati dei referendum sulla Costituzione europea in Francia e Olanda, così come i cattivi esiti elettorali di certi Partiti socialdemocratici o la rivolta nelle Banlieux francesi.
Opportunamente, Fiore avverte la necessità di denunciare la sostanziale ignoranza, che caratterizza la sinistra latino-americana, a proposito dei dibattiti classici del socialismo e del marxismo europei.
In questa prospettiva, egli ricostruisce - come ovvio in modo rapido - momenti essenziali del dipanarsi storico di tale socialismo, appunto.
A partire da Bernstein, e percorrendo varie fasi, Fiore mette in luce come la corrente, che effettivamente si è sviluppata fino ad essere nettamente maggioritaria nel socialismo europeo, sia stata, prima, quella socialdemocratica, legata al tema del Welfare State e poi, come avviene ora, l'altra (che in realtà è sviluppo/degenerazione della prima), legata alla prospettiva della gestione 'socialista' del sistema capitalistico; insomma, la sinistra europea va riconoscendosi, in modo sempre più aperto, nell' equazione: libertà politica/eguaglianza sociale/crescita economica/successo capitalistico - il tutto con il pretesto (del tutto mendace) di creare più posti di lavoro e di migliorare le condizioni dei lavoratori.
Volgendosi alla fine del XX secolo, osserva ancora Fiore, divenne sempre più chiaro che le politiche di gestione 'socialista' del capitalismo giungevano a risultati opposti rispetto a quelli dichiarati.
Ovvero, giungevano ad una crescente diminuzione della partecipazione del salario alla composizione del reddito nazionale, alla diminuzione della spesa sociale e, quindi, all'aumento di insicurezza nella vita quotidiana dei lavoratori - il tutto attraverso una politica di concertazione fra padronato e organizzazioni sindacali, a indubbio danno degli effettivi redditi dei lavoratori e della qualità del loro modo di vivere.
Va da sé che questo processo di involuzione politica si accompagnò ad un progressivo smantellamento della tradizione teorica (marxista), a cui il socialismo europeo si rifaceva.
Il fatto è, però, che la 'caduta' dal marxismo non si accompagnò alla costruzione di una diversa ed organica prospettiva teorica: con la conseguenza che quale risultato si ebbe un miscuglio, incapace di strutturarsi, di posizioni e tesi, segnato dall'impossibilità di andare oltre l'accadere quotidiano, l'immediatamente evidente e i cardini fondamentali della situazione economico-sociale attuali - dunque l'incapacità di ricostruire le tendenze di fondo dei processi storici in atto.
Involuzione politica e smantellamento sul piano teorico, insieme, hanno condotto la sinistra europea ad accettare la politica di rinnovamento del capitale. Cosa significa tutto questo per il Latino America?
Nonostante il loro scarso peso numerico, i Partiti comunisti, tra il 1920 e il 1960, furono il punto di riferimento dottrinario della sinistra latino-americana; il che significa, tra l'altro, che anche questa sinistra accettò la 'teoria' (staliniana) delle due distinte fasi del processo rivoluzionario: la fase democratica e, solo poi, quella socialista.
Ma non è difficile capire come proprio questa teoria finì col favorire certe convergenze tra Partiti comunisti e borghesia latino-americana, ovviamente nella prospettiva di uno sviluppo capitalistico (come esempi di ciò, Fiore cita in particolare Cile e Bolivia).
L'attenzione, che abbiamo dedicato all'articolo del brasiliano Fiore, ha - nell'economia di questo articolo - il senso di mostrare quanto le vicende del socialismo - e comunismo - europei abbiano influenzato la sinistra latino-americana, di cui sembra importante sottolineare quella caratteristica, su cui - come abbiamo visto - Fiore si sofferma: per quanto politicamente la III Internazionale, mediante i Partiti comunisti latino-americani, abbia influenzato le caratteristiche e le sorti della sinistra continentale, tuttavia è vero che quest'ultima è restata estranea fondamentalmente ai grandi momenti di dibattito teorico in ambito marxista e socialista.
Per dir la cosa ancora più chiaramente, quel 'diamat' che, oggi, è ampiamente criticato dalla sinistra latino-americana, sul piano politico (anche se non propriamente su quello teorico) ha influenzato profondamente le organizzazioni continentali marxiste e che si richiamano al socialismo; se a questo aggiungiamo l'ignoranza dei grandi dibattiti teorici, che hanno caratterizzato il marxismo europeo, riusciamo a capire bene come gli ambienti latino-americani che - oggi - intendono rilanciare la prospettiva socialista, liberandosi del peso negativo di una certa elaborazione (il diamat, appunto), possano avere la propensione a ricercare fuori dellaprospettiva teorica marxista quegli elementi di novità, di aggiornamento e di rinnovamento, che non riescono a cogliere nella tormentata storia del marxismo, perché - nonostante tutto - identificano quest'ultimo proprio con il diamat.
Ci serviremo ora di una altro studioso (l'argentino Wim Dierckxsens) per porre in evidenza ulteriori aspetti della situazione latino-americana: la panoramica che, così, veniamo tracciando ci aiuta, anche, a valutare il recente libro della Isabel Rauber, dal significativo titolo Sujetos politicos, pubblicato in Argentina nel 2005 e che, indubbiamente, è tipico documento di certe tendenze della sinistra latino-americana, che si preoccupa in particolare delle caratteristiche del 'socialismo del XXI secolo'.[1]
Il saggio di W. Dierckxsens è dedicato alla prospettiva di scomposizione e di transizione in America Latina: la fondamentale linea di ragionamento, svolta dall'A., è che, di fatto, il processo di globalizzazione (o di mondializzazione, se si vuole) ha già conosciuto uno scacco fondamentale (o - se si vuole - ha già mostrata la sua effettiva, realistica natura) quando, nel 1999, l'Organizzazione Mondiale del Commercio non riuscì nel suo compito di suddividere il mercato mondiale tra le multinazionali, reciprocamente concorrenti.
Già per questo apparve, da allora, la tendenza ad una forma di 'desconexion' del mercato mondiale, a favore di sotto-mercati regionali - se così si può dire -, di cui esempi sono l'Unione europea, con la sua colonizzazione dell'est europeo, e gli Usa, con il loro tentativo di inglobare l'intero Latino America mediante l'Alca.
Ma questi tentativi incontrarono resistenze, sia da parte delle forze popolari latino-americane, sia da certi settori di borghesia nazionale (e non semplicemente compradora), che nonostante tutto esistono - ed a volte hanno anche una certa forza (si pensi al Brasile) - nel continente latino-americano.
Va considerato, inoltre, che un'effettiva suddivisione del mercato mondiale tra le principali multinazionali, di necessità, portava con sé la libera concorrenza (così detta) anche tra di loro e, quindi, ad es. l'aprirsi del mercato americano ed europeo alla penetrazione di beni e prodotti, provenienti dall'estero e che potevano rimettere in gioco i rapporti di forza tra le diverse multinazionali; insomma, con il nuovo millennio - osserva Dierckxsens - la questione era che le grandi potenze si aprissero reciprocamente i propri mercati; ma il fallimento dell'OMC del 1999 aprì, invece, la strada al ritorno al protezionismo nazionale.
In questo contesto si inserì l'iniziativa di alcuni Stati latino-americani che, col Marcosur e più ancora con l'Alba (nettamente ispirata a principi, opposti a quelli della libera concorrenza) vanno nella direzione di un blocco economico 'regionale' anti-imperialistico.
E' chiaro come tutto questo risvegli le aspirazioni di sviluppo autonomo di alcune borghesie latino-americane, che sono (o credono di essere) nelle condizioni oggettive di abbandonare il tradizionale ruolo di borghesia compradora, dunque, mediatrice dell'influenza imperialistica sul continente e di assumere, invece, una loro autonoma funzione produttiva, commerciale (e imperialistica -si pensi sempre al Brasile).
Non è difficile comprendere come la situazione oggi creatasi in Latino-America se, da un lato, offre di nuovo l'opportunità alle forze popolari e perfino comuniste di convergere con la propria borghesia nella rivendicazione della libertà dall'imperialismo nordamericano (ed europeo), la stessa situazione ripropone spinte nazionalistiche e orientamenti a cercare le strategie di lotta del movimento dei lavoratori fuori dalle strettoie della tradizione stalinista.
E' esattamente in questo quadro che vanno lette le riflessioni della Isabel Rauber, la quale certo non si lascia abbagliare dalla 'formalità' (ormai sempre meno convincente, in realtà) della democrazia parlamentare, in nome invece di una diversa prospettiva democratica - detta partecipativa -, in cui i soggetti, subalterni ed emarginati nella attuale società capitalistica, possano non solo far sentire la propria voce, ma sì imporsi per il fatto di costituire l'effettiva maggioranza delle masse popolari. Ed allora ecco che compaiono, nelle pagine della Rauber, gli indios, le donne, i giovani, i quali si affiancano, come forze portatrici di progresso e sviluppo, ad una classe operaia, di cui in realtà non è ben chiaro se continui - secondo la lezione di Marx e di Lenin - ad essere oggettivamente la classe autenticamente rivoluzionaria.
Non lo si comprende più perché sembra esser scomparso quel senso di 'oggettivamente' su cui era costruito il discorso di Marx e di Lenin: per costoro sappiamo, infatti, che una classe è oggettivamente rivoluzionaria, non in quanto sia attualmente impegnata in lotte rivoluzionarie né perché attualmente assicuri una vivace presenza politica - ma sì piuttosto per il ruolo, che gioca all'interno del più moderno sistema di produzione.
E nonostante il riproporsi nella Rauber (ma non solo in lei e non solo in Latino America) del mito negativo dell'eurocentrismo (per cui sembra che puntare sulla classe operaia e sul moderno sviluppo industriale e tecnologico sia un tipico atteggiamento da 'occidentale'), la realtà dice che - nel mondo odierno- lo sviluppo industriale e tecnologico non si è affatto fermato ai confini di un continente, escludendone gli altri, (si pensi all'India, alla Cina, a certe zone del Messico, al Venezuela, ecc.), ma che piuttosto è andato unificando il mondo (in modo assai relativo, certamente), imponendosi per così dire a macchia di leopardo.
Ed allora sembrerebbe che proprio il mondo di oggi vada parlando sempre più la lingua di Marx e di Lenin. Certo, a condizione che questa non venga ridotta, immiserita negli angusti termini del diamat, ma si comprenda, invece, che un effettivo 'ritorno ai classici' - sulla base dell'esperienza che abbiamo fatto sia della loro deformazione, sia di un ulteriori sviluppo di quell'imperialismo, che Hilferding e Lenin seppero, sia pure a livelli e con finalità diverse, descrivere così adeguatamente- è la via d'uscita adeguata dalle feroci contraddizioni del sistema imperialistico.
Sennonché, lo abbiamo visto, spesso in Latino America la lezione di Marx e di Lenin vengono, tuttavia, recepite, secondo le secchezze dogmatiche, proprie del diamat.
[1] - Della stessa va ricordato Claves per una nueva estrategia, da me recensito in "Contropiano" del dicembre 2001, nonché gli interventi sulla rivista on-line "Resumen latino americano" a proposito del tema <democrazia partecipativa>..
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