www.resistenze.org - pensiero resistente - dibattito teorico - 20-07-20 - n. 758

Marxismo senza socialismo, socialismo senza marxismo

Greg Godels | mltoday.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

03/07/2020

Negli Stati Uniti è appena iniziata una crisi inedita e multiforme, e sarebbe lecito attendersi che i nostri acuti pensatori cogliessero l'occasione per offrire risposte coraggiose e originali. Di fronte alla reazione popolare di rifiuto del razzismo, all'infuriare di un virus che semina morte, alla catastrofe del sistema bipartitico e a quella che è soltato la prima ondata di un disastro economico senza precedenti, saremmo indotti a sperare nella formulazione di soluzioni radicali, in grado di rispondere a sfide altrettanto radicali.

Al contrario, molti dei più influenti pensatori della sinistra statunitense ci stanno propinando del tè annacquato - un'improbabile serie di risposte tiepide, trite e scontate. Dopo le micidiali purghe anticomuniste attuate negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, i movimenti dei lavoratori, per la pace, per l'eguaglianza razziale e delle donne e per la giustizia economica sono stati incatenati a forza alle ideologie anarchica, liberale e socialdemocratica. Di conseguenza, il «marxismo» anticomunista occidentale può entrare nel dibattito soltanto se depurato da qualsiasi aspirazione al socialismo. E di socialismo si può discutere soltanto prescindendo dalle idee fondamentali di Marx e Lenin.

Il «marxista» forse più noto negli Stati Uniti è il professor Richard D. Wolff. Nel corso della sua carriera ha contribuito attivamente a far conoscere Marx e il marxismo. È il punto di riferimento scontato a cui si rivolgono i media quando sono in cerca di un «marxista» accessibile ed eloquente. Purtroppo, non sempre notorietà e accessibilità costituiscono una garanzia di chiarezza o di una visione coraggiosa.

Il professor Wolff ravvisa giustamente nel momento attuale - questa inedita combinazione di disastri biologici, economici, sociali e politici - un'occasione irripetibile di cambiamento. In un recente articolo (How Workers Can Win the Class War Waged Against Them, Counterpunch, 19-6-2020), Wolff offre una breve ma attendibile ricapitolazione degli eventi essenziali che hanno condotto al momento attuale, sottolineando il ruolo fondamentale della classe operaia per il suo superamento.

La sua risposta alla crisi si articola in tre punti: «Che fare? In primo luogo, dobbiamo riconoscere la lotta di classe in atto, e impegnarci a combatterla. A tale scopo, dobbiamo organizzare una base di massa in grado di dare forza politica autentica alle politiche, ai partiti e agli uomini della socialdemocrazia. Ci serve qualcosa di simile alla coalizione del New Deal».

Una riedizione della coalizione del New Deal? Pur non costituendo certo un'idea nuova, richiederebbe un mutamento epocale all'interno del Partito Democratico, un partito che ha dimostrato in modo inequivocabile, alle primarie del 2016 e a quelle del 2020, la sua determinazione a sabotare qualunque idea socialdemocratica che tenti di insinuarsi nella sua piattaforma risolutamente capitalista e imprenditoriale. Oltretutto, la coalizione creata a suo tempo da Roosevelt unì i progressisti del Nord e i razzisti del Sud in un ultimo, disperato sforzo di salvare il capitalismo. E quando il capitalismo ebbe ripreso forza grazie all'economia di guerra, le componenti imprenditoriali e reazionarie della coalizione tirarono il freno sulle politiche progressiste, istituendo la loro Inquisizione contro i «rossi». Questo, Wolff lo sa bene - e lo riconosce illustrando il suo secondo punto:

«In secondo luogo, dobbiamo affrontare un grosso ostacolo. A partire dal 1945, i capitalisti e i loro sostenitori hanno elaborato argomentazioni e istituzioni miranti a smantellare il New Deal e il suo retaggio di sinistra... Queste posizioni hanno fruttato ai capitalisti le risorse finanziarie e il potere - politico, economico e culturale - che hanno permesso loro di sconfiggere e reprimere ripetutamente i lavoratori e la sinistra». Nulla da eccepire.

«In terzo luogo, a una versione rinnovata della coalizione del New Deal o della socialdemocrazia dobbiamo aggiungere un nuovo elemento... Il nuovo elemento è la richiesta di trasformare le imprese che producono beni e servizi. Occorre una transizione - da organizzazioni gerarchiche e capitaliste (in cui i proprietari, i consigli di amministrazione eccetera svolgono il ruolo dei datori di lavoro) dobbiamo passare a organizzazioni del tutto diverse, democratiche e cooperative».

Ecco qua la risposta di Wolff. Ricostruita una coalizione del New Deal - che dovrebbe spuntare per magia soltanto perché il professore lo desidera - si dovrà avanzare (nei riguardi di chi?) la «richiesta» di cooperative dei lavoratori e attuare (come?) una transizione verso la Nuova Gerusalemme. Naturalmente, questa non è che una riedizione moderna dell'utopismo di Fourier, Owen e Cabet, che Marx descrisse sarcasticamente nel Manifesto Comunista:

Quindi essi respingono qualsiasi azione politica, e specialmente ogni azione rivoluzionaria; vogliono raggiungere la loro meta per vie pacifiche e tentano di aprir la strada al nuovo vangelo sociale con piccoli esperimenti che naturalmente falliscono, con la potenza dell'esempio... Continuano sempre a sognare la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali... edizione in dodicesimo della nuova Gerusalemme - e... debbono far appello alla filantropia dei cuori e delle borse borghesi.

Marx comprese che gli esperimenti cooperativi, all'epoca presentati come tattica anti-capitalista, avrebbero dovuto in ultima analisi essere finanziati dai capitalisti per poter competere contro i colossi dell'impresa. E immaginate come dovrebbero essere capitalizzati al giorno d'oggi, per poter competere contro le corporation monopolistiche transnazionali! Magari potrebbe finanziarli Goldman Sachs...

Lenin riteneva che le cooperative potessero contribuire alla lotta della classe operaia, ma non sostituire il socialismo come obiettivo. Come affermò il suo partito nel 1910:

I miglioramenti che si possono ottenere per mezzo delle cooperative di consumo possono essere solo insignificanti, finché i mezzi di produzione si trovano nelle mani di quella classe senza la cui espropriazione non può essere realizzato il socialismo... Le cooperative di consumo non sono organizzazioni di lotta immediata contro il capitale ed esistono a fianco di analoghe organizzazioni di altre classi, il che può creare l'illusione che queste organizzazioni siano un mezzo mediante il quale sia possibile risolvere la questione sociale senza lotta di classe e senza espropriazione della borghesia.

È chiaro che Lenin (e Marx ed Engels) vedevano nelle cooperative nient'altro che una sfida illusoria al capitalismo. Per loro, il movimento cooperativo era nella migliore delle ipotesi un compagno di strada utile nella lotta per il socialismo - e nella peggiore una distrazione.

In un passaggio curioso, Wolff sostiene che «la transizione dall'impresa capitalista alla cooperativa dei lavoratori si potrebbe definire come una rivoluzione. Ciò risolverebbe l'antico dibattito che contrappone riforma e rivoluzione». Così, in virtù di un semplice decreto verbale, le cooperative da riformiste diventano rivoluzionarie. E la lotta per il socialismo (di cui Wolff non fa menzione) viene rimossa dalla ribalta della storia. Wolff ci propina un «marxismo» senza socialismo proprio in un momento caratterizzato da un interesse senza precedenti per il socialismo e da una necessità senza precedenti di rimpiazzare il capitalismo.

Un altro celebre «marxista» è David Harvey. A onor del vero, ha scritto diversi libri acuti e stimolanti che si iscrivono nella tradizione marxista occidentale (una tradizione accademica del tutto separata dalla praxis). Come Wolff, è un abile divulgatore, in grado di offrire ai suoi lettori affamati un accattivante assaggio di Marx (soprattutto della sua economia politica). Ma come nel caso di Wolff, la sua separazione dai movimenti popolari e la sua distanza auto-imposta dal marxismo del XX secolo (il comunismo) rendono del tutto inadeguate le sue risposte alla crisi del XXI secolo in corso.

In un recente video (Global Unrest, 9 dicembre 2019) che fa parte della sua serie Anti-Capitalist Chronicles, Harvey fa un'affermazione sconcertante: «Al momento, il capitalismo è troppo grande per fallire». Dobbiamo quindi controllarlo, alimentare il suo processo di accumulazione, temperando al tempo stesso le diseguaglianze da esso generate. Con un'argomentazione bizzarra dal sapore malthusiano, Harvey sostiene che, diversamente che nell'epoca di Marx, «il 70 o forse l'80% del mondo» non sopravviverebbe se il capitalismo venisse abbattuto. Vale la pena di citarlo per esteso:

Non possiamo permetterci alcun attacco diretto contro l'accumulazione capitalista. Perciò, il tipo di fantasie - socialiste, comuniste eccetera - che si sarebbero potute avere nel 1850, del genere «OK, possiamo distruggere il sistema capitalista e costruire qualcosa di completamente diverso», al momento attuale sono impossibili. Dobbiamo mantenere in circolazione il capitale, dobbiamo fare in modo che le cose continuino a muoversi, perché se non lo facciamo ci ritroveremo in una situazione in cui, come dicevo, moriremo di fame quasi tutti.

E questo significa che, in generale, il capitalismo è troppo grande per fallire... Ciò che dobbiamo fare in realtà è dedicare un po' di tempo a puntellarlo, tentando di riorganizzarlo, e magari di sospingerlo molto lentamente, col tempo, verso una configurazione diversa. Ma un rovesciamento rivoluzionario di questo sistema capitalista non è concepibile nell'epoca attuale. Non accadrà, non può accadere, e dobbiamo assicurarci che non accada...

«Dobbiamo assicurarci che non accada...» A dire il vero, è possibile che il professor Harvey la pensi diversamente oggi, a distanza di sei mesi, quando il capitalismo sta implodendo sotto il suo stesso peso. Ho dovuto rivedere il video per tre volte prima di riuscire a capacitarmi che uno studioso di Marx potesse proiettare ombre così lugubri sulla prospettiva del socialismo.

Noam Chomsky, un altro dei modelli della sinistra USA, pur professando una sua forma personale di socialismo libertario, non ha mai abbracciato Marx. Chomsky, insieme a Edward S. Herman, ha denunciato il ruolo profondamente antidemocratico dei media capitalisti e la loro funzione di «fabbrica del consenso» - la creazione, al servizio della classe dominante, di una narrazione favorevole alle corporation. In più, il suo attivismo, la sua abnegazione e la sua solidarietà hanno fatto di lui un esempio di sincero impegno politico in ambito accademico, in particolare alla luce della sua prontezza a criticare Israele. Ma le più recenti giravolte dell'impero USA sembrano aver messo in difficoltà le sue facoltà critiche.

A fine ottobre, Chomsky ha chiesto che le truppe USA rimanessero in Siria - una curiosa deviazione dalla sua tradizionale opposizione alle ingerenze degli Stati Uniti negli affari interni dei Paesi stranieri.

Più recentemente, il 25 giugno, Chomsky ha dichiarato che Donald Trump «è indubbiamente il peggior criminale della storia». In un'intervista rilasciata alla rivista Jacobin ha spiegato: «Non è mai comparso nella storia un personaggio così appassionatamente determinato a distruggere i progetti per l'esistenza organizzata del genere umano sulla Terra nel prossimo futuro... Non è un'esagerazione».

Ma è chiaro che di esagerazione si tratta - un'esagerazione che minimizza la natura criminale di un Hitler o di un Tojo, e banalizza le folli stragi e i bombardamenti che uccisero milioni di vietnamiti sotto Johnson e Nixon, crimini a cui lo stesso Chomsky si oppose risolutamente.

Questa affermazione contamina il movimento anti-Trump con un'ingenua e grossolana esgerazione dei danni provocati da un'infantile e prepotente megalomane come Trump. Non contribuisce in alcun modo a denunciare le reali, concrete responsabilità che gravano su Donald Trump. E quel che è peggio, lascia in secondo piano un'importante realtà - e cioè che Trump è il prodotto di un lungo processo di putrefazione della politica americana.

Chomsky non contribuisce a fare chiarezza sul compito di una sinistra presa alla sprovvista dalla gravità e dalla profondità della crisi del 2020: al contrario, induce la gente a ricadere nella solita pantomima del bipartitismo.

Sarebbe ingiusto non riconoscere che migliaia di persone hanno trovato una motivazione e si sono avvicinate alla militanza a sinistra grazie a Wolff, Harvey, Chomsky e a pochi altri celebri guru della sinistra. Senza dubbio, essi condividono un sincero interesse per la promozione del cambiamento negli Stati Uniti. Ma la loro popolarità è dovuta al fatto che essi non travalicano i limiti fissati decenni fa dagli spregevoli cacciatori di «rossi», dalla psicopolizia che protegge il popolo americano da qualunque concezione solida di socialismo. Non serve a nulla interrogarsi sulla sincerità del loro anticomunismo. Non importa se credono o no alla mitologia della Guerra Fredda, fondamento della visione capitalista del mondo. Il fatto è che Wolff, Harvey, Chomsky e compagnia non godrebbero di tanta notorietà se si discostassero eccessivamente da questa mitologia.

Poiché non sono in grado di superare questi limiti, sono inadeguati a guidare la battaglia delle idee in questo frangente critico. Non sono capaci di immaginare un mondo senza capitalismo; non sono in grado di formulare una linea politica che vada oltre il trito modello dei due partiti - o due partiti e mezzo - divisi da punti di vista artificiali; non sanno trovare alcuna idea degna di considerazione in un secolo intero di socialismo reale.

In un momento in cui letteralmente milioni di giovani sono alla ricerca di un'alternativa autentica al capitalismo, e prendono in considerazione la possibilità che il socialismo sia la risposta alla miseria, alla diseguaglianza e alla guerra, è tragico che coloro i quali godono della loro fiducia non siano in grado di dare vita a questa intuizione.

La vittoria, nel periodo che ci attende, dipenderà dalla capacità o meno del movimento dei lavoratori, del movimento progressista in generale e dei giovani militanti di sbarazzarsi del paraocchi imposto loro dalla «cortina di ferro» ideologica, che impedisce loro di comprendere le pre-condizioni organizzative e programmatiche del rovesciamento dello Stato capitalista e della sua sostituzione con lo Stato del popolo. È necessario liberarsi delle pastoie della Guerra Fredda per intraprendere la lotta per un mondo nuovo senza merci, senza competizione di mercato e senza sfruttamento.

Per buona parte degli ultimi centocinquant'anni, le feconde idee di Marx, Engels e Lenin hanno costituito un faro per questo programma. Almeno a partire dalla fine dell'Ottocento, i lavoratori non hanno trovato alcun faro migliore di questo. E non hanno avuto timore di proclamare il socialismo quale obiettivo delle loro lotte.

Non è forse giunto il momento di prenderne atto, e di riprendere quel cammino?


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