www.resistenze.org - pensiero resistente - dibattito teorico - 25-03-21 - n. 784

Il marxismo e l'anello mancante

Greg Godels | zzs-blg.blogspot.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

16/03/2021

L'etimologia ci dice che il termine «sfruttamento» fu utilizzato inizialmente in un senso moralmente, politicamente e socialmente neutro. Nella forma originale francese e inglese exploitation, la parola designava l'uso produttivo di bestie da soma, oggetti inanimati e altre risorse - ma non di esseri umani. Gli esseri umani sfruttavano - ma sfruttavano «cose», viventi o materiali.

Ma nell'Ottocento, con lo sviluppo dell'industria e l'ampia diffusione dello schiavismo, il termine «sfruttamento» assunse un nuovo significato. Gli autori iniziarono a servirsene in senso negativo per descrivere le dure condizioni di vita degli operai e il trattamento disumano riservato agli schiavi.

Forse fu proprio il fatto che degli esseri umani venissero considerati non umani (trattamento dis-umano, appunto) quando venivano utilizzati nelle attività produttive a indurre molti ad applicare il termine «sfruttamento» a quelli che erano i rapporti sociali dell'epoca. Sta di fatto che questa parola venne introdotta nel contesto morale, politico e sociale.

Se l'utilizzo di animali da tiro, macchine o risorse naturali non assumeva una particolare rilevanza morale, politica o sociale, l'utilizzo di esseri umani da parte di altri esseri umani suscita nei più un giudizio morale, politico e sociale negativo. 

In Inghilterra, caratterizzata da un'importanza sempre maggiore della produzione industriale e dall'impiego di uomini, donne e bambini in condizioni miserevoli, il termine «sfruttamento» iniziò a essere usato dagli operai e dai loro sostenitori per denunciare il sistema industriale. La mortalità precoce, le malattie, le menomazioni, la miseria e la diseguaglianza venivano considerate conseguenze del brutale sfruttamento introdotto dall'ascesa del capitalismo.

Come osserva acutamente David McNally (Against the Market), i critici del sistema, come i cartisti e i primi socialisti, denunciavano lo sfruttamento come causa dei mali della società del tempo.

Fu in questo contesto che Marx ed Engels procedettero a riprendere le intuizioni dei critici sociali quali Charles Dickens, Charles Hall o Robert Owen e a trasformarle da manifestazioni di sensibilità morale in affermazioni di una verità scientifica. Marx ed Engels si assunsero il compito di dare allo «sfruttamento» una base solida, razionale e oggettiva, così come aspiravano a trasformare il socialismo utopistico in socialismo scientifico. In effetti, gran parte del programma marxista mirava a rendere più chiare e precise le idee sviluppatesi nell'ambito della vaga e indistinta opposizione al brutale sistema industriale. In termini più moderni, Marx ed Engels aspiravano a ricostruire in forma razionale termini diffusi ma imprecisi e carichi di emotività quali «socialismo», «classe operaia» e «sfruttamento».

Marx ed Engels, nel loro pensiero maturo, posero il concetto di sfruttamento al centro della loro opera. Lo sfruttamento è la relazione sociale chiave che spiega come coloro i quali creano valore attraverso il lavoro vengano privati dei frutti del lavoro stesso. Lo sfruttamento illustra come una minuscola minoranza sia in grado di accumulare e conservare la ricchezza creata da altri, senza rubarla o impadronirsene direttamente con la forza.

La trasformazione del concetto di sfruttamento da relazione tra persone e cose in relazione consolidata e apparentemente consensuale tra persone e altre persone implica un salto concettuale - l'idea del lavoro umano come merce in sé. E Marx ed Engels compresero che affinché il lavoro divenga una merce, è necessario che esista una differenza tra la forza lavoro, che può essere scambiata sul mercato, e il lavoro vero e proprio, individuale e variabile, che le persone svolgono giorno per giorno per sé o per altri.

Il nesso dello sfruttamento costituisce dunque uno dei fondamenti essenziali e distintivi del sistema capitalista. La spiegazione formale del tasso di sfruttamento illustrata da Marx nel primo volume del Capitale ne riconosce l'importanza. E il fatto che nel sistema marxista il tasso di sfruttamento sia formalmente identico al tasso del plusvalore non fa che sottolineare tale importanza.

Durante gran parte del secolo successivo, la resistenza al capitalismo attinse sempre più al retaggio teorico di Marx. E l'idea di sfruttamento divenne un elemento centrale di tale retaggio - un'idea che coniugava la consapevolezza intuitiva e spontanea da parte dell'operaio dell'ingiustizia del capitalismo con una teoria rivoluzionaria.

Tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, il marxismo dominò il movimento operaio, e lo slogan caratteristico del periodo divenne «mettere fine allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo» (marxisti successivi quali Victor Perlo arricchirono questa concezione collegando le diseguaglianze nazionali, razziali e di genere al «supersfruttamento»).

Ma sebbene il movimento marxista, in particolare il cosiddetto «movimento comunista mondiale», continuasse a riconoscere formalmente il concetto di sfruttamento, esso vide diminuire la propria importanza tattica e strategica.

L'era del capitalismo monopolistico - caratterizzata dal predominio del capitale finanziario, dallo sviluppo della classe media, da una crescente divisione internazionale del lavoro, dall'ascesa del settore dei servizi, dalla mercificazione immateriale e da processi di lavoro sempre più complessi e compartimentati - fece apparire sempre più confuso e indefinito il nesso dello sfruttamento. Inoltre, la concomitante ascesa dell'imperialismo determinò uno spostamento dell'enfasi dallo sfruttamento nell'ambito della fabbrica al dominio di un Paese capitalista avanzato su un altro Paese - lo sfruttamento imperialista. Gli sfruttatori degli operai si nascondevano dietro una cortina di cartelli azionari, e gli sfruttati erano sempre più distanti dalle merci che producevano. Il legame fondamentale tra sfruttamento del lavoro e diseguaglianza divenne così sempre meno visibile.

Nel Novecento, i marxisti dedicarono crescente attenzione alla crisi del capitalismo, con il suo strascico di morte, distruzione, disoccupazione e impoverimento. La guerra e la crisi economica capitalista - in particolare la Grande Depressione - destabilizzarono fortemente il mondo capitalista e rafforzarono la sinistra, ma nel contempo produssero una reazione ancor più radicale da parte del capitalismo - il fascismo. Forse è comprensibile che questi sviluppi distogliessero l'attenzione dallo sfruttamento quotidiano dei lavoratori nel regime capitalista.

Anche la reazione delle socialdemocrazie alla crisi del capitalismo contribuì a estraniare il movimento operaio dal concetto fondamentale di sfruttamento. I socialdemocratici tentarono di alleviare i sintomi prodotti dallo sfruttamento - diseguaglianza e impoverimento - per mezzo di riforme e di una limitata redistribuzione dei redditi e della ricchezza. Scegliendo di gestire il capitalismo invece di rovesciarlo, essi trascurarono così la fondamentale relazione dello sfruttamento. Ricorsero invece a strumenti keynesiani per attenuare le difficoltà del sistema capitalista e alleviare le sofferenze causate dallo sfruttamento. Purtroppo, anche alcuni partiti comunisti e operai scelsero la stessa via.

Tra i cosiddetti marxisti occidentali - un gruppo di teorici in gran parte appartenenti all'ambiente accademico - a dare un apparente colpo di grazia al concetto marxista di sfruttamento furono gli scritti di John Roemer, uno dei luminari del gruppo. Roemer affermò, contro Marx, che è possibile dare allo sfruttamento un fondamento teorico solido soltanto assumendo una posizione di «individualismo metodologico», e in particolare applicando la teoria della scelta razionale. Intimiditi dalla dimestichezza di Roemer con il calcolo logico della scelta razionale, i «marxisti» batterono in ritirata, lasciando Roemer e i suoi colleghi padroni del campo.

La conclusione di Roemer, legata alla sua concezione minimalista e riduttiva di sfruttamento, è che si può affermare che anche altre merci, a parte la forza lavoro, vengano sfruttate - una conclusione di interesse poco più che accademico, una curiosità marginale.

Roemer dimostra inoltre che è la diseguaglianza delle risorse iniziali a produrre il cosiddetto «sfruttamento di Roemer» - un tipo di sfruttamento che produce una diseguaglianza di risultati tra coloro che lavorano di più e coloro che possiedono più risorse, ed è basato sul presupposto che i soggetti siano mossi dall'interesse individuale. In sostanza, Roemer costruisce un modello che parte dalla diseguaglianza e arriva a un'ulteriore diseguaglianza che favorisce i soggetti avvantaggiati in termini di condizioni di partenza: nel modello di Roemer, i più ricchi diventano sempre più ricchi - e lo diventano a spese di coloro che dispongono di meno risorse iniziali. Un'osservazione interessante, che tuttavia risulta sterile sia sul piano pratico, sia su quello teorico.

Roemer investe molto sullo «sfruttamento di Roemer», e si propone di dimostrare che il nostro interesse per lo sfruttamento, concepito come insieme di diseguaglianze generate da diseguaglianze, implica alcune anomalie che rendono incoerente la teoria dello sfruttamento.

Non è questa, tuttavia, la concezione di sfruttamento di Marx. Marx indica le ragioni storiche che permettono allo sfruttamento del lavoro di emergere non come teoria, bensì come fatto. L'analisi di Roemer è interessante come passatempo da salotto accademico. È acuta, ma non ha attinenza con il compito specifico che Marx si prefigge: mettere in luce le relazioni sociali e le relative condizioni storiche, che hanno reso possibile lo sfruttamento del lavoro nell'era del predominio sistemico delle relazioni sociali capitaliste. Proprio perché parte dal presupposto del primato degli individui nelle questioni umane, Roemer non è in grado di cogliere lo sfruttamento come fenomeno fondamentalmente sociale che trae origine dalle strutture sociali. Fa confusione tra due diverse questioni - come una struttura socio-economica possa generare una prassi di sfruttamento pervasiva, sistematica e duratura (il problema posto da Marx), e come lo sfruttamento possa generarsi tra individui (il problema posto da Roemer). Con buona pace dei «marxisti occidentali», Roemer non riesce affatto a trafiggere il «drago» Marx.

Naturalmente vi è un altro modo di concepire lo sfruttamento, basandosi non su una riduttiva prospettiva accademica, ma su casi reali e rappresentativi. Mio zio, che mi ha cresciuto, lavorò per ventisette anni nelle miniere di carbone. Il suo prospetto lavorativo datato 30 settembre 1936 gli riconosce l'estrazione di oltre 60 tonnellate di carbone, pagate al tasso di 68 centesimi a tonnellata (vedi sotto).

A quel tempo, un minatore doveva pagare di tasca propria gli attrezzi e i materiali che utilizzava in miniera, che gli venivano detratti dal salario. In sostanza, la proprietà - la società mineraria - forniva ai minatori l'accesso al giacimento di carbone (area di carico, ascensore, carrelli eccetera), mentre i minatori fornivano la forza lavoro.

All'epoca i minatori, fatte salve le condizioni contrattuali di lavoro e salario stabilite mediante contrattazione dal sindacato United Mine Workers, operavano come appaltatori autonomi (ed è indicativo che il modello dell'«appaltatore autonomo» sembri costituire per la classe capitalista la scelta ideale per il futuro dei lavoratori nel XXI secolo). Venivano «autorizzati» ad accedere alla miniera e veniva loro versata una parte del valore del prodotto da loro consegnato al gestore. Nel caso specifico, il minatore riceveva poco più di 68 centesimi lordi (escluse cioè le detrazioni) in cambio dell'uso della sua forza lavoro per produrre una tonnellata di carbone, mentre quella stessa tonnellata di carbone, nel 1936, si vendeva sul mercato intorno agli 8 dollari.

I minatori comprendono benissimo questa vistosa sperequazione tra il costo della loro forza lavoro - una merce - per il gestore e la somma fruttata dal prodotto del loro lavoro, di cui il gestore si appropria per venderlo. Inevitabilmente, i lavoratori capiscono di dover lottare per avere una fetta più grossa del guadagno (sindacalismo) oppure, nel caso dei lavoratori più lungimiranti, per rovesciare questo assurdo sistema (rivoluzione).

 

Per Marx e i suoi contemporanei, la lampante disparità tra ciò che il produttore o la produttrice riceve in cambio dei suoi sforzi e il prezzo a cui il suo prodotto viene venduto sul mercato deve essere spiegata. Com'è possibile che esista uno scambio apparentemente così irrazionale? Come diviene normale e universale? Perché viene accettato da coloro che producono la ricchezza? In presenza di quali condizioni questi produttori si ribellano contro questa prassi convenzionalmente accettata - lo sfruttamento - e istituiscono un nuovo ordine sociale?

Perché lo sfruttamento è importante?

Oggi i rapporti di sfruttamento sono spesso nascosti. Il prodotto del lavoratore è sovente qualcosa di non materiale - un servizio o un'informazione, per esempio - e difficile da misurare. Spesso non è chiaro in quale modo un prodotto immateriale viene trasformato in merce, come viene scambiato e quale valore assume sul mercato.

I lavoratori, specie negli Stati capitalisti avanzati un tempo caratterizzati da salari elevati, sono lontani o isolati dal loro rapporto con la produzione di merci, a causa della divisione internazionale del lavoro. Le loro posizioni lavorative sono designate da termini «professionali» che servono a nascondere la loro condizione di lavoratori sfruttati. In breve, la loro percezione del proprio sfruttamento è ben diversa da quella del minatore che estrae carbone da un giacimento.

Ciononostante, la maggior parte dei lavoratori vengono sfruttati dai loro datori di lavoro.

Lo sfruttamento primario del lavoro ha luogo nell'ambito del processo di produzione, e ha come conseguenza la diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. I socialdemocratici e gli altri riformisti si dichiarano giustamente favorevoli a una redistribuzione della ricchezza, prendendo posizione contro l'aumento delle diseguaglianze o a favore della loro riduzione - ma non a favore dell'eliminazione della loro causa nel regime capitalista, cioè lo sfruttamento in quanto tale. Propongono politiche normative o redistributive come la tassazione o la «moral suasion», e al tempo stesso lasciano intatto il motore della diseguaglianza - lo sfruttamento capitalista.

Il luogo fondamentale dello sfruttamento continua a essere quello in cui viene creata la ricchezza - il luogo di lavoro, che si tratti di una fabbrica, di un negozio, di un ufficio o di un'abitazione. Ovunque vi sia vendita di forza lavoro (impiego) vi è sfruttamento. Dove l'oggetto del lavoro è la produzione di merci, lo sfruttamento è diretto.

Dove invece l'oggetto del lavoro è la facilitazione della produzione di merci, la loro distribuzione o un'altra attività che favorisce la produzione di merci, lo sfruttamento è indiretto.

La questione dello sfruttamento è quella che divide la sinistra riformista dalla sinistra rivoluzionaria. La sinistra riformista non ha mai messo fine all'esistenza della diseguaglianza, né alla sua intensificazione, nel contesto delle relazioni sociali capitaliste. Questa, come affermano socialdemocratici di spicco quale Thomas Piketty, rimane la principale sfida per il futuro. I socialdemocratici non possono e non potranno mai affrontare questa sfida senza eliminare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Soltanto una rottura rivoluzionaria con il capitalismo e la costruzione del socialismo possono raggiungere questo obiettivo.


Resistenze.org     
Sostieni Resistenze.org.
Fai una donazione al Centro di Cultura e Documentazione Popolare.

Support Resistenze.org.
Make a donation to Centro di Cultura e Documentazione Popolare.