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Rivisitare L'economia politica della crescita di Paul Baran in una prospettiva odierna

Greg Godels | zzs-blg.blogspot.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

18/07/2025

«E questo mi riporta a quella che ho definito più sopra una riaffermazione delle mie posizioni riguardo al problema essenziale che i Paesi in via di sviluppo devono fronteggiare. Le intuizioni principali, che non devono essere messe in ombra da questioni di importanza secondaria o terziaria, sono due. La prima è che se si persegue uno sviluppo economico rapido, è indispensabile una pianificazione economica complessiva... se si intende fare sì che la crescita annua della produzione aggregata di un Paese raggiunga, diciamo, un ordine dell'8-10%, e se per ottenerla è necessario modificare radicalmente la modalità di utilizzo delle risorse umane e materiali di una nazione, abbandonando determinate linee di attività economica meno produttive e avviandone altre più redditizie, allora soltanto uno sforzo di pianificazione deliberato e ad ampio raggio può garantire il raggiungimento dell'obiettivo...»
«La seconda intuizione di cruciale importanza è che nessuna pianificazione degna di questo nome è possibile in una società in cui i mezzi di produzione rimangono sotto il controllo di interessi privati che li amministrano in funzione del massimo profitto dei loro proprietari (o della loro sicurezza, o di altri vantaggi privati). Poiché l'essenza stessa della pianificazione complessiva finalizzata allo sviluppo economico - anzi, ciò che la rende indispensabile - è che il modello di allocazione e utilizzo delle risorse che essa deve imporre per poter raggiungere il suo obiettivo è inevitabilmente diverso dal modello che domina nello status quo...» (xxviii-xxix, Introduzione all'edizione 1962 di The Political Economy of Growth di Paul A. Baran [grassetto aggiunto].

Riveste indubbiamente un certo interesse il fatto che lo scomparso professor Baran, ritornando sulla sua importante, acuta ed estremamente influente opera del 1957, The Political Economy of Growth («L'economia politica della crescita») incentrasse il suo contributo alla liberazione del mondo post-coloniale su due «intuizioni»: 1) la necessità di una pianificazione economica «complessiva», contrapposta agli irrazionali processi decisionali del mercato, e 2) l'impossibilità di una pianificazione efficiente sino a quando le principali forze produttive rimangono nelle mani di soggetti privati che operano a fini di profitto.

In parole povere, Baran afferma che, per i Paesi in via di sviluppo, la via d'uscita più promettente, umana e razionale dal retaggio coloniale consiste nell'optare per la via socialista, adottando la pianificazione quale elemento indispensabile e razionale per il raggiungimento di tale obiettivo.

Altrettanto interessante è che molti di coloro che considerano Baran tra i padri della teoria della dipendenza - la teoria secondo cui il principale ostacolo allo sviluppo è costituito dalle barriere strutturali tra Stato e Stato, imposte dal «centro» alla «periferia» o dal «Nord del mondo» al «Sud del mondo» - abbiano abbandonato le «intuizioni» fondamentali di Baran per un approccio che propugna lo scambio «equo», aperto e privo di ostacoli e la razionalità dei mercati.

Per molti esponenti dell'attuale sinistra occidentale, il fulcro delle diseguaglianze internazionali va ricercato nelle relazioni economiche tra Stati. Lo sfruttamento - nella forma delle pratiche che traggono vantaggio dallo sviluppo ineguale o dalla differenza di risorse - è indubbiamente parte delle relazioni tra Stati; nell'era coloniale si verificava in modo sistematico, oggi in modo più indiretto. Questo significa semplicemente che la competizione tra Stati capitalisti nell'ambito di un sistema imperialista globale produce e riproduce inevitabilmente varie diseguaglianze. Assai popolare è la tendenza a raffigurare questa situazione come un conflitto tra un Nord avvantaggiato e un Sud svantaggiato - il riferimento geografico, per quanto del tutto inesatto, è facilmente comprensibile. Da Wallerstein, Arrighi e Gunder Frank, fino ad arrivare ad Amin e a un vasto numero di osservatori odierni, la caratteristica centrale dell'imperialismo viene individuata nelle enormi differenze di ricchezza tra i Paesi ricchi e quelli poveri. Questi autori, inoltre, condividono l'idea che tali differenze siano mantenute in essere dalle strutture esistenti, strutture create e difese dai Paesi più ricchi.

Indubbiamente, questi autori hanno ragione nel denunciare tali diseguaglianze e le pratiche e le istituzioni che le preservano. E Paul Baran era lucidamente consapevole dell'esistenza di queste strutture, ma anche delle specifiche condizioni storiche che influivano sui singoli Paesi - cioè delle differenze e delle analogie tra loro. Baran illustra così la traiettoria degli Stati post-coloniali:

«Così, le popolazioni che entrarono nell'orbita dell'espansione capitalista occidentale si ritrovarono nel crepuscolo situato tra il feudalesimo e il capitalismo e dovettero sopportare gli aspetti peggiori di entrambi i mondi, con l'aggiunta di tutto l'impatto dell'asservimento imperialista. All'oppressione esercitata dai loro signori feudali, spietata ma temperata dalla tradizione, si aggiunse il dominio da parte di capitalisti stranieri e locali, implacabile e limitato soltanto dalle possibilità dei traffici. L'oscurantismo e la violenza arbitraria ereditati dal passato feudale si combinarono con la razionalità e l'avidità calcolatrice del presente capitalista. Il loro sfruttamento si intensificava, ma i suoi frutti non andavano ad aumentare la loro ricchezza produttiva - venivano convogliati all'estero o servivano a sostenere la borghesia parassitaria locale. Vivevano in una spaventosa miseria, ma non avevano alcuna prospettiva di un futuro migliore. Erano soggetti al capitalismo, eppure non vi era alcuna accumulazione di capitale. Avevano perduto i loro mezzi di sostentamento tradizionali, il loro artigianato, ma non c'era alcuna industria moderna che gliene fornisse di nuovi. Erano stati scaraventati a stretto contatto con l'avanzata scienza occidentale, ma rimanevano in una condizione di estrema arretratezza» (p. 144).

Baran è altresì del tutto consapevole della natura predatoria del capitale straniero, di cui nega qualunque «utilità» e i cui benefici a livello locale, afferma, vanno esclusivamente alla classe mercantile.

La sua esposizione più lucida della logica dell'imperialismo è forse quella che compare alle pagine 196-197:

«Indubbiamente, né l'imperialismo in sé né il suo modus operandi e i suoi risvolti ideologici sono oggi gli stessi di cinquanta o cent'anni fa. Così come il saccheggio puro e semplice del mondo esterno ha lasciato il posto al commercio organizzato con i Paesi in via di sviluppo, in cui il saccheggio è stato razionalizzato e normalizzato da un meccanismo fatto di rapporti contrattuali impeccabilmente "corretti", allo stesso modo la razionalità del commercio organizzato in modo fluido ha prodotto il sistema dello sfruttamento capitalista contemporaneo, ancor più avanzato e razionale. Come ogni altro fenomeno in evoluzione nel corso della storia, la forma contemporanea dell'imperialismo contiene e conserva tutte le sue modalità precedenti, portandole però a un nuovo livello. La sua caratteristica centrale è che oggi esso non mira soltanto alla rapida estrazione di ampi e sporadici guadagni dagli oggetti del suo dominio, e non si accontenta più di garantirsi un flusso più o meno costante di questi guadagni su un periodo più o meno esteso. Spinto dall'impresa monopolistica ben organizzata e razionalmente guidata, cerca oggi di razionalizzare il flusso di queste entrate al fine di poter contare su di esse a tempo indefinito. E ciò rimanda al compito centrale dell'imperialismo nel nostro tempo: impedire - o, qualora ciò sia impossibile, rallentare e controllare - lo sviluppo economico dei Paesi sottosviluppati».

Si noti che anche Baran, come la teoria della dipendenza oggi tanto di moda, ritiene che il «compito principale» dell'imperialismo consista nell'imporre il sottosviluppo. Ma indica l'agente dell'imperialismo nell'«impresa monopolistica», e non specificamente in uno Stato o in un governo rivale. Naturalmente, lo Stato che ospita corporation monopolistiche fa tutto ciò che è in suo potere per promuoverne e tutelarne gli interessi, ma non va identificato né con lo sfruttatore, né con il beneficiario dello sfruttamento: è «l'impresa monopolistica ben organizzata e razionalmente guidata» a dissanguare i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo. Nell'ambito del capitalismo monopolistico che domina lo Stato, lo Stato svolge un ruolo cruciale ed essenziale nel favorire i monopoli più potenti nell'economia globale.

Per Baran, la chiave per la liberazione delle ex-colonie dalla morsa dei rapaci monopoli non sta in un riordinamento delle relazioni internazionali, né in una campagna intesa a creare un «campo di gioco» internazionale equo, né in istituzioni di mercato alternative, né in una coalizione di oppositori dello status quo, bensì in un mutamento radicale della struttura sociale ed economica del Paese oppresso.

A tale riguardo, Baran si differenzia da numerosi fautori contemporanei della teoria della dipendenza che propugnano il multipolarismo come risposta alle diseguaglianze Nord-Sud e apprezzano lo sviluppo dei BRICS ravvisando in essi un fronte anti-imperialista. Essi ritengono che spezzando la morsa della grande potenza dominante - gli USA - sarà in qualche modo possibile eliminare la logica dell'imperialismo contemporaneo, scardinare il «meccanismo fatto di rapporti contrattuali impeccabilmente "corretti"» che costituisce il cuore delle relazioni tra «centro» e «periferia».

Ma questo non è il pensiero di Baran, che opta invece per un coinvolgimento attivo degli operai, dei contadini e degli intellettuali della periferia. Il suo è un approccio di classe. Per Baran i lavoratori non sono foglie secche trascinate di qua e di là dai potenti venti delle grandi potenze. Sono invece gli agenti della loro stessa liberazione.

Baran illustra le potenzialità delle masse post-coloniali attraverso il suo innovativo concetto di «surplus».1 Baran invita i rivoluzionari dei Paesi emergenti a realizzare il surplus potenziale a cui potranno accedere per lo sviluppo se si impegneranno in una «riorganizzazione della produzione e della distribuzione del prodotto sociale» e accetteranno «cambiamenti di ampia portata nella struttura della società» (p. 24). Baran evidenzia quattro fonti disponibili di surplus:

«La prima è il consumo in eccesso (prevalentemente quello dei gruppi di reddito più elevati...), la seconda è la produzione che viene sottratta alla società dall'esistenza di lavoratori improduttivi, la terza è la produzione perduta a causa dell'organizzazione irrazionale e degli sprechi dell'apparato produttivo esistente, e la quarta è la produzione mancata dovuta all'esistenza della disoccupazione, causata in primo luogo dall'anarchia della produzione capitalista e dalla carenza di domanda effettiva» (p. 24).

Recuperando questo surplus, secondo Baran, il mondo post-coloniale potrà affrontare la «ripida salita» - l'uscita dal retaggio del colonialismo e dalla morsa del capitalismo. Al tempo stesso, Baran riconosce che un Paese povero di risorse, un'economia brutalmente stravolta da un Paese vicino - un Paese come Cuba, insomma - avrà bisogno di assistenza da parte della comunità socialista, un'assistenza che è venuta sostanzialmente a mancare dopo la fine dell'Unione Sovietica.

I fautori del multipolarismo e i sostenitori dei BRICS non condividono la fiducia di Baran nei lavoratori. Non riescono a concepire una risposta rivoluzionaria al problema del sottosviluppo. Relegano il socialismo a un futuro lontano e indistinto, e propugnano un capitalismo più umano. Il loro progetto si esaurisce nell'istituzione di un nuovo regime di «aggiustamenti strutturali» che dovrebbe azzoppare il potere economico degli Stati Uniti lasciando spazio a una pluralità di potenze impegnate a contendersi - ma in modo «amichevole» - i mercati globali. La loro è una prospettiva socialdemocratica portata a livello globale. Ma non è la prospettiva di Baran.

Come i loro omologhi a livello nazionale, questi socialdemocratici globali immaginano un mondo in cui riformando i rapporti sociali capitalisti - e rimettendo al loro posto i monopoli più birbanti - sarà possibile dare vita al proverbiale arco tendente alla giustizia. I BRICS, ritengono, ci offriranno un campo di gioco più regolare in cui le corporation monopolistiche potranno affrontarsi in modo più equo.

*****

La ricetta per lo sviluppo elaborata da Baran nel 1957 (1962) è applicabile al mondo di oggi? Il cosiddetto Sud globale potrebbe sfuggire agli artigli del sistema imperialista applicando le «intuizioni» illustrate da The Political Economy of Growth?

Un recente rapporto Oxfam sulle diseguaglianze in Africa suggerisce l'esistenza di un vasto surplus potenziale per la costruzione di un programma di sviluppo basato su un approccio di classe all'appropriazione e al recupero del surplus:

- I quattro miliardari africani più ricchi possiedono ricchezze pari a 57,4 miliardi di dollari, superiori a quelle di metà circa del miliardo e mezzo di abitanti del continente.

- Mentre nel 2000 in Africa non c'era alcun miliardario, oggi ce ne sono 23 le cui ricchezze complessive ammontano a 112,6 miliardi di dollari. La ricchezza di questi 23 africani super-ricchi è aumentata del 56% negli ultimi cinque anni.

- Il 5% più ricco del continente ha accumulato ricchezze pari a quasi 4 trilioni di dollari, più del doppio della ricchezza complessiva di tutti gli altri abitanti dell'Africa (per confronto, il 10% più ricco delle famiglie statunitensi possiede due terzi delle ricchezze degli Stati Uniti).

- Quasi metà dei Paesi più diseguali del mondo si trovano in Africa.

- Il 50% più povero degli africani possiede meno dell'1% della ricchezza del continente (per confronto, il 50% più povero delle famiglie statunitensi possiede il 3% delle ricchezze degli Stati Uniti).

Presumibilmente, il rapporto non include miliardari come Elon Musk, Patrick Soon-Shiong, Rodney Sacks e molti altri che si sono trasferiti e hanno spostato i propri investimenti fuori dall'Africa. Otto dei più ricchi miliardari statunitensi nati all'estero provengono dall'Africa.

È evidente che al centro del problema dello sviluppo umano in Africa ci sono i rapporti di classe, e non quelli tra Stati. Il «surplus potenziale» concentrato nelle mani di così pochi individui potrebbe essere impiegato per un programma di sviluppo popolare in grado di invertire la concentrazione della ricchezza che oggi affama i poveri del continente. La ricchezza espropriata potrebbe essere impiegata per l'industrializzazione e per la razionalizzazione dell'agricoltura. In Africa, insomma, vi sono ricchezze più che sufficienti per realizzare le due intuizioni di Paul Baran con cui ho aperto questo articolo.

Il movimento dei BRICS - una coalizione di partner che si stanno allineando per creare una rete di scambi internazionali diversa che si vorrebbe meno unilaterale e meno sbilanciata a favore delle nazioni ricche - non è qualcosa di negativo in sé. Il famoso campo di gioco più regolare - un mercato equo e libero - è un obiettivo legittimo per soggetti capitalisti che competono a livello internazionale. Ma non è un progetto di sinistra. Non contribuisce minimamente ad avvicinare l'obiettivo della lotta per la giustizia per i lavoratori. Non è un progetto di classe, e perciò in ultima analisi finirà probabilmente per favorire coloro che sono in condizioni di trarre beneficio da un corretto funzionamento dei rapporti economici capitalisti nei vari Paesi sfavoriti dai rapporti esistenti. E il rapporto Oxfam ci dice chi sono.

I limiti del multipolarismo sono emersi con evidenza nel recente vertice dei leader dei BRICS di Rio de Janeiro. Si fa un gran parlare di «ordine globale più equo», di «cooperazione» tra Stati, di «partecipazione» più ampia, e perfino di un impegno a combattere le malattie e la povertà estrema. I ministri degli Esteri e i capi di Stato denunciano puntualmente la guerra e le aggressioni. L'attuale presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha definito i BRICS «gli eredi del Movimento dei Non-Allineati». Si è dimenticato di aggiungere che il MNA si spaccò quando Cuba, mettendo da parte l'arma spuntata delle risoluzioni e delle dichiarazioni, scese fisicamente in campo in difesa dell'Angola dall'aggressione del Sud Africa dell'apartheid, conducendo una guerra sanguinosa che mise in ginocchio quel regime criminale. La reazione dei BRICS all'attacco contro l'Iran richiama alla memoria quelle «armi spuntate».

Il cammino rivoluzionario indicato da Baran non è un cammino facile. Altri lo hanno tentato e hanno fallito. Da Nkrumah e Lumumba fino a Thomas Sankara, i rivoluzionari africani hanno mosso dei passi in questa direzione, per poi essere tolti di mezzo da potenti forze decise a sopprimere ogni minimo tentativo in tal senso. Il che dovrebbe bastare a far capire alla sinistra euro-americana che è questo il cammino da seguire.

Non dobbiamo fingere che la riforma delle relazioni di mercato globali - così come la riforma delle relazioni di mercato nazionali - possa garantire la giustizia ai lavoratori. Tale giustizia vi sarà quando gli operai, i contadini e gli intellettuali del Sud globale giungeranno alla conclusione che la giustizia è impossibile finché «i mezzi di produzione rimangono sotto il controllo di interessi privati che li amministrano in funzione del massimo profitto dei loro proprietari».

Note:

1 Benché utile in questo contesto, il concetto di surplus appare meno riuscito nella forma elaborata nell'opera di Baran e Sweezy Il capitale monopolistico (1966).


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