www.resistenze.org - pensiero resistente - editoriali - 15-03-20 - n. 742

La resa dei conti?

Greg Godels | zzs-blg.blogspot.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

14/03/2020

Per comprendere il caos economico verificatosi nelle ultime settimane è fondamentale distinguere la causa immediata da quella profonda.

La causa immediata o diretta è costituita dal contagio in espansione, spesso fatale, del coronavirus (Covid-19). Il crollo dei mercati azionari mondiali ha rappresentato un effetto immediato e ampiamente notato di questa causa diretta. La strage mietuta dal virus nella Repubblica Popolare Cinese ha suscitato una reazione rapida ed efficace, che tuttavia ha influito negativamente sulle attività economiche in una nazione già alle prese con un rallentamento dell'economia causato dalle sanzioni economiche e dai dazi. Gli investitori istituzionali, i gestori degli hedge fund e simili, resisi conto della falcidie e del contagio e prevedendone gli effetti sulle attività a livello mondiale, hanno ritirato i loro investimenti dalle azioni ordinarie trasferendoli verso destinazioni più sicure, quali i buoni del Tesoro USA. Inizialmente il panico ha investito il mercato delle obbligazioni, riducendone drasticamente il rendimento.

La rapida diffusione del virus ha provocato sconvolgimenti economici ancora maggiori.

La causa profonda dell'attuale turbolenza economica mondiale è tuttavia la fragilità e la vulnerabilità del sistema capitalistico globale. Tale affermazione non è né scontata né ovvia. Sin dalla grave crisi del 2007-2009, il capitalismo non ha fatto che arrancare, puntellato dalle misure straordinarie attuate dalle banche centrali, dai tagli alle tasse, dalle spese militari e dall'espansione guidata dal credito della domanda da parte dei consumatori. Le vittime della crisi precedente sopravvivono con salari ridotti e impieghi occasionali nel settore dei servizi, mentre i ricchi si ingozzano di azioni gonfiate da fusioni, acquisizioni e riacquisti di titoli da parte di società quotate. Ogni accenno di ripresa della crescita si arresta prontamente, facendo ripiombare l'economia capitalista nella stagnazione. La crescente irrilevanza dei partiti politici centristi è una delle espressioni dell'insoddisfazione di massa provocata dalla crescente diseguaglianza e dall'impoverimento da cui molte persone sono colpite. La domanda non è se questo sistema sia sostenibile, bensì quando raggiungerà il collasso.

La preoccupante minaccia che il Coronavirus rappresenta per le attività economiche internazionali - lavoro, tempo libero, viaggi e ogni forma di vita sociale - ha innescato un blocco progressivo del mercato, originato dal timore che il sistema capitalista possa sfuggire a ogni controllo. Gli investitori sanno bene che i punti deboli del sistema, l'assenza di una preparazione adeguata, la stasi a livello politico e l'inefficacia dell'azione di governo lasciano prevedere risultati spaventosi.

In netto contrasto con la rapida e approfondita reazione messa in atto dalla Cina, che ha in gran parte arrestato la diffusione del virus, l'inazione dei Paesi capitalisti occidentali appare sconcertante. Oggi il numero di persone contagiate dal virus in Italia per milione di abitanti è pari a sette volte quello della Repubblica Popolare Cinese, dove la malattia si è manifestata per la prima volta. Tutti gli sproloqui dei media occidentali sull'«autoritarismo» cinese non bastano a nascondere la sensazionale impreparazione e il fallimento dei sistemi sanitari pubblici dei Paesi capitalisti occidentali.

L'assenza di un sistema di assistenza sanitaria universale, equo e completo (come il Medicare for All) e di un robusto settore sanitario pubblico pone gli USA particolarmente a rischio. Se alla mancanza di equità e di giustizia del sistema sanitario si somma la storica ossessione per l'autonomia dell'individuo, è chiaro che ciò che si profila all'orizzonte è il disastro.

La presenza di un fattore esogeno causa di sconvolgimenti economici non è priva di riscontri nel passato recente. L'attacco sferrato da al-Qaeda contro civili statunitensi l'11 settembre 2001 causò una flessione superiore al 7% nel mercato azionario, inasprì la crisi della bolla del «dotcom» e alimentò un arretramento del mercato azionario e un aumento della disoccupazione protrattisi per circa un anno. Come sta avvenendo nel 2020 con il Coronavirus, anche nel 2001 un elemento inaspettato e di natura non economica scosse un'economia già in crisi, anche allora inquinata da «asset» dal valore gonfiato. Ma la situazione attuale si preannuncia di gran lunga peggiore.

Buona parte della storia economica del XXI secolo è stata rappresentata da una lotta dei responsabili politici contro la deflazione - una lotta mirante a puntellare risorse dal valore gonfiato e spesso del tutto virtuale. Dal volgere del secolo e dalla bolla del «dotcom» sino a oggi, l'economia produttiva è stata infettata da «asset» tossici. E paradossalmente, un virus «tossico» apparentemente scaturito dal nulla minaccia l'organismo indebolito dell'economia mondiale, distruggendone il «valore» a colpi di migliaia di miliardi alla volta.

Naturalmente i rischi maggiori sono ancora di là da venire. I mercati prevedono già le ore di lavoro perdute, i licenziamenti, i costi per i sistemi sanitari, le chiusure di imprese, il rallentamento della produzione, gli effetti negativi sulla «ricchezza», la riluttanza dei consumatori, la flessione degli investimenti e una miriade di altri shock economici che potrebbero alimentare una deflazione. Anche il settore finanziario è gettato nel panico da questa situazione, dal momento che il valore delle risorse sta crollando in un contesto caratterizzato da bassi interessi.

Benché taluni la definiscano una crisi finanziaria, essa non è causata da fattori finanziari, né è limitata al settore finanziario. Non si tratta nemmeno di una crisi legata alla sovrapproduzione, a una contrazione dei consumi o a una diminuzione della redditività, sebbene stia rapidamente assumendo anche tutti questi aspetti nonché quello in cui ogni crisi economica è destinata a sfociare - quello della crisi di accumulazione. L'economia mondiale era sull'orlo di un precipizio - e il Coronavirus le ha dato una spinta.

Il virus non sarebbe potuto giungere in un momento peggiore. La guerra tra globalisti e nazionalisti economici, combattuta a colpi di dazi e sanzioni, stava già mietendo molte vittime in molti Paesi e rimane irrisolta. A dispetto dell'euforia dei mercati azionari (del tutto slegata dalla realtà) i mercati delle merci stavano vivendo un rallentamento o un declino. Gli scambi internazionali avevano già segnato record negativi.

La Federal Reserve, tacitamente investita del compito di stabilizzare l'economia USA a vantaggio del presidente in carica in vista del processo elettorale presidenziale, ha sparato la sua cartuccia monetaria troppo presto, riducendo i tassi di interesse in vista di un rallentamento contenuto dell'economia causato dal «problema cinese». Così, oggi non ha altra scelta che fronteggiare la crisi con misure radicali (il 12 marzo è stato annunciato un programma basato sull'iniezione di 1500 miliardi di liquidi nel settore bancario e sull'espansione dell'acquisto di asset finalizzata a combattere la deflazione).

I russi hanno acuito la crisi respingendo il piano saudita mirante a rafforzare il mercato del greggio. Il 6 marzo hanno rifiutato di imitare i sauditi riducendo la produzione di petrolio allo scopo di stabilizzare i prezzi. In modo irresponsabile, la leadership saudita - alle prese con una grave pressione politica causata da problemi di bilancio e da un'offerta pubblica iniziale deludente) - ha allora annunciato una guerra dei prezzi (oltre ad arrestare gli oppositori in seno alla famiglia reale).

Con il crollo dei prezzi del petrolio, anche il rublo è crollato, costringendo la banca centrale russa a bloccare temporaneamente gli acquisti dall'estero.

Secondo fonti russe ben informate, il ritiro dal programma di sostegno ai prezzi intendeva colpire il settore USA del fracking, che non è in grado di produrre in modo redditizio quando i prezzi sono bassi. Ad Alexander Dynkin viene  attribuita la seguente dichiarazione: «Il Cremlino ha deciso di sacrificare l'OPEC per bloccare i produttori di shale americani e per punire gli Stati Uniti per essersi immischiati nella questione del Nord Stream 2» (corsivo mio). I russi erano senz'altro al corrente del fatto che l'industria del fracking americana era già sull'orlo del collasso a causa di un debito enorme e impossibile da gestire (oltre 120 miliardi di dollari di debiti in maturazione nei prossimi due anni!). Così, la Russia ha deciso di rischiare una grave deflazione dei prezzi del petrolio per vendicarsi degli USA, colpevoli di aver mandato a monte il suo progetto di gasdotto europeo - un caso di «pan per focaccia» tra capitalisti, insomma.

Ho scritto sovente riguardo all'imperialismo energetico nel corso degli ultimi due anni (in particolare riguardo all'impiego da parte degli Stati Uniti di guerra, sanzioni e minacce allo scopo di estorcere quote di mercato). Alla luce degli effetti devastanti che una guerra dei prezzi è destinata ad avere su Paesi vulnerabili e dipendenti dalla produzione di petrolio quali il Venezuela, coloro i quali si ostinano a credere che la Russia sia qualcosa di più di un altro Paese capitalista intento a promuovere i propri interessi potranno forse sentirsi indotti a un ripensamento.

Un virus implacabile, reazioni incompetenti e tardive, politiche economiche mal concepite, un'irresponsabile guerra dei prezzi - tutto ciò sta provocando un crollo dei mercati causato dalla paura, che è soltanto il primo atto di un possibile dramma incentrato su una spirale deflazionistica senza precedenti.

Qualcuno crede che i leader del mondo capitalista siano in grado di fronteggiare questa minaccia?


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