www.resistenze.org - pensiero resistente - editoriali - 13-06-22 - n. 833

La questione della pace e l'imperialismo

Greg Godels | mltoday.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

05/06/2022

La guerra in Ucraina è anche una guerra di propaganda, in cui tutti i belligeranti, i loro sponsor e i loro alleati sfornano, attraverso media vergognosamente servili, masse di bugie e disinformazione. Sotto questo aspetto la situazione è simile a quella di altre guerre, ma con una maggior dose di sfacciataggine.

Per questo motivo è difficile capire come venga condotta la guerra o chi sia in vantaggio sul piano militare in un dato momento. Come in tutti i conflitti moderni, abbondano i racconti di atrocità e le perdite vengono fortemente ingigantite.

Ma ciò che differenzia questo conflitto da quelli del passato recente e meno recente è la pressoché totale assenza di un movimento organizzato contro la guerra. Il fatto che vi siano poche iniziative di piazza, campagne di sensibilizzazione o atti di resistenza miranti a fermare il macello di questa guerra brutale costituisce ben più di una curiosità. Certo, vi sono appelli generici a tagliare i bilanci militari o a rifiutare la guerra sul piano filosofico, ma ben poche iniziative atte a fermare questa guerra in particolare. Malgrado la cosiddetta «nebbia di guerra», tutti quanti sanno che un numero rilevante di soldati e civili stanno morendo, che vi sono corpi dilaniati, case distrutte e persone cacciate dalle loro case. Nessuna «nebbia», per quanto fitta, può nascondere questa realtà.

Naturalmente alcune voci importanti - papa Francesco, perfino Henry Kissinger - si sono levate chiedendo la cessazione dei combattimenti e l'apertura di negoziati. E comunisti e sindacalisti in Italia, Grecia e Turchia hanno bloccato carichi di armi NATO, organizzato manifestazioni e tenuto presidi davanti alle ambasciate.

Ma nella maggior parte delle città, degli Stati e dei Paesi vi sono ben poche iniziative contro la guerra in Ucraina. E ciò che più sorprende è che la sinistra europea e statunitense, solitamente in prima fila contro la guerra, rimane in gran parte in silenzio. I suoi esponenti non hanno nemmeno chiesto che i loro Paesi rimangano fuori da questa guerra.

Al contrario, si sono tacitamente o apertamente schierati con uno o l'altro dei belligeranti. In più occasioni mi sono espresso, a voce e per iscritto, contro la scelta di campo in questo conflitto. Ho inoltre cercato di inserire la guerra nel contesto dell'imperialismo classico, sostenendo che il sostegno da parte della sinistra a una o l'altra delle parti in lotta costituisce un errore, paragonabile al crollo dell'opposizione di sinistra all'inizio della prima guerra mondiale. In questo caso, la sinistra sta rimanendo vittima di una concezione confusa dell'imperialismo e dell'anti-imperialismo.

Invece di ripetere questa argomentazione, può essere utile esaminare come e perché gli esponenti della sinistra giustificano il loro sostegno a una parte o all'altra, rinunciando a spendersi a favore della causa della pace in Ucraina.

Riguardo a coloro che sostengono acriticamente l'Ucraina, c'è ben poco da dire. Lasciando da parte gli ultra-nazionalisti del genere «Gloria all'Ucraina», che hanno accolto favorevolmente il conflitto e sperano di trascinare i Paesi capitalisti occidentali in una crociata contro la Russia, vi sono coloro che interpretano semplicisticamente la guerra come una pura e semplice aggressione priva di antefatti. A causa della loro totale ignoranza della storia dell'Ucraina post-sovietica, fatta di corruzione, reazione, ingerenze e aggressioni occidentali, o mossi da un deliberato desiderio di collaborare con le trame degli USA e della NATO, questi novelli Guerrieri Freddi aspirano a una sconfitta russa, non hanno alcun interesse a un accordo di pace immediato e non si preoccupano affatto del massacro in corso.

A loro si contrappongono i compagni più equilibrati che, memori del duello della Guerra Fredda tra gli USA e i loro alleati da un lato e l'Unione Sovietica e i suoi alleati dall'altro, equiparano la Russia di oggi all'Unione Sovietica. Costoro sono consapevoli di come l'Unione Sovietica costituì un polo di resistenza in grado di contrastare e in alcune occasione di far naufragare i progetti di dominio mondiale dell'alleanza imperialista durante la Guerra Fredda. L'imperialismo degli Stati Uniti, all'epoca potenza imperialista dominante, fu effettivamente tenuto a bada dall'Unione Sovietica dal 1945 sino alla dissoluzione dell'URSS nel 1991. Questi anti-imperialisti vedono la Russia nella sua guerra contro l'Ucraina come un analogo polo emergente contrapposto all'imperialismo USA, e considerano l'invasione russa come una manifestazione della rottura del predominio assoluto militare ed economico degli USA a livello mondiale impostosi dopo la fine dell'Unione Sovietica. A loro avviso sta nascendo un mondo multipolare. Vi sono elementi di verità in questa visione - ma la Russia non è l'Unione Sovietica. Non ne condivide l'ideologia: e anzi, le sue motivazioni sostituiscono l'internazionalismo sovietico con un nazionalismo da aspirante grande potenza. Pur approfittando delle crepe apertesi nell'egemonia mondiale USA, la Russia non offre una visione alternativa, né fornisce aiuti senza condizioni alle vittime del capitalismo e dell'imperialismo. Sotto questo aspetto, la Russia non è nemmeno Cuba.

La politica estera russa è ispirata a un capitalismo opportunista: amichevole verso la Turchia o Israele in un dato momento, in conflitto con loro un istante dopo. La Russia si allinea all'Arabia Saudita quando questo è economicamente redditizio, e nel contempo combatte i fantocci sauditi in Siria. Non è guidata da alcun principio coerente. Ed è ovvio che sia così in un Paese che ha rigettato il socialismo a favore del capitalismo. Coloro i quali considerano progressiste la politica estera e le alleanze della Russia scelgono i loro esempi in modo estremamente selettivo. I leader russi abbracciano prontamente l'etica capitalista e rifiutano il progetto sovietico, salvo poi fare appello all'occorrenza a simboli e tradizioni sovietiche quando torna loro utile.

È effettivamente possibile che l'invasione russa sia destinata a raggiungere gli obiettivi fissati dalla classe dirigente russa. E può essere vero che questi successi andranno a scapito dell'imperialismo USA e della sua classe dirigente - ma come si può sostenere che questo ci avvicinerà a un mondo di pace e giustizia sociale? Le rivalità rimarranno, gli obiettivi delle rispettive classi dirigenti resteranno incerti e instabili, per quanto si proclamino amanti della pace e favorevoli alla democrazia; e il rischio di conflitto resterà elevato, se non aumenterà ancor di più.

Vi sono altri che ravvisano nella guerra - nella misura in cui la Russia sta sfidando il potere USA - un colpo sferrato dai soggetti che si trovano alla base di quella che si potrebbe definire la «piramide» imperialista, e cioè i Paesi in via di sviluppo. Per esempio Jenny Clegg, in un articolo pubblicato sul Morning Star, interpreta l'ascesa di «rivali» del predominio USA come uno dei primi passi verso un mondo multipolare. Osserva correttamente che il multipolarismo «non è una linea politica, bensì una tendenza oggettiva emergente...».

Individua inoltre la principale contraddizione nello scambio ineguale tra Paesi fortemente sviluppati e Paesi in via di sviluppo - la contraddizione che definisce l'imperialismo e l'anti-imperialismo.

Questa distinzione tra centro e periferia, popolare e influente tra i «marxisti» indipendenti occidentali nell'epoca in cui le classi lavoratrici del centro - cioè dell'Occidente - si lasciarono in gran parte addomesticare dall'opportunismo socialdemocratico, non è mai stata particolarmente utile, né pertinente in modo sistematico. Marx dimostrò abbondantemente che lo scambio, nel contesto dei rapporti di produzione capitalisti, non era generalmente ineguale - scambio di valori contro valori. Ma questi stessi rapporti di produzione producono e riproducono costantemente la diseguaglianza. L'origine della diseguaglianza - lo sfruttamento capitalista - è insito nel sistema capitalista, e non nella rapina costituita dallo scambio ineguale.

Come illustrò Lenin, lo sviluppo ineguale è una caratteristica dei rapporti tra le persone, tra le istituzioni sociali, tra le aziende dello stesso settore, tra i settori industriali, tra i Paesi e perfino tra i continenti. A produrre lo sviluppo ineguale non è lo scambio ineguale, bensì le differenze tra i ritmi di sviluppo, tra le pratiche culturali e sociali, tra le istituzioni politiche e non - e soprattutto, specie nell'epoca dell'imperialismo, l'arretratezza causata dal colonialismo, dal neocolonialismo e dal loro retaggio.

Nell'ultimo mezzo secolo gli sviluppi tecnologici hanno messo in grado i capitalisti di spostare, sfruttare e rifornire le forze produttive materiali - fabbriche, reti di trasporto, risorse - in modo tale da attingere a mercati del lavoro precedentemente inaccessibili, ottenendo una generale riduzione del costo del lavoro. Al tempo stesso, questi sviluppi hanno elevato il tenore di vita in alcuni Paesi in via di sviluppo, abbassandolo in alcuni Paesi capitalisti. Di conseguenza, alcuni Paesi capitalisti quali l'India, la Turchia, il Brasile e l'Indonesia si sono trasformati in potenti rivali delle grandi potenze di fine Novecento.

Il concetto di scambio «ineguale» come spiegazione della diseguaglianza tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo (e della differenza tra imperialismo e anti-imperialismo) è inadeguato, in quanto presuppone che se gli scambi divenissero eguali, questa diseguaglianza tra Stati scomparirebbe. Ciò che più conta, questa interpretazione induce a ritenere che sarebbe lo scambio eguale - e non la fine del capitalismo - a segnalare la disfatta dell'imperialismo.

Concepire l'imperialismo come un conflitto tra livelli di sviluppo avanzati e arretrati basato su gradi ineguali di attività economica - cioè come una sorta di rapina organizzata - significa equivocare la natura dello sfruttamento nel contesto del capitalismo. L'intensa competizione tra soggetti - grandi e piccoli - per il controllo di mercati, risorse, forza-lavoro e capitale è l'essenza del capitalismo e dell'imperialismo. Non esiste una linea di demarcazione netta tra questa competizione e la guerra.

Clegg vorrebbe darci a intendere che in un mondo multipolare, con il potere degli USA ridimensionato, l'instaurazione di scambi eguali inaugurerà un'epoca di competizione civile, beneducata e rispettosa. Ribadisce che questo contrasto con il mondo pericoloso di oggi è incarnato dalla distinzione tra «competizione» e «rivalità» - una distinzione che ben pochi, credo, riterranno soddisfacente. In una digressione spiega: «Competizione e rivalità non sono la stessa cosa - un conto è competere in una corsa, un altro è fare deliberatamente lo sgambetto all'avversario durante la corsa». Ma chi crede che la competizione sportiva non si trasformi sovente in conflitto senza mezzi termini e perfino in violenza non conosce né la storia dello sport, né quella della politica internazionale del Novecento.

Dal crescente affidamento fatto sulle «scelte razionali» o sulla «teoria dei giochi» (oggi in gran voga tra gli intellettuali) al comportamento delle imprese capitaliste; dalle incessanti controversie relative a confini, rotte marittime e acque territoriali alla costruzione di alleanze economiche e militari... non pare proprio che i Paesi capitalisti si stiano sforzando di dare vita a un terreno di gioco economico equo su cui giocare secondo regole fisse, chiare e rispettate da tutti. «Win-win», l'espressione che designa una situazione in cui «vincono tutti», non rientra nel vocabolario del capitalismo.

Secondo Clegg, «il vecchio - il potere egemonico degli USA» sarebbe da tempo «in relativo declino», mentre «il nuovo - una più equa distribuzione della ricchezza e del potere» sarebbe in ascesa, per quanto lentamente. Si può senz'altro concordare sul fatto che alcuni aspetti del potere e dell'influenza degli Stati Uniti siano stati messi in difficoltà e indeboliti, e si potrebbe aggiungere che gli USA mostrano molti segnali di declino economico, politico e sociale - ma da ciò non consegue, né appare verosimile, che un'eventuale «redistribuzione della ricchezza e del potere» risulterebbe più equa o più giusta. E soprattutto, anche qualora la ricchezza e il potere fossero distribuiti in modo più equo tra i Paesi, ben poco induce a ritenere che lo sarebbero anche all'interno di quegli stessi Paesi. Il multipolarismo di Clegg non può offrire alcuna promessa del genere alle classi lavoratrici.

Vi sono infine quegli esponenti della sinistra che, dopo aver lottato per tutta la vita contro l'imperialismo USA, sono convinti che «il nemico del mio nemico è mio amico». Nell'ambito della sinistra autentica sopravvivono ormai ben poche persone in grado di ricordare un'epoca in cui gli Stati Uniti non erano la prima potenza mondiale e il baluardo dell'alleanza capitalista contro il socialismo - inteso come corrente politica legittima, come rivale del capitalismo mondiale e come fulcro delle forze anti-imperialiste.

È difficile, quindi, evitare di pensare che il mondo trarrebbe beneficio dallo scardinamento dell'imperialismo USA, dal crollo degli Stati Uniti come grande potenza. Nessun'altra grande potenza nella nostra epoca si è macchiata di misfatti tanto letali. Ma questa visione tradisce una comprensione inadeguata del capitalismo e delle sue fasi di sviluppo.

Nel periodo tra le due guerre mondiali, in vari Paesi oppressi dall'imperialismo britannico, vi furono leader nazionalisti che festeggiarono l'ascesa di Hitler e di Tojo, salutandoli come possibili salvatori dopo centinaia di anni di oppressione a opera dell'impero britannico, la principale potenza imperialista dell'epoca.

Per esempio Subhas Chandra Bose, un leader nazionalista indiano già presidente del Congresso Nazionale Indiano, era così determinato a espellere il dominio britannico in India che finì per collaborare attivamente e senza alcuno scrupolo con i nazisti e con i giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Questa miopia rappresenta una forma estrema di quel paraocchi indossato da molti anti-imperialisti incapaci di comprendere la logica dell'imperialismo e il suo indissolubile legame con il capitalismo.

Il caso di Chandra Bose dimostra l'insensatezza del nazionalismo ristretto e dell'egoismo ossessivo, contrapposti all'interpretazione del mondo attraverso la lente della classe e della solidarietà di classe.

La lotta contro l'imperialismo USA, così come la lotta contro il suo predecessore, l'impero britannico, troverà una soluzione definitiva in patria, quando il popolo finalmente si rifiuterà di continuare a pagare il prezzo dei grandiosi progetti dei suoi governanti. Naturalmente, ai soggetti oppressi dall'imperialismo spetta un ruolo altrettanto importante, quello della resistenza; ma l'imperialismo, come la ruggine, non dorme mai. Costituisce un imperativo, una necessità dell'accumulazione capitalista: se viene sconfitto in un luogo, ne troverà sicuramente un altro per soddisfare le sue brame. Questa dinamica avrà termine soltanto quando il nostro mondo approderà al socialismo. La favola rassicurante di un capitalismo benevolo in cui tutti i partecipanti giocano pacificamente nello stesso campo è, appunto, soltanto una favola.

Il multipolarismo - un concetto analizzato originariamente da accademici borghesi in cerca di strumenti atti a comprendere la dinamica dei rapporti globali - è stato fatto proprio da settori della sinistra anti-imperialista. Benché descriva indubbiamente una tendenza realmente emergente, come riconosce Jenny Clegg, questo concetto è stato sovente presentato come una fase anti-imperialista destinata a modificare i rapporti di forza globali in direzione di un mondo migliore.

Ho già sostenuto che questa visione rappresenta un arretramento rispetto all'interpretazione classica dell'imperialismo elaborata da V. I. Lenin e dai suoi seguaci. Nel contesto di un mondo instabile in preda al disordine ideologico e affetto da innumerevoli crisi, non è possibile prevedere se i poli destinati a emergere o a sfidare il super-polo post-Guerra Fredda costituiranno un progresso o un regresso semplicemente in quanto poli alternativi. Senza dubbio, qualunque resistenza che indebolisca il potere asimmetrico controllato dagli Stati Uniti va salutata con favore. Ma non dobbiamo dare per scontato che qualunque avversario sia destinato a trasformarsi in una forza in grado di portare stabilità, giustizia e pace. Ciò che sappiamo della storia del capitalismo, a partire dalla sua prima fase di espansione in cui accumulò capitale umano involontario allo scopo di sfruttare le ricchezze del Nuovo Mondo, dovrebbe indurci alla cautela quando formuliamo aspettative riguardo ai nuovi rivali dell'imperialismo USA.

Alla luce della caduta dell'Unione Sovietica e dell'incertezza che le ha fatto seguito, dovremmo essere prudenti prima di acclamare un qualunque nuovo candidato al ruolo di arci-nemico non soltanto dell'imperialismo USA, ma dell'imperialismo nel suo insieme, nonché della sua genesi - il capitalismo.

Mentre la sinistra discetta inutilmente su chi sia la vittima e chi l'aggressore, dei lavoratori stanno morendo inutilmente, subendo orribili ferite, perdendo le proprie case e precipitando nella disperazione - tutti i prodotti della guerra moderna. Le vite della classe operaia non devono diventare pedine dei dibattiti ideologici. Saranno gli eventi a decretare quale sia la corretta interpretazione dell'imperialismo; ma la storia non sarà clemente verso coloro che, nel frattempo, avranno mancato di opporsi alla guerra e di perseguire una soluzione pacifica.


Resistenze.org     
Sostieni Resistenze.org.
Fai una donazione al Centro di Cultura e Documentazione Popolare.

Support Resistenze.org.
Make a donation to Centro di Cultura e Documentazione Popolare.