Siamo immersi in un mare di falsificazione, confusione e mistificazione.
Siamo bombardati da accademici, commentatori, consulenti ed esperti d'ogni genere che costruiscono il proprio brand raccontandoci quello che chi ci comanda vuole che ascoltiamo. Mediante abili trucchi, costoro insinuano nei nostri spazi di intrattenimento e perfino nei nostri spazi di evasione messaggi surrettizi che stimolano il conformismo e il consenso.
Questi spacciatori di conformismo, i latori del messaggio, assumono l'aria flemmatica e affidabile della tradizione, oppure le sembianze superficiali dell'anticonformismo e della diversità più audaci, a seconda delle sensibilità del pubblico - ma il messaggio in sé è lo stesso in tutti i casi.
A sinistra vi è chi ama ricondurre questo predominio del campo delle idee - che è un processo incessante e continuo - al seducente concetto gramsciano di «egemonia» della classe dirigente; ma in realtà si tratta di un concetto che fa parte da lungo tempo del retaggio marxista della sinistra - «Le idee dominanti di ogni epoca sono sempre state le idee della sua classe dominante» - e che era noto, per quanto indubbiamente non esplicitato, ancor prima di Marx.
Ma la società borghese odierna, grazie ai progressi prima inimmaginabili nel campo delle comunicazioni e della tecnologia, ha conseguito un controllo ancor più inimmaginabile sul pensiero delle persone. È quella che Edward Herman e Noam Chomsky hanno acutamente definito «la fabbrica del consenso».
Vi sono - e vi saranno sempre - delle forme di resistenza a questo conformismo, a questo tentativo di ipnosi di massa. Dai tempi di Marx questa resistenza si è perlopiù indirizzata contro la classe dominante, che allora veniva quasi universalmente identificata con la classe capitalista e con i suoi cortigiani.
Due eventi tra loro correlati, tuttavia, hanno modificato la natura di questa resistenza. Il primo è stato la dissoluzione dell'Unione Sovietica e il venir meno del suo ruolo di modello alternativo al capitalismo. Dal 1991 in poi, l'idea di un allontanamento radicale, di una totale rottura con il capitalismo è entrata in crisi, ed è stata rimpiazzata da attacchi tattici a caratteristiche o tipologie specifiche del capitalismo: capitalismo dei disastri, capitalismo neoliberista, capitalismo razziale, capitalismo dei carburanti fossili e innumerevoli altri «capitalismi-qualcosa». I vari «qualcosa» indicano che ciò che si deve rigettare non è il capitalismo in quanto tale, bensì specifiche varianti di un sistema economico di per sé benevolo. Gli attivisti e le organizzazioni che si professano anticapitalisti non si contano, ma non ci dicono mai con che cosa vorrebbero rimpiazzare il capitalismo. Il termine «socialismo» non figura mai nella loro narrazione.
Il secondo elemento è l'arretramento della socialdemocrazia, che in passato veniva concepita come un'alternativa socialmente più egualitaria al capitalismo puro e semplice - ma un'alternativa che, paradossalmente, manteneva la classe capitalista ai vertici dell'attività economica e politica. La socialdemocrazia, un tempo assai popolare, ha abbandonato i suoi programmi intesi a riequilibrare gli effetti del capitalismo, rimpiazzandoli con illusorie promesse di maggiori opportunità legate all'implicita giustizia del mercato. Accantonati la redistribuzione della ricchezza e del reddito e lo Stato sociale, la nuova socialdemocrazia sottoscrive l'acuto principio secondo cui l'alta marea solleva tutte le barche: perciò, via libera alla marea, e che ogni barca se la cavi da sé!
Che la socialdemocrazia redistributiva classica sia non soltanto gravemente ammalata ma moribonda è stato dimostrato in modo inequivocabile dal rapido, spregiudicato e totale annientamento del programma di Jeremy Corbyn nel Partito Laburista britannico, così come dal surrettizio indebolimento dell'ala progressista del Partito Democratico statunitense messo in atto dai conservatori del partito, un processo conclusosi con la repentina capitolazione dei progressisti.
La sinistra è inoltre affetta da un'incapacità di analisi a livello di politica internazionale. Mentre il marxismo e il socialismo reale ribadivano che capitalismo e imperialismo erano intrinsecamente legati, la stragrande maggioranza della sinistra odierna inghiotte la minestra del capitalismo, identificando la giustizia sociale a livello globale con le crociate morali delle potenze capitaliste più avanzate. Questa sinistra annacquata si lascia irretire dal concetto abilmente propagandato di diritti umani - diritti strettamente legati a interessi piccolo-borghesi - e da una concezione di democrazia che è ormai da tempo distorta, classista e meramente formale.
Purtroppo, coloro i quali si lasciano sedurre da queste posizioni si schierano con gli Stati Uniti e con i loro alleati, o quantomeno li fiancheggiano, in occasione di aggressioni contro Cuba, il Venezuela, l'ex-Jugoslavia, l'Iraq, la Siria, la Libia - e oggi, segnatamente, di fronte alla guerra in Ucraina.
Per fortuna esistono settori minoritari ma determinati della sinistra che combattono ostinatamente e sistematicamente l'imperialismo delle grandi potenze, benché molto spesso lo identifichino esclusivamente con le avventure degli USA e dei loro alleati NATO. In tal modo dimenticano la tesi leninista secondo cui l'imperialismo è il prodotto inevitabile del capitalismo maturo. E tutte le potenze capitaliste, grandi e piccole, praticano l'imperialismo; sotto questo aspetto non hanno scelta. Che esse siano caratterizzate da un settore capitalista dominante oppure da un robusto settore pubblico, il capitale persegue necessariamente la propria espansione nell'ambito del sistema imperialista, in competizione con altri capitali all'interno del sistema stesso. Inevitabilmente, il capitale influenza gli Stati a livello locale, regionale, nazionale o internazionale - ovunque cioè va in cerca di profitti. E nell'era dell'imperialismo il capitale non si limita a influenzare lo Stato - tipicamente, il capitale è lo Stato. Con la fine della comunità socialista incentrata sull'Unione Sovietica, nessun luogo è più al riparo dall'infezione del capitale.
Il secolare predominio del capitalismo a base USA - a sua volta preceduto dal secolare predominio del capitalismo britannico - ha indotto alcuni a credere che la logica del capitalismo non si applichi ai Paesi i cui monopoli sono più deboli o meno numerosi, o i cui capitali finanziari sono meno integrati. In un certo senso, costoro ritengono che in quanto i capitali nazionali meno potenti non riescono a competere con successo - dal momento che hanno accesso limitato ai mercati, mancano di risorse finanziarie, sono tagliati fuori dalle risorse, e vengono ridotti mediante sanzioni, minacce o altri mezzi in una posizione di dipendenza o di subordinazione dal capitale USA e dai suoi immensi e potenti strumenti coercitivi - le loro popolazioni e i loro governi, così come le loro sgangherate imprese capitaliste, sono tutti egualmente vittime del capitalismo USA.
In realtà le popolazioni sono vittime - ma vittime del capitalismo, e non soltanto del capitalismo USA.
Nell'attuale partita imperialista della competizione capitalista, il grande vincitore è indubbiamente il capitale monopolistico statunitense - ma se così non fosse, il vincitore sarebbe qualcun altro. E se un'altra grande potenza statale capitalista e monopolista sostituisse gli USA, tutti gli altri ne uscirebbero in un modo o nell'altro perdenti. È questa la caratteristica fondamentale della competizione capitalista, sin dai suoi esordi - è il cuore stesso del capitalismo.
Certo, il capitalismo USA e la sua natura predatoria vanno denunciati e combattuti. Le popolazioni europee devono capire che i sacrifici che vengono loro richiesti per proseguire la guerra in Ucraina rappresentano un'estorsione da parte del capitalismo USA, il cui piano è strappare alla Russia il mercato energetico europeo.
Ma le sofferenze che gli europei dovranno sopportare a causa dell'inflazione rampante e della recessione provocata dai loro governi vanno imputate al sistema capitalista in sé, non all'impero USA.
La tragedia che si va consumando in Europa è una conseguenza della competizione imperialista, delle alleanze imperialiste e dell'instabilità del capitalismo, nessuna delle quali può essere completamente sconfitta senza un attacco su scala globale al capitalismo e senza la sua sostituzione con un sistema sociale cooperativo e non basato sul profitto.
Il capitalismo, lo sfruttamento e l'oppressione che ne deriva sono all'origine della miseria e delle sofferenze che affliggono un mondo che produce una ricchezza senza precedenti - una ricchezza sufficiente a eliminare gran parte delle sofferenze sopportate dal genere umano.
Quando la sinistra dimentica il legame implicito tra capitalismo, imperialismo e guerra, finisce tragicamente per schierarsi da una parte o dall'altra nel conflitto in Ucraina. Lenin, che meglio di chiunque altro evidenziò questo legame, invocò la fine di tutte le guerre imperialiste - oppure, qualora la guerra scoppiasse, la sua trasformazione in guerra civile finalizzata al rovesciamento del capitalismo; non riteneva vi fossero alternative per la classe operaia e i suoi interessi.
Pensiamo all'Iran. Oggi vediamo come le recenti rivolte in Iran vengano presentate come una rivoluzione femminista per la liberazione delle donne iraniane dalla tirannide di una polizia custode della morale; possiamo considerare queste manifestazioni di opposizione come un segnale dell'inquietudine di settori oppressi sul piano sia religioso sia nazionale; e possiamo a buon diritto diffidare dell'azione dissimulata e sempre presente di forze esterne ostili che operano per creare un regime più docile - in particolare, i servizi di sicurezza USA.
Ma il quadro non sarebbe completo se non si tenesse conto della questione di classe - la questione della diseguaglianza sociale sotto il capitalismo. L'Iran odierno presenta una diseguaglianza sociale paragonabile a quella degli Stati Uniti (dati della Banca Mondiale). I dati relativi all'Iran indicano che il 10% più povero della popolazione riceve il 2% del PIL, mentre il 10% più ricco se ne accaparra il 31%. L'Iran è duramente colpito dagli effetti negativi del capitalismo globale, come l'inflazione rampante.
È vero che l'economia iraniana è vittima dell'aggressione economica da parte degli USA e dell'UE, aggressione che va combattuta; ma in ultima analisi, i nemici del popolo sono il sistema capitalista e i suoi fautori. La sinistra deve rendersi conto di questa realtà e sostenere e incoraggiare la resistenza del popolo iraniano contro il capitalismo e tutte le sue manifestazioni. La solidarietà con la classe operaia non è negoziabile.
Per decenni la sinistra ha sperimentato una «ritirata dalla classe», per citare l'acuta definizione di Ellen Meiskins Wood. In questa fase, la sinistra non deve commettere errori di analisi. Deve arrestare questa ritirata e riconoscere il nemico - il capitalismo.
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