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Uno sguardo tardivo alla crisi ambientale

Greg Godels | zzs-blg.blogspot.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

25/10/2023

«Quando io uso una parola» disse Humpty Dumpty con un certo sdegno, «quella significa ciò che io voglio che significhi - né più né meno».
«La questione è» disse Alice, «se lei può costringere le parole a significare così tante cose diverse».
«La questione è» replicò Humpty Dumpty, «chi è che comanda - ecco tutto».
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio

È ampiamente riconosciuto che la nostra crisi ambientale globale stia raggiungendo una fase cruciale; i segnali di pericolo lampeggiano quasi ogni giorno. Eppure, i numerosi eventi climatici catastrofici attribuibili ai danni critici subiti dall'ambiente vengono accolti con una sorta di atteggiamento di sufficienza. La gente non ha difficoltà a parlare di apocalisse climatica, e al tempo stesso tutto continua come al solito.

Si tratta di fatalismo? Vi sono pesanti sacrifici da fare per salvare il pianeta? Vi sono ostacoli insormontabili che impediscono di individuare le soluzioni? Siamo già oltre il punto di non ritorno?

Questi sono interrogativi ai quali è urgente dare risposta.

La verità è che alcuni esponenti della sinistra si interessano a questi problemi e suonano l'allarme da decenni. Alcuni di noi tuttavia, pur ammettendo che la crisi esiste, hanno soltanto finto di interessarsi alle sue soluzioni, trascurando di inquadrarle nella prospettiva che soltanto il marxismo è in grado di offrire. Analizzare la crisi nell'ottica della classe e dello sfruttamento non può che offrire una comprensione ben più profonda del sensazionalismo e della superficialità dei media capitalisti e dei loro «esperti».

Mea culpa.

Personalmente, spero di aver iniziato a fare ammenda acquistando una copia del numero di luglio-agosto del Monthly Review, dedicato all'analisi della crisi ambientale in un'ottica di sinistra e filo-marxista. Il volume (volume 75, numero 3), intitolato Planned Degrowth: Ecosocialism and Sustainable Human Development (Decrescita programmata: eco-socialismo e sviluppo umano sostenibile), contiene undici contributi, più un importante ed essenziale saggio introduttivo firmato da John Bellamy Foster. È già da qualche tempo che Foster si adopera proficuamente nel campo dell'eco-socialismo. Consiglio vivamente la lettura di questo numero della rivista.

La reazione popolare al disastro ambientale in corso si può inserire in gran parte nell'ambito di un ambientalismo culturale. I suoi fautori invocano un cambiamento dei modelli di consumo, con l'abbandono dei prodotti la cui produzione, riproduzione o eliminazione arreca maggiori danni alla terra, all'acqua o all'aria. Alcuni ambientalisti culturali invocano un taglio radicale e generalizzato ai consumi, insistono per un'eliminazione dei consumi eccessivi o si spingono sino a mettere in discussione sul terreno filosofico il concetto stesso di consumismo, così dominante nelle società capitaliste.

Ma da solo, l'ambientalismo culturale non è in grado di misurarsi adeguatamente con le istituzioni che favoriscono o causano le emissioni inutili di ossido di carbonio, gli sprechi insensati e l'esaurimento di risorse preziose - istituzioni quali gli eserciti, gli apparati di sicurezza, i sistemi giudiziario e penale, l'apparato delle vendite e del marketing, l'intrattenimento di massa eccetera. E non mette nemmeno in discussione il capitalismo in sé.

A livello globale, se soltanto fossero state conservate le risorse stanziate per le guerre, la ricchezza sociale andata distrutta nei conflitti del passato e le risorse assorbite dalla necessità di fare fronte alle morti e alle sofferenze da esse causate, oggi la resa dei conti con la catastrofe sarebbe più lontana di innumerevoli anni. E anche soltanto l'eliminazione dei bilanci militari gonfiati di oggi e la cessazione delle guerre in corso basterebbero ad attenuare notevolmente gli effetti immediati della crisi.

Gran parte degli ambientalisti culturali liberali e socialdemocratici ignorano queste istituzioni profondamente radicate nell'infrastruttura capitalista, e optano invece per campagne intese a eliminare o a riciclare le merci che consumano la maggiore quantità di energia - lattine, bottiglie, sacchetti di plastica e via dicendo - o a demandare la questione alla palude impenetrabile della politica borghese, dei processi decisionali parlamentari e delle norme statali.

Il cosiddetto Green New Deal, l'approccio basato sull'adesione volontaria promosso dai tecno-ambientalisti, promette di ristrutturare il capitalismo premiando i cambiamenti positivi nella produzione e nell'uso dell'energia e sanzionando nel contempo le imprese che puntano i piedi o cercano di svicolare. L'attuazione del piano dipende dalla volontà dei fantocci politici del potere delle imprese - il ceto politico, insomma. Nemmeno il tecno-ambientalismo, quindi, mette sostanzialmente in discussione il capitalismo e le sue istituzioni.

Gli autori dei contributi al numero monografico del Monthly Review sono più o meno consapevoli dei limiti dell'approccio liberale-socialdemocratico. Sono consapevoli del fatto che il capitalismo, nella sua insaziabile sete di accumulazione, non è in grado di affrontare la sfida della catastrofe ambientale. Questa realtà pervade tutti i contributi a Planned Degrowth. Tra gli autori, tuttavia, non vi è molto accordo su come superare il capitalismo (tra tutti è Ying Chen a pronunciarsi con maggior forza per una solida economia socialista pianificata, autenticamente indipendente dal modo di produzione capitalista).

La composizione di queste divergenze è resa ancor più ardua dagli equivoci e dalla confusione che circondano i due concetti centrali - pianificazione e decrescita.

A quasi tutti gli autori dei contributi va riconosciuta la consapevolezza del fatto che le forze del mercato, da sole, siano incapaci di salvare il genere umano dalla catastrofe che lo attende. Inoltre, è inevitabile che l'alternativa ai mercati sia una qualche forma di pianificazione economica - una qualche forma di processo decisionale umano consapevole. Già questo rappresenta una presa di distanza dal flirt della sinistra post-sovietica con i meccanismi del mercato e il socialismo di mercato; e si tratta senz'altro di una presa di distanza positiva, che apre la strada a un socialismo più robusto. Ma quale forma dovrebbe assumere la pianificazione? Chi dovrebbe elaborare i piani?

Foster indica correttamente la causa del disastro ambientale nell'insaziabile pulsione dei capitalisti: «accumulare! accumulare!», per riprendere la succinta sintesi di Marx. Di conseguenza, la sfida sta nell'organizzare l'economia in funzione dell'utilità sociale, invece che del profitto: «concentrarsi sul valore d'uso invece che sul valore di scambio», nell'espressione usata da Foster.

È ovvio che per contrapporre il valore d'uso al valore di scambio a vantaggio del primo occorre una qualche via d'uscita dal meccanismo del mercato e un passaggio a un meccanismo diverso per lo stanziamento delle risorse: il processo decisionale umano consapevole, cioè la pianificazione.

Si tratta di un'eccellente e convincente argomentazione a favore di una qualche forma di pianificazione.

Purtroppo, la maggior parte degli autori dei contributi tende a trascurare la copiosa esperienza in fatto di pianificazione offerta nel corso del Novecento dall'ormai defunta comunità socialista europea. Tra i marxisti accademici occidentali (o marxiani, come talvolta amano farsi chiamare) è di moda riversare disprezzo sul meccanismo sovietico di pianificazione centralizzata nelle sue varie incarnazioni, a dispetto dei suoi relativi successi - raggiunti, tra l'altro, senza l'ausilio delle sbalorditive capacità di calcolo dei moderni computer. Fatta eccezione per Paul Cockshott e per alcuni suoi colleghi, questi ambienti sono scarsamente interessati a esplorare come sarebbe possibile ottimizzare un meccanismo di pianificazione analogo utilizzando le tecnologie oggi disponibili.

A Foster va riconosciuto il merito di offrire una difesa, seppur assai modesta, della pianificazione sovietica, specie in relazione al suo impatto sull'ambiente. Altri, tuttavia, ammettono la necessità di una pianificazione senza peraltro indicare nemmeno sommariamente come questa dovrebbe essere attuata.

Anzi, diversi autori riesumano il vetusto feticcio della Nuova Sinistra, la democrazia partecipativa, come a dire: più sono le mani che impastano la torta della pianificazione, meglio è - a prescindere dai risultati. Questo approccio raggiunge i confini dell'assurdo quando la comune rurale venezuelana viene proposta come modello di un meccanismo di pianificazione in grado di salvare l'economia mondiale dagli artigli della crisi ambientale - una fantasia utopistica.

L'altra ossessione dei marxisti occidentali è il decentramento. Si direbbe che il modello politico prediletto dalla sinistra nordamericana ed europea sia quello del cantone svizzero, il Landsgemeinde, che combina unità politiche quanto più ridotte possibile con la forma di democrazia più diretta. Per convincersi che una pianificazione decentrata di questo genere possa riorientare con successo una gigantesca economia moderna strappandola alla tirannide dei mercati occorre un investimento di fede straordinario (come osserva eufemisticamente Nicolas Graham, «...è alquanto difficile immaginare una pianificazione efficace... in assenza di un'autorità coordinatrice di qualche genere, di un arbitro esterno»).

Anche l'altra idea centrale di Planned Degrowth, la decrescita, viene elaborata in modo insufficiente. Il concetto prende le mosse dalla catastrofe imminente citata da Foster e implicitamente da tutti gli autori:
    L'opinione unanime della scienza mondiale, rappresentata dal Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico dell'ONU (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC) ha stabilito che in questo secolo sarà indispensabile mantenere al disotto di 1,5 gradi centigradi l'aumento delle temperature medie del pianeta rispetto ai livelli pre-industriali - o in ogni caso, assumendosi però un livello di rischio estremamente più alto, «ben al disotto» dei 2 gradi - per evitare che la destabilizzazione climatica rischi di minacciare una catastrofe assoluta... Il raggiungimento di questo risultato dipende dalla riduzione allo zero netto (di fatto allo zero assoluto) delle emissioni di carbonio entro il 2050; la probabilità di non superare il limite delle temperature è quindi del 50%.
Di fronte a limiti del genere, è ovvio che la maggior parte di noi si renda conto che, in un modo o nell'altro, non possiamo avere la botte piena e la moglie ubriaca. In altre parole, la crescita delle emissioni di carbonio, la crescita dei consumi, e più in generale la crescita del PIL finalizzata alla crescita dei consumi o alla crescita della popolazione, e tutte le altre forme di crescita che potrebbero implicare un aumento delle emissioni di carbonio, non possono essere sostenute simultaneamente senza minacciare l'esistenza stessa della vita sul pianeta.

Ma non è fuorviante, semplicistico e forse perfino dannoso propagandare la decrescita in generale come soluzione alla sfida mortale lanciata dai limiti delle emissioni di carbonio? Esistono altri tipi di «crescita» - caratterizzate da emissioni minime, emissioni neutre o perfino zero emissioni - in grado di evitare la resa dei conti con il disastro climatico? Una crescita economica pianificata, slegata dal mercato, non basterebbe a evitare questa resa dei conti? Non è possibile immaginare un'economia socialista pianificata di crescita capace di arrestare o invertire l'aumento delle emissioni?

In un'ottica storica marxista, la crescita delle forze produttive della società non è necessariamente associata a un'economia anarchica, sfrenata e guidata dal profitto, e storicamente non è stata sempre associata a essa. Per contro, il parametro prediletto dal capitalismo per misurare la crescita - il prodotto interno lordo - rispecchia tale associazione: nell'era del capitalismo industriale, la crescita (il PIL), la ricchezza nazionale, lo sfruttamento sfrenato dell'energia basata sul carbonio e lo sfruttamento della manodopera sono legati tra loro in modo indissolubile.

Per i marxisti questo legame non è affatto necessario. Una volta liberata dagli usi dannosi della ricchezza sociale finalizzati al predominio di classe, allo sfruttamento di classe e all'accumulazione senza fine, la crescita può essere definita in modo nuovo - come miglioramento illimitato di tutta la vita umana, in termini sia qualitativi sia di prospettive. Per esempio, lo sviluppo dei vaccini per il Covid o per futuri attacchi di nuovi virus richiede un ulteriore sviluppo di forze produttive e rappresenta una crescita della ricchezza sociale, che tuttavia avrebbe un impatto molto minore sull'ambiente se intrapresa al difuori della cornice del sistema capitalista guidato dal profitto.

Ne L'ideologia tedesca, Marx ed Engels ci offrono una prospettiva diversa sulla crescita, collegando direttamente lo sviluppo delle forze di produzione alla prosperità e al miglioramento delle capacità di sopravvivenza del genere umano di fronte alle sfide sempre nuove lanciate dalla natura e da altri esseri umani. Ci rammentano che il modo di produzione non è semplicemente ciò che la gente produce, ma come lo produce. Che le sfide sempre presenti e in evoluzione possono, in determinati momenti, rendere necessaria la «crescita», ma una crescita priva di emissioni di carbonio, sprechi, eccessi, inefficienza e avidità. È quindi necessario elaborare una concezione nuova, umana della crescita e della produzione.

Foster si avvicina a cogliere questa possibilità quando opera una distinzione tra «il senso quantitativo e il senso qualitativo» delle forze produttive. Sembra tuttavia sfuggirgli che l'espansione qualitativa delle forze produttive potrebbe assumere anche un carattere di produzione qualitativa, una produzione indipendente dai combustibili fossili, dalle emissioni di carbonio e dal degrado ambientale - produzione di nuove idee, di nuovi modelli di vita, di una nuova divisione del lavoro e via dicendo. Questa sarebbe una concezione di crescita più accurata e di gran lunga più utile della definizione di prodotto interno lordo usata dalla BEA o dall'OCSE, a cui la decrescita fa riferimento.

Gli autori di due dei contributi, Isikara e Narin, liquidano rapidamente il valore esplicativo della seconda legge della termodinamica in campo sociale. Essa, tuttavia, inquadra perfettamente la lotta fondamentale che soltanto gli esseri umani ingaggiano - con successi in ultima analisi limitati, eppure straordinari - con la tendenza al disordine di un sistema. Lo sviluppo delle forze produttive è stato - in termini qualitativi o quantitativi - la principale reazione efficace degli esseri umani a questa legge, la legge dell'entropia. L'idea della decrescita, tanto affascinante quanto superficiale nella sua semplicità, non tiene conto di questa lotta universale. La crisi ambientale non è che l'ultimo capitolo della lotta perpetua contro l'estinzione delle specie. E come nelle lotte precedenti, occorrerà uno sviluppo (e, in senso generale, una crescita) delle forze produttive per riportare una vittoria - per quanto temporanea, dato l'inevitabile disordine dei sistemi chiusi.

Il principale ostacolo a una soluzione giusta e praticabile della crisi ambientale è rappresentato forse dalle enormi diseguaglianze che esistono all'interno dei Paesi capitalisti e tra i Paesi capitalisti avanzati e meno avanzati. Al di là del fiacco mantra della decrescita, qualunque soluzione immediata alla crisi richiederà limitazioni alle emissioni di carbonio, limitazioni destinate a gravare ingiustamente sui soggetti più svantaggiati se non verrà imposta una qualche forma di redistribuzione compensatoria - mediante un'azione attiva a livello nazionale e globale. In altre parole, se saranno necessari sacrifici, essi dovranno essere imposti in modo equo. Non si può imporre e nemmeno chiedere a un Paese povero o a una popolazione povera di compiere sacrifici uguali a quelli richiesti a un Paese ricco o alle élite benestanti. E ciò che più conta, il loro sviluppo - il recupero del loro «ritardo» - non può essere rimandato mentre arrancano dietro ai loro omologhi più ricchi. Nei loro contributi, Jason Hickel e Dylan Sullivan offrono una persuasiva argomentazione storico-empirica a sostegno dell'idea che il capitalismo non sarà mai in grado di rispondere a questa necessità.

L'unico programma di azione attiva su larga scala mai messo in atto concretamente fu, dopo il secondo conflitto mondiale, la collaborazione tra i Paesi socialisti coordinata dal Consiglio di Mutua Assistenza Economica, noto in Occidente come COMECON. Il COMECON si fondava sulla dottrina leninista e sulla storia dell'investimento intensivo di risorse attuato dai sovietici nelle regioni dell'ex-impero russo abitate da nazionalità oppresse e svantaggiate. Consapevole dello sviluppo ineguale prodotto e riprodotto dalla società di classe, l'Unione Sovietica aveva stanziato una proporzione molto maggiore di risorse a beneficio delle repubbliche costituenti più «arretrate» rispetto a quanto investito nella più avanzata Repubblica Russa.

Il COMECON procedette a proseguire questa politica all'interno della comunità socialista postbellica. Per esempio, l'Unione Sovietica offrì a Cuba un accordo per la fornitura di petrolio a lunga scadenza applicando il prezzo di mercato più basso del periodo precedente, accettando nel contempo di acquistare quantità prefissate di zucchero al prezzo di mercato più alto dello stesso periodo. Inoltre, l'Unione Sovietica concesse al partner più povero condizioni di pagamento favorevoli e dilazionate. Si noti che la produzione sovietica di barbabietole sarebbe stata più che sufficiente a coprire la domanda sovietica di zucchero, e a un prezzo inferiore. Contemporaneamente, l'Unione Sovietica forniva finanziamenti e prestiti a lungo termine e a basso interesse per lo sviluppo delle infrastrutture e delle industrie cubane.

Questo accordo, come la maggior parte degli accordi interni del COMECON, esemplifica un'azione attiva su vasta scala intesa a correggere lo sviluppo ineguale.

Dal momento che il capitalismo non ha mai conosciuto e nemmeno concepito un simile approccio egualitario e perequativo allo sviluppo nelle questioni internazionali, e che oggi nessun Paese lo pratica (a parte Cuba socialista, che lo fa con generosità ma con risorse limitate), la necessità di un'azione attiva a livello globale per l'ambiente dovrebbe rappresentare una potente argomentazione a favore del socialismo tra gli attivisti di sinistra.

Ma i socialisti europei e nordamericani, fedeli alla tradizione del marxismo occidentale, non salvano praticamente nulla della storia dell'Unione Sovietica - e così questa argomentazione compare assai di rado.

Ciò non significa che gli autori dei contributi a Degrowth Planning non siano consapevoli delle diseguaglianze che impediscono qualunque risposta equa e giusta alla crisi ambientale. Foster è esplicito: «Al tempo stesso, ai Paesi più poveri con un'impronta ecologica più bassa deve essere consentito di svilupparsi nell'ambito di un processo generale che implichi una contrazione del volume di produzione di energia e di materiali nei Paesi ricchi e una convergenza del consumo pro-capite in termini fisici nel mondo nel suo insieme».

Ma ciò che manca in tutti i contributi degli autori è il soggetto dell'azione. Chi si farà carico di queste sfide? Chi adotterà un programma che tenga conto di queste considerazioni? Chi costruirà un movimento atto a portare avanti un programma?

Sarebbe ingeneroso imputare ai dodici accademici che hanno contribuito a questo numero della rivista la mancanza di risposte pronte a questi interrogativi. Nondimeno, perché la teoria abbia un senso occorrono risposte pratiche (Isikara e Narin sfiorano la questione, trattandola però in un linguaggio accademico inutilmente oscuro) che evitino le derive utopistiche. Troppo spesso gli intellettuali espongono le loro teorie in forma impersonale: «Ciò che è oggettivamente necessario a questo punto della storia dell'umanità è dunque una trasformazione rivoluzionaria... governare la produzione, il consumo e la distribuzione... un abbandono del sistema del capitale monopolistico, dello sfruttamento, dell'esproprio, dello spreco e dell'infinita spinta all'accumulazione».

D'accordo - ma chi dovrebbe fare tutto questo, e come?

È più facile dire chi non lo farà! Ma di certo si converrà che abbiamo bisogno di un partito rivoluzionario di classe impegnato a dare vita a un robusto socialismo e a strappare il potere politico ed economico dalle mani della classe capitalista. Non dobbiamo forse impegnarci attivamente a tale scopo, se vogliamo evitare il nostro appuntamento con la catastrofe?

Malgrado queste riserve, consiglio vivamente la lettura del numero speciale del Monthly Review dedicato alla crisi ambientale, intitolato Planned Degrowth: ecosocialism and sustainable human development.



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