Tensione nei mari della Cina
di Higinio Polo - La vecchia talpa
10/12/2012
La geografia ha sempre determinato una parte dell'orizzonte e del destino dei grandi paesi della terra. In questo XXI secolo, il costante rafforzamento cinese è assunto come inevitabile per la maggior parte del mondo e si è trasformato nella principale preoccupazione strategica degli Stati Uniti.
Tra i molti aspetti dove si dirime la rivalità delle due principali potenze mondiali, dalla loro posizione economica e alle loro risorse, fino alla loro forza militare, emerge, per importanza, l'accesso ed il controllo delle rotte commerciali e la capacità di ogni paese di ostacolare lo sviluppo del proprio rivale. Tale questione è legata anche all'approvvigionamento di idrocarburi, alla capacità di esportare e aprire nuovi mercati, al mantenimento della stabilità politica in molte zone sensibili e al disegno di una strategia militare che, per gli Stati Uniti, si incentra su ciò che è chiamato "ritorno all'Asia" (*) e con un'ansia poco dissimulata, ostacolare l'ascesa cinese. Infatti, gli Stati Uniti hanno estese coste marittime sui due grandi oceani e un facile accesso a tutte le rotte commerciali, tanto nell'Atlantico come nel Pacifico. La Cina, invece, benché conti su altri vantaggi, non dispone di una costa marittima simile e la sua parte più orientale è bagnata da tre mari minori, benché non disprezzabili. Ha, inoltre, una maggiore difficoltà all'accesso ai mari aperti e alle acque internazionali per la presenza di numerosi paesi sulla sua frontiera marittima e potenziali rischi per la rete dei trattati militari che uniscono i paesi della zona con gli Stati Uniti.
Per questo motivo, non è un caso che alcuni dei contenziosi storici (che risalgono al XIX secolo) per il dominio di isole e territori della costa marittima cinese, si stiano riattivando. Lo scorso aprile, durante il vertice dell'ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), celebrato a Phnom Penh, il presidente delle Filippine, Benigno Aquino, ha proposto che l'organizzazione adottasse un accordo mondiale sulle controversie nel Mare della Cina Meridionale prima di negoziare con Pechino. Il suo obiettivo, secondo le sue parole, era giungere ad accordi che ponessero fine ai contrasti tra i paesi costieri. Tuttavia, dietro la sua iniziativa si nascondeva il duro lavoro della diplomazia nordamericana che, da mesi, boicottava la pretesa di Pechino di negoziare bilateralmente le dispute, mentre Washington si postulava come "mediatore". La funzione di "mediatore" gli avrebbe permesso di svolgere un ruolo da protagonista in una delle aree economiche più importanti del mondo, oltre ad essere presente in tutte le trattative ed aumentare la sua influenza nel sud-est asiatico. L'ASEAN è composta da Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam ed accoglie la Cina come paese osservatore. La questione è molto rilevante: il Mare della Cina Meridionale abbraccia un'area notevolmente più grande di quella del Mar Mediterraneo e si è trasformata in uno dei mari con maggior transito commerciale del mondo. La posizione ufficiale adottata dall'organizzazione è che i problemi devono discutersi tra i paesi coinvolti, il che rende difficile l'intervento diretto nordamericano. Con la contrarietà di Washington, solo due paesi, Filippine e Vietnam, si sono mostrati ricettivi alle sue rivendicazioni e disposti ad affrontare diplomaticamente la Cina.
Qual è il problema? In fondo, si discute la sovranità di ampie zone marine, con le ricchezze che contengono e, inoltre, il controllo delle rotte marittime. Le Filippine hanno reclamato la sovranità sulle isole Huangyan, dove pescherecci cinesi sono stati oggetto dell'inseguimento di motovedette militari filippine alla fine dello scorso aprile. Si tratta di un gruppo di piccole isole reclamate anche dalla Cina e Taiwan. Inoltre, le isole Paracelso, controllate dalla Cina, sono reclamate anche da Taiwan e dal Vietnam. Poi ci sono le Spratly, quasi un centinaio di piccole isole rivendicate da Taiwan, Cina, Malesia, Filippine e Vietnam e perfino Brunei, che pretendono di estendere la loro sovranità su questi scogli. La questione non è secondaria se si pensa che la zona economica attorno all'arcipelago Spratly abbraccia un'area di più di settecentomila chilometri quadrati, con accesso alla possibile ricchezza peschiva e sottomarina che suppone il suo possesso. Nello stesso agosto dove affiorarono di nuovo, con più durezza, le rivendicazioni, la diplomazia cinese ha ottenuto che Indonesia, Brunei e Malesia si avvicinassero alle sue posizioni, insistendo sulla negoziazione tra le parti e mettendo in velata allerta sulla pretesa nordamericana di intervenire in quei negoziati.
Ma questa non è l'unica zona su cui si avanzano pretese. Fuori dall'area del Mare della Cina Meridionale, benché molto vicino a Taiwan, si trova un altro punto di conflitto, potenzialmente molto pericoloso. Infatti ad agosto, ha avuto inizio la crisi sulle isole Diaoyu (o Senkaku per il Giappone) vicine ad Okinawa, dove Tokyo permette l'esistenza di una delle principali basi militari nordamericane. Le isole, storicamente cinesi, erano sotto il controllo degli Stati Uniti al termine della Seconda Guerra Mondiale e, con la fine dei trattati che conclusero la guerra, sarebbero dovute essere restituite alla Cina, ma nel 1972 furono trasferite al Giappone. Gli Stati Uniti difendono la sovranità giapponese, benché Pechino non abbia smesso mai di reclamare il suo diritto su esse. Taiwan appoggia Pechino nella rivendicazione della sovranità cinese, benché, nel suo caso, come è logico, per la Repubblica della Cina, come si denomina ufficialmente Taiwan. La crisi ha reso Cina e Taiwan più vicine nelle loro posizioni, unite nelle lotte contro il Giappone e nella rielezione del presidente taiwanese, Ma Ying-Jeou, presidente del vecchio Kuomintang, non ha esitato ad inviare navi nelle isole Diaoyu-Senkaku per appoggiare la rivendicazione.
L'esplosione della crisi ha avuto un sorprendente esito: agli inizi di settembre 2012, l'iniziativa del governatore di Tokyo (Shintaro Ishihara, un noto anticomunista e razzista che nega anche l'evidenza storica delle stragi agghiaccianti che ebbero come protagonista il fascismo giapponese in Cina) per comprare tre delle isole Diaoyu-Senkaku ai suoi proprietari privati giapponesi, otteneva, di fatto, l'annessione delle isole al suo territorio nazionale. A nessuno era sfuggito che una decisione di quell'importanza avrebbe infiammato immediatamente gli animi a Pechino e che non si poteva effettuare senza l'accordo del governo giapponese e, subito dopo, di Washington. Shintaro Ishihara è un estremista di destra incline alla provocazione e l'avventurismo, ma la sua iniziativa avrebbe potuto essere fermata dal primo ministro Yoshihiko Noda, a meno di un tentativo calcolato per far pressione sulla Cina a non mediare, negando coi fatti la scommessa per disattivare le dispute che ufficialmente difendono Tokyo e Washington.
La decisione giapponese è stata la scintilla che ha fatto esplodere le proteste di massa contro il Giappone in numerose città cinesi, dove il sentimento antigiapponese continua ad essere molto forte: non si deve dimenticare che durante la Seconda Guerra Mondiale, l'azione del governo fascista giapponese che occupò buona parte della Cina fu tanto sanguinaria e criminale quanto l'occupazione nazista in Europa, aggressione che incluse la costruzione di campi di concentramento, la realizzazione di esperimenti medici su prigionieri cinesi, la schiavitù di migliaia di donne destinate alla prostituzione nei campi giapponesi, l'utilizzo di armi chimiche e la pianificazione di mostruosi massacri come quella di Nanchino. L'invasione giapponese della Cina portò alla morte di venti milioni di cinesi, quindi non deve stupirci la grande sensibilità cinese sulla questione, di cui Tokyo come Washington, sono ben consapevoli.
Proteste hanno avuto luogo anche in Giappone, portando il conflitto ad un pericoloso punto di frizione. Il 22 settembre si è celebrata a Tokyo una manifestazione di massa contro la Cina, spinta da settori nazionalisti e conservatori, mentre il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda pretendeva praticamente di rivedere gli accordi del dopoguerra riguardanti la negazione dei diritti cinesi sulle isole e accusava Pechino che la sua recriminazione avesse come oggetto l'impadronirsi degli ipotetici giacimenti di idrocarburi nella zona… fingendo che Tokyo agisse senza interesse alcuno. In realtà, la rivendicazione cinese è giusta perché, come stipulato alla Conferenza del Cairo, celebrata nel 1943 e dove intervennero Roosevelt, Churchill e Chiang Kai-shek per discutere la posizione comune rispetto al Giappone e gli accordi successivi a Postdam, si limita la sovranità giapponese alle quattro grandi isole principali dell'arcipelago nipponico e ad altre minori successivamente determinate, sebbene, nel clima successivo alla guerra fredda, gli Stati Uniti trasferissero unilateralmente le isole Diaoyu-Senkaku al Giappone sconfitto trasformato a forza nel suo alleato. Pertanto sulla base degli accordi che posero fine alla Seconda Guerra Mondiale, il ministro degli Affari Esteri cinese, Yang Jiechi, espose nella 67ma sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la posizione del suo paese, aperta ai negoziati con Tokyo, ma ferma nella difesa della sovranità cinese sulle isole.
È ovvio che la nuova ripresa dei conflitti nelle vicinanze della Cina, non è casuale: obbedisce al nuovo orientamento della politica estera nordamericana, definita da Obama come il "ritorno all'Asia." Dopo avere attizzato gli animi, con logora ipocrisia, Leon Panetta, segretario della Difesa nordamericano, dichiarava durante la sua visita a Tokyo di settembre, che il suo paese "era preoccupato per la controversia tra Giappone e Cina", mentre proclamava la supposta neutralità del suo paese nel conflitto, offrendosi come mediatore e protagonista nella zona. Neanche è casuale che alleati fedeli di Washington, come Giappone o Filippine, ambedue con importanti basi militari nordamericane, abbiano riattivato le polemiche marittime. L'atteggiamento del Vietnam, che ha appoggiato il punto di vista di Manila e di Tokyo, obbedisce tanto al suo interesse a migliorare le proprie relazioni economiche e politiche con gli Stati Uniti, tanto alla sua sfiducia storica verso la Cina, anche se entrambi i governi hanno mantenuto la stessa posizione ideologica.
Le nuove tensioni non riguardano solo le aspirazioni di vari paesi verso il dominio di alcune isole: bisogna ricordare che la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare stabilisce in 200 miglia marine (circa 370 km) tra acque territoriali e "zona economica esclusiva", l'estensione marittima che può controllare uno Stato e tale criterio si applica anche alle aree che circondano le isole. Ciò è anche in relazione allo sfruttamento delle risorse marine, della pesca e del sottosuolo, col controllo delle rotte marittime e, nel caso della Cina, con la pretesa nordamericana di contenere il potenziale cinese sulla sua costa, attraverso la sua rete di Stati clienti ed alleanze militari. Cina che, nonostante le sue grosse dimensioni, dispone di coste solo su tre mari: il Mare Giallo, il Mare della Cina Orientale e il Mare della Cina Meridionale: insieme formano un'area di circa quattro milioni e mezzo di chilometri quadrati che bagnano coste e isole di quattordici paesi che si spartiscono la giurisdizione marittima e disputano le diverse aree. E' per questo che il possesso di isole e isolotti ha grande importanza strategica. La Cina appare circondata dalle acque territoriali di molti paesi e dispone di una "zona economica esclusiva" nei mari della sua costa che non arriva al milione di chilometri quadrati. Il Giappone, invece, domina un'estensione marina cinque volte maggiore. Inoltre, Washington possiede Guam, la maggiore delle isole Marianne, acquisita dopo la guerra del 1898 con la Spagna, mentre il resto delle Marianne formano uno "Stato libero associato" con gli Stati Uniti, che mantiene anche legami con Palau. Quella presenza nordamericana, di enorme importanza politica e militare, si proietta sulla costa cinese ed è utilizzata per trattenere, per quanto possibile, l'espansione dalla marina commerciale cinese, al di là delle proprie acque territoriali. Utilizzando un doppio linguaggio, Washington, che negli incontri dell'ASEAN insiste sulla "libertà di navigazione" nel Mare della Cina Meridionale, pretende di limitare l'accesso della Cina ai mari aperti e alle acque internazionali attraverso quella rete di alleanze militari con i paesi della zona, soprattutto col Giappone, Corea del Sud e Filippine, ostacolando l'aumento delle rotte marittime utilizzate dai cinesi nel loro commercio estero.
A Washington non è sfuggito che l'esistenza di potenziali punti critici nelle prossimità della Cina, crea uno scenario di instabilità che può limitare la crescita cinese, costringendo Pechino a dedicare parte delle sue energie e risorse a tali questioni. I punti di frizione sono rilevanti: in Corea, la questione nucleare nel Nord e le basi militari nordamericane nel Sud, che si uniscono alla mancanza di un trattato di pace che risolva finalmente la guerra del 1950; in Giappone, le liti storiche e territoriali con la Cina; a Taiwan, il velato appoggio nordamericano all'indipendenza; per non parlare dell'intromissione statunitense in Tibet e Xinjiang sponsorizzate dai movimenti secessionisti. Senza dimenticare che il nuovo spiegamento militare nordamericano in Asia e lo sviluppo delle componenti dello "scudo antimissile" in Asia, hanno un preciso obiettivo nel disegno strategico nordamericano per contenere Pechino e limitare il rafforzamento del suo ruolo nel mondo. Sono già funzionanti impianti dello scudo ad Aomori, nel nord del Giappone e il segretario alla Difesa nordamericano, Leon Panetta, ha firmato a Tokyo, a metà settembre, l'installazione di un nuovo radar in un'isola del sud dell'arcipelago nipponico, a cui si aggiungerà un terzo radar che Washington ha previsto di installare prossimamente nelle Filippine. Se per lo "scudo" europeo la scusa per la sua attuazione è l'Iran e il vero obiettivo la Russia, in Asia, la scusa è la supposta minaccia della Corea del Nord, ma l'obiettivo evidente è la Cina.
Il nazionalismo giapponese assiste con estrema preoccupazione allo sviluppo del potere cinese e Tokyo si trova prigioniera tra i suoi desideri di aumentare gli scambi commerciali con la Cina e il suo risentimento di fronte al rinvigorimento economico e politico del suo vecchio rivale. Le ferite della Seconda Guerra Mondiale non si sono chiuse e benché la Cina insista in una politica di buon vicinato, non pensa per questo di tacere davanti a gesti che qualifica provocatori, come gli onori che continua a concedere il governo nipponico alla memoria dei criminali di guerra giapponesi sepolti nel santuario di Yasukuni, tra i quali si trova Hideki Tōjō il generale che fu uno dei principali capi militari che comandarono l'invasione della Cina e che, successivamente, diresse il governo giapponese durante la guerra. L'atteggiamento del Giappone sarebbe impensabile in Europa: la sola idea che qualsiasi governo tedesco rendesse onore alla memoria dei principali criminali nazisti, come Göring o Himmler, fa risaltare la politica poco onorevole di Tokyo, che prosegue senza fare fronte alle sue responsabilità nella Seconda Guerra Mondiale, al suo passato militarista e fascista e al fatto che il suo paese è responsabile della morte in battaglia di venti milioni di cinesi. È da sottolineare anche che il Giappone ha contrasti e rivalità con tutti i paesi limitrofi: mantiene la disputa per le Curili con la Russia, discordie con la Corea del Sud per le isole Dokdo, un gruppo di isolotti nel Mare del Giappone che Tokyo reclama e chiama Takeshima e che, in un gesto rivelatore, sono stati visitati dal presidente sud coreano, Lee Myung Bak, questa estate, oltre al contenzioso con la Cina.
Tokyo sta collaborando con la diplomazia nordamericana per riattivare le tensioni nella zona, ma gli interessi strategici della Cina e del Giappone si trovano ad approfondire legami economici con scambi che oggi raggiungono i 350.000 milioni di dollari e Pechino, a dispetto delle proteste che si sono verificate in molte città cinesi, cerca di risolvere il conflitto o perlomeno congelarlo, nell'attesa del momento giusto che permetta una soluzione negoziata. Il nuovo ruolo della Cina nel mondo, che è accompagnato da una maggiore presenza diplomatica e politica in molte zone del pianeta, alimenta gli allarmi nordamericani, ma la scommessa di Pechino per il suo sviluppo economico e mediante una politica di relazione coi suoi vicini e gli Stati Uniti basata sul "mutuo beneficio", cerca di ridurre la tensione, perché è evidente che le dispute su isole e territori in Asia per il governo cinese e l'esplosione di crisi come quella di Diaoyu-Senkaku, hanno un solo un beneficiario: gli Stati Uniti.
Sulla Conferenza del Cairo, vedere gli archivi del Dipartimento di Stato americano: http://digital.library.wisc.edu /1711.dl/FRUS.FRUS1943CairoTehran
(*) si veda "Asia, nell'anno del dragone", El viejo topo, marzo 2012 in http://www.rebelion.org/noticia.php?andate=147803