www.resistenze.org - pensiero resistente - imperialismo - 17-12-24 - n. 918

Un poco di chiarezza sull'imperialismo di oggi

Greg Godels | zzs-blg.blogspot.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

12/12/2024

La politica imperialistica non è opera di uno o di alcuni Stati, è il prodotto di un determinato grado di maturazione nello sviluppo mondiale del capitale, un fenomeno internazionale per definizione, un tutto indivisibile, che si può riconoscere in tutti i suoi vicendevoli rapporti e al quale nessuno Stato singolo può sottrarsi…  Rosa Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia (1916)
Gli scontri all'interno della sinistra sulla natura dell'imperialismo, sulla natura capitalista o imperialista della Repubblica Popolare Cinese o della Russia, sul fatto che l'onda rosa in America Latina rappresenti o meno una tendenza socialista, sul fatto che lo sviluppo dei BRICS costituisca un movimento anti-imperialista e via dicendo si fanno sempre più accesi via via che si trasferiscono in misura crescente sul terreno dell'accademia.

Questi dibattiti chiamano in causa una molteplicità di questioni e di posizioni, nonché svariati interessi particolari - teorie rivendicate con forza e da molto tempo, piattaforme di ricerca e reti di alleati intellettuali.

Oltretutto, si tratta di controversie decisamente sbilanciate - se le opinioni degli accademici si sprecano, la partecipazione della classe operaia o dei militanti è decisamente scarsa.

Detto ciò, sono comunque importanti e meritano di essere discusse.

Per cominciare a districare alcune di queste controversie può essere utile una recente intervista rilasciata da Steve Ellner a Federico Fuentes per LINKS - International Journal of Socialist Renewal. Ora, Steve Ellner è tutt'altro che un fantoccio o un bersaglio facile per una polemica. Ellner è un accademico intelligente e abile nell'analisi, con una lunga storia di appartenenza al movimento di solidarietà con l'America Latina e solidi trascorsi di sinistra. È uno che, ben più di molti suoi colleghi accademici, è incline ad affermare «Questo potrebbe significare che...» piuttosto che «Questo deve significare che...». In altre parole, non è tipo da trascurare le sfumature.

Ellner parte - com'è d'obbligo - da Lenin, e afferma che la teoria leninista è a un tempo «politico-militare» ed «economica». Questo, ovviamente, è esatto. Nel capitolo 7 de L'imperialismo, Lenin elenca cinque caratteristiche del sistema imperialista. Quattro sono di natura economica: il ruolo decisivo del capitale monopolistico, la fusione tra capitale finanziario e industriale, l'esportazione di capitali e l'internazionalizzazione del capitale monopolistico. Una è di natura politico-militare: la spartizione del mondo tra le maggiori potenze capitaliste.

Lenin non attribuisce pesi specifici a queste caratteristiche, in quanto sono tutte necessarie e sufficienti per definire l'imperialismo quale sistema emergente nel tardo Ottocento. Per Lenin l'imperialismo è una fase, non una sorta di club.

Seguendo John Bellamy Foster, direttore del Monthly Review, Ellner postula l'esistenza di due interpretazioni dell'imperialismo che, secondo alcuni, derivano da questi due aspetti dell'imperialismo stesso. Può anche essere vero che esistano due interpretazioni - ma data l'interpretazione unitaria dell'imperialismo indicata da Lenin nel capitolo 7, si tratta di interpretazioni errate del pensiero di Lenin. Se si prende atto che Lenin afferma esplicitamente di offrire una definizione «che contenga i suoi cinque principali contrassegni», la conclusione, che forse susciterà disappunto in qualcuno, è che esiste una sola interpretazione valida - un'interpretazione che coniuga gli aspetti economici con quelli politico-militari.

Ciò detto, Foster ed Ellner sono nel giusto quando valutano criticamente coloro i quali interpretano erroneamente l'imperialismo come fenomeno esclusivamente politico-militare (rivalità territoriali tra grandi potenze) o esclusivamente economico (sfruttamento capitalista). In effetti, gran parte degli equivoci sull'imperialismo, sin dall'epoca di Lenin, derivano dall'adozione di una o dell'altra di queste interpretazioni errate, e dall'incapacità di percepire l'imperialismo come sistema.

Ellner respinge garbatamente un'interpretazione politico-militare da lui collegata a Leo Pantich e a Sam Gindin: l'equiparazione dell'«imperialismo alla dominazione politica da parte dell'impero USA, naturalmente puntellata dalla sua potenza militare...». Ellner respinge questa tesi «alla luce del prestigio in declino degli USA e dell'instabilità economica globale». Un'interpretazione che separi - privilegiandolo - l'aspetto politico-militare rispetto a quello economico opera inevitabilmente una separazione tra l'imperialismo e il capitalismo - separazione che Lenin nega espressamente. Diversamente, l'imperialismo odierno - compreso quello USA - non sarebbe diverso dalle imprese di Alessandro Magno o di Gengis Khan, e lo sfruttamento ne costituirebbe tutt'al più un aspetto contingente.

Una spiegazione puramente politico-militare dell'imperialismo è tutt'altra cosa rispetto alla spiegazione ben più solida che ne dà Lenin.

Ellner prende quindi in considerazione l'interpretazione economica: «All'estremo opposto si collocano quei teorici della sinistra che si concentrano sul predominio del capitale mondiale e minimizzano l'importanza dello Stato nazionale». Il bersaglio immediato che Ellner ha in mente è la posizione espressa da William I. Robinson, Jerry Harris e altri nei tardi anni Novanta, una posizione che - cavalcando l'ondata allora montante della globalizzazione - postulava una Classe Capitalista Transnazionale (CCT) super-potente in procinto di mettere in ombra lo Stato nazionale, fino a renderlo obsoleto.

All'epoca, altri osservarono che mutamenti quantitativi rilevanti nel commercio e negli investimenti, anche di portata mondiale, si erano già registrati nel passato e non costituivano altro che una riedizione di epoche passate, in particolare dei decenni che avevano preceduto il primo conflitto mondiale. Questi mutamenti non erano forse la prosecuzione dei cambiamenti qualitativi di cui si era occupato Lenin ne L'imperialismo?

Come molte speculazioni che si spingono al di là della realtà, il previsto declino o estinzione dello Stato nazionale è stato reso irrilevante dalla marcia della storia. Le molte guerre interminabili e in espansione del XXI secolo hanno evidenziato la vitalità dello Stato nazionale come attore politico. E l'intenso nazionalismo economico generato dalle crisi economiche degli ultimi decenni segnala il decesso della globalizzazione - un fenomeno che si è rivelato essere una fase, e non un nuovo livello del capitalismo. Sanzioni e dazi sono indice di Stati nazionali tanto in buona salute quanto aggressivi.

La tempesta suscitata nel bicchier d'acqua accademico dall'artificiosa separazione degli aspetti economici e politico-militari evidenziati dalla teoria leninista dell'imperialismo è favorita da una mancanza di chiarezza riguardo alla natura dello Stato. I pensatori di sinistra, specie nel mondo anglofono, hanno tradizionalmente trascurato o banalizzato il concetto leninista di capitalismo monopolistico di Stato - il processo di fusione tra lo Stato e l'influenza e gli interessi del capitalismo monopolistico - che spiega esattamente come e perché funziona oggi lo Stato nazionale nelle guerre energetiche tra Russia e Stati Uniti e nelle guerre tecnologiche tra Repubblica Popolare Cinese (per esempio Huawei) e Stati Uniti. La rapidità con cui Paul Sweezy e Paul Baran liquidano il concetto di capitalismo monopolistico di Stato ne Il capitale monopolistico (1966) esemplifica il totale disprezzo riservato ai progetti di ricerca comunisti da molti cosiddetti «marxisti occidentali». Mentre la teoria del capitalismo monopolistico di Stato non trova udienza tra gli accademici marxisti, il concetto di «deep state», tanto equivoco quanto minaccioso nella sua denominazione, gode ormai di ampia circolazione, senza che questo turbi il sonno degli intellettuali d'Occidente.

Nondimeno, l'enfasi posta da Robinson sull'economia politica dell'imperialismo non può essere messa da parte con facilità. I concetti cruciali di classe e sfruttamento su cui si fonda sono indubbiamente essenziali nella teoria di Lenin.

In realtà, la principale sfida lanciata all'aspetto politico-militare della teoria leninista non è stata costituita dal presunto declino dello Stato nazionale, bensì dall'estinzione del sistema coloniale, specie in concomitanza con la diffusione dei movimenti indipendentisti dopo il secondo conflitto mondiale. La brutale e totalizzante dominazione delle nazioni più deboli incarnata dagli imperi spagnolo, francese, portoghese e britannico - con la spartizione del mondo in colonie sotto amministrazione diretta - è stata rimpiazzata, con l'indipendenza nominale, da un più benevolo sistema di dominazione economica. Il rivoluzionario ghanese Kwame Nkrumah definì questo sistema «neo-colonialismo» nella sua opera Neo-colonialismo, fase finale dell'imperialismo. L'elaborazione di Nkrumah della teoria leninista conservava l'integrità dell'aspetto «politico-militare» di Lenin ricostituendo la divisione coloniale del mondo da parte delle grandi potenze in una divisione neo-coloniale in sfere di interesse e di predominio economico.

Dal momento che Ellner riconosce correttamente che gli aspetti economico e politico-militare di Lenin sono essenziali per la sua teoria dell'imperialismo, deve misurarsi con una questione spinosa e ingombrante che continua a dividere la sinistra: qual è il ruolo della Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel sistema imperialista mondiale? Che cosa significa la sua ampia e profonda partecipazione al mercato globale?

Ellner si richiama ad alcuni fatti - la RPC non ha basi militari sparse per il mondo, non ricorre a sanzioni (il che non è vero!) e non sfrutta il pretesto dei diritti umani per intervenire negli affari di altri Paesi.

Ma questo ovviamente ignora la potente tesi di Nkrumah secondo cui l'imperialismo nel secondo dopoguerra non costituisce un semplice esercizio di potenza amministrativa e militare e uno sfoggio di sciovinismo nazionalista - rappresenta invece la divisione del mondo in sfere di interesse che favoriscono le grandi potenze sia in termini di sfruttamento, sia in termini di competizione con le altre grandi potenze nella spartizione del bottino.

È senz'altro vero che la RPC non rivendica una politica di depredazione imperiale - ma non lo fanno nemmeno gli Stati Uniti, né l'ha fatto alcuna grande potenza del passato. L'imperialismo, infatti, si è sempre presentato - sinceramente o meno - come benefico per tutte le parti in causa, rivendicando di volta in volta un ruolo civilizzatore, un afflato paternalistico o un intento di protezione da altre potenze. È del tutto possibile che i vertici cinesi siano sinceramente convinti che i loro scambi, i loro investimenti e le loro partnership con altri Paesi rappresentino una vittoria per tutti - una soluzione «win-win», come direbbero alcuni.

Ma questa è la spiegazione che danno sempre tutte le grandi potenze che utilizzano i loro capitali, il loro know-how e il loro commercio per alimentare i profitti delle loro grandi imprese. Il più famigerato di questi progetti «win-win» è stato forse il Piano Marshall. Spacciato all'Europa come soluzione «win-win» che coniugava l'impoverimento dell'Europa e la generosità degli Stati Uniti, il piano stanziò miliardi per prestiti, finanziamenti e investimenti in Europa. La storia dimostra che questo fruttò miliardi alle imprese USA in termini di nuove commesse, forgiò legami di dipendenza e lealtà politica nel contesto della Guerra Fredda e permise agli Stati Uniti di ottenere e conservare per decenni nuovi mercati. I principali vincitori furono ovviamente le corporation statunitensi e le loro controparti europee affamate di capitali.

Altri progetti di investimento e «aiuto» statunitensi, come l'Alleanza per il Progresso, furono guidati in modo ancor più plateale dagli interessi USA e ancor meno vantaggiosi per i loro destinatari.

Ciò avveniva nell'epoca delle teorie dello sviluppo di W. W. Rostow, che offrivano un modello e una giustificazione per l'investimento di capitali e la penetrazione delle imprese nei Paesi più poveri. Si trattava in realtà di una giustificazione del neo-colonialismo. Ma si possono riscontrare sorprendenti analogie tra la teoria delle fasi di Rostow per l'uscita dei Paesi dalla povertà e la logica delle strategie di investimento all'estero della RPC.

Difficile resistere alla tentazione di domandarsi che differenza ci sia tra questo e la Nuova Via della Seta della RPC, o tra quest'ultima e il Piano Marshall oppure - per utilizzare un esempio dell'epoca di Lenin - il progetto della ferrovia Berlino-Baghdad.

È indiscutibile che la Repubblica Popolare Cinese - quali che siano gli obiettivi del Partito Comunista al potere - presenta un enorme settore capitalista, con numerose corporation concentrate e presumibilmente monopolistiche che rivaleggiano con le loro controparti statunitensi ed europee e come queste sono alla ricerca di opportunità di investimento per i loro capitali accumulati. È questo, dopotutto, il senso di marcia del capitalismo.

È motivo di imbarazzo e frustrazione per coloro che provano simpatia per il Partito Comunista Cinese che i vertici di quest'ultimo non inquadrino le loro politiche economiche nei riguardi di altri Stati in un linguaggio di classe e non utilizzino il concetto di sfruttamento. I recenti discorsi del compagno Xi al vertice di Kazan dei BRICS+ contengono numerosi riferimenti al «multilateralismo», a uno «sviluppo globale equo», alla «sicurezza», alla «cooperazione», alla «promozione di una riforma della governance globale», all'«innovazione», allo «sviluppo green», alla «coesistenza armoniosa», alla «prosperità comune» e alla «modernizzazione» - tutte idee che suonerebbero familiari al pubblico del G7. Ma in che modo questi valori modificherebbero i rapporti di classe delle nazioni dei BRICS+? In che modo tutto questo contribuirebbe ad alleggerire lo sfruttamento attuato dalle corporation capitaliste?

Questi sono gli interrogativi a cui Ellner e altri dovrebbero rispondere a proposito dei vertici della RPC e dei fautori dei BRICS+. Sono interrogativi che chiamano in causa il modo in cui gli attuali Stati nazionali partecipano al sistema imperialista e le conseguenze di tale partecipazione sui lavoratori.

Il guaio è che a molti a sinistra piacerebbe credere che esistano forme di anti-imperialismo che non sono anti-capitaliste. Nei BRI e nei BRICS+ costoro ravvisano un modello che compete con l'imperialismo degli Stati Uniti e che si potrebbe quindi definire ostile all'imperialismo USA, ma lascia intatto il capitalismo. Ovviamente è impossibile adottare questa prospettiva senza abbandonare la teoria leninista dell'imperialismo. In ogni sua pagina, L'imperialismo sottolinea la relazione intima che lega imperialismo e capitalismo. Il sottotitolo stesso dell'opera - Fase suprema del capitalismo - attesta tale legame.

Secondo Ellner, negli Stati Uniti sarebbe possibile costruire una prospettiva politica che metta al centro l'imperialismo USA rispetto all'imperialismo in generale. Vorrebbe cioè farci credere, citando come esempio il pensiero strategico di Bernie Sanders, che criticare la politica estera degli Stati Uniti costituirebbe una minaccia ben più seria per la classe dominante rispetto al «socialismo» di Sanders. Questo può essere vero in relazione alle moderatissime posizioni socialdemocratiche di Sanders, ma non certo se si fa riferimento a una qualsiasi presa di posizione realmente «socialista» contro il capitalismo e il suo volto internazionale.

Per farsi un'idea della visione di Ellner del ruolo dell'anti-imperialismo in stile BRICS si può citare la sua affermazione secondo cui «l'anti-imperialismo è un modo efficace per inserire un cuneo tra la macchina del Partito Democratico e gli ampi settori del partito che, sebbene progressisti, votano per i candidati democratici riconoscendovi il minore dei due mali». La sinistra, quindi, invece di affrontare a viso aperto la fallimentare strategia del «male minore», e di mettere in discussione l'idea di votare sistematicamente per un candidato che è sì pessimo, ma forse non pessimo quanto il suo avversario, dovrebbe cercare di allontanare gli elettori democratici dal sostegno passivo al Partito Democratico prendendo posizione contro la politica estera degli Stati Uniti (che è in gran parte bipartisan!). Se questi trucchetti e chiacchiere da salotto devono costituire la strategia della sinistra all'interno del Partito Democratico, forse è venuto il momento di abbandonare quegli ambienti e iniziare a costruire un terzo partito.

L'intervistatore di Ellner, Federico Fuentes, si domanda giustamente se la scelta dell'imperialismo USA come bersaglio immediato della sinistra occidentale non rischi di mettere in ombra o perfino di ostacolare la lotta di classe, la lotta per il socialismo. Osserva: «Può manifestarsi un problema qualora l'assegnazione della priorità all'imperialismo USA conduca a una sorta di "politica del meno peggio" in cui le lotte autenticamente democratiche e operaie vengano non soltanto svalutate, ma addirittura contrastate attivamente con il pretesto che esse indebolirebbero la lotta contro l'imperialismo USA...».

A tale riguardo, Fuentes ed Ellner sono pienamente consapevoli di una recente controversia che ha opposto il governo Maduro al Partito Comunista del Venezuela (PCV) riguardo alla direzione del processo bolivariano - una controversia che ha innescato un tentativo da parte del partito di Maduro al governo di smembrare il PCV. Dato che il PCV era schierato contro il partito di Maduro alle elezioni del giugno 2024, Maduro ha proceduto a privare il PCV della sua identità, assicurandosi il sostegno di un falso PCV creato appositamente dai tribunali venezuelani.

Dal punto di vista del PCV, il governo Maduro aveva abbandonato la lotta per il socialismo nei fatti, se non a parole, abbandonando la classe operaia e compromettendo il chavismo allo scopo di mantenere il potere. In quanto partito leninista, il PCV è rimasto fedele alla visione secondo cui non esiste anti-imperialismo senza anti-capitalismo. La cancellazione da parte del governo di molte conquiste dei lavoratori gli ha fatto perdere il sostegno della classe operaia, e di conseguenza quello del PCV.

Alcuni esponenti della sinistra occidentale appoggiano acriticamente il governo Maduro e negano o ignorano la realtà dei fatti. Sono degli illusi. I fatti sono incontrovertibili, ed Ellner non è tra coloro che li negano.

Altri sostengono che la difesa del processo bolivariano contro le macchinazioni dell'imperialismo USA dovrebbe costituire un impegno prioritario di tutti i venezuelani progressisti, comunisti compresi. Per questo, i comunisti avrebbero sbagliato non sostenendo il governo.

Ma un ragionamento come questo chiede di fatto ai lavoratori venezuelani di mettere da parte i loro interessi a beneficio di una qualche concezione borghese di sovranità nazionale. Un conto è difendere gli interessi dei lavoratori contro l'asservimento o lo sfruttamento da parte di una potenza straniera; altra cosa è difendere lo Stato borghese e i suoi sfruttatori senza muovere obiezioni di sorta.

È un dilemma che i lavoratori e i loro partiti politici hanno dovuto affrontare in molte occasioni nel corso del Novecento - se schierarsi o meno intorno allo stendardo della sovranità nazionale senza avere di fatto nulla da guadagnare se non un'effimera sensazione di orgoglio nazionale.

Come sostennero Lenin, Luxemburg, Liebknecht e i loro contemporanei durante la brutale strage della prima guerra mondiale, i lavoratori dovrebbero rifiutarsi di collaborare con l'«anti-imperialismo» dello sciovinismo nazionalista e di partecipare allo scontro tra Stati capitalisti.

L'unico modo per sconfiggere l'aggressione imperialista - da parte degli USA o di chiunque altro - consiste nel conquistare alla lotta la classe operaia, con un programma di classe che aggredisca la radice dell'imperialismo - il capitalismo. Nel passato, l'unità intorno all'obiettivo di sconfiggere il nemico imperialista - in Russia, in Cina, in Vietnam o in qualunque altro luogo - è stata realizzata schierandosi dalla parte dei lavoratori contro il capitale, e non trovando accordi o compromessi con quest'ultimo. È questo il messaggio che il PCV ha tentato di comunicare al governo Maduro.

Limitare, contenere o deviare l'imperialismo USA non servirà a sconfiggere il sistema imperialista, esattamente come limitare, contenere, deviare e perfino sconfiggere l'imperialismo britannico, come è avvenuto nel passato, non è servito a sconfiggere l'imperialismo. L'imperialismo avrà fine soltanto quando il capitalismo verrà sostituito dal socialismo.

Questo non significa affatto ridimensionare la lotta quotidiana contro la dominazione USA. Significa però che i Paesi che partecipano al mercato capitalista globale non faranno che rafforzare il sistema capitalista esistente sino a quando non abbandoneranno il capitalismo. Può esistere una coalizione di Paesi a base capitalista che contrasti l'imperialismo americano; ma una coalizione anti-imperialista formata da Paesi che si mantengano all'interno del capitalismo è impossibile.

La sinistra non deve farsi illusioni: un mondo capitalista multipolare non avrebbe maggiori possibilità di sfuggire alle devastazioni dell'imperialismo di quante ne abbia un mondo capitalista unipolare. Semmai, il multipolarismo non farebbe che moltiplicare e intensificare le rivalità interne all'imperialismo.


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