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da http://www.ricercastoricateorica.org/Novecento/CATONE-comunisti-900.htm#_ftn1


I comunisti e la storia delle rivoluzioni socialiste del '900.

Una questione da archiviare?

 

di Andrea Catone[1]




1. Il ripudio di una grande eredità storica

Sono trascorsi quindici anni dal 1989, anno oramai ricordato da molti manuali di storia e nella pubblicistica dominante che costruisce il senso comune delle masse come “magnifico” per la caduta del muro di Berlino e il crollo, nei paesi dell’Europa centro-orientale, delle “dittature comuniste”, che apriva la strada alla dissoluzione dell’Unione sovietica accettata supinamente e sancita ufficialmente alle fine del 1991 dall’ultimo segretario di un già disciolto PCUS e ultimo presidente dell’URSS, Michail Gorbaciov.

 

Se, a ridosso di quegli eventi che, inattesi nella loro rapidità e portata, mutavano il corso della storia e inauguravano una nuova epoca, nient’affatto pacifica e progressiva, di “unipolarismo” militare degli USA e di nuove guerre imperialiste per il controllo e la spartizione dello spazio geopolitico eurasiatico e mondiale liberatosi con la fine dell’URSS, si accesero interesse e dibattiti non solo sulle questioni più immediate e contingenti, ma di carattere strategico, intorno alle cause profonde e di lungo periodo che avevano portato alla crisi e al rapido, catastrofico dissolversi dei regimi politici e sociali del “socialismo reale”[2], nonché sulla natura sociale di quelle società, sui loro caratteri essenziali, sul loro essere e quanto, o quanto poco, o niente affatto “socialiste”, molto presto, troppo presto, su quelle esperienze che tanto hanno pesato nella storia del ‘900 è calato il silenzio, interrotto solo dagli attacchi forsennati di chi, non contento della vittoria raggiunta sul campo, chiedeva abiure ideologiche radicali e definitive.

È davvero singolare e indicativo di un arretramento politico-culturale senza precedenti che gli unici dibattiti pubblici di una certa risonanza[3] siano stati suscitati come risposta alla provocazione editoriale del Libro nero del comunismo[4]che usciva con singolare tempismo a “commemorare” l’ottantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, accusata di essere all’origine di un “totalitarismo comunista” che avrebbe provocato, con la propagazione del comunismo nel mondo, cento milioni di morti, molte volte di più delle vittime del nazismo. In tal modo, nonostante repliche e puntualizzazioni che, dati alla mano, ridimensionavano di diversi zero le cifre delle “vittime del comunismo” e invitavano a contestualizzare gli eventi all’interno di una storia dominata dalla violenza dell’imperialismo, respingendo al mittente la categoria di “totalitarismo” e la conseguente equiparazione di nazismo e comunismo[5], l’operazione editoriale “libro nero” centrava uno dei suoi obiettivi, che era quello di far arretrare tutto l’asse del discorso dal piano della ricerca e dell’approfondimento delle conoscenze sulle esperienze di transizione al socialismo e sulle cause della loro sconfitta venuta a maturazione nel 1989-91, a quello della difesa della legittimità di quei tentativi. Invece che su “modo di produzione”, “rapporti di proprietà”, “classi sociali”, “socializzazione dei mezzi di produzione”, “pianificazione”, il discorso verte ora su repressioni, violenze, massacri, gulag. E dal 1997 ad oggi non si è manifestata alcuna inversione di tendenza, tutt’altro. Sulle pagine dei grandi quotidiani si parla di Unione Sovietica e della storia degli altri paesi del “socialismo reale” solo per associarla all’infamia di una violenza senza limiti[6] di un’utopia negativa ammalata della “presunzione fatale”[7] di costruire una società al di fuori delle regole del mercato capitalistico, una “società regolata” (come Antonio Gramsci definiva nei Quaderni del carcere il socialismo) dalla proprietà sociale e dalla pianificazione.

Ma non si tratta solo della grande stampa borghese, nella cui tradizione si ritrovano già da tempo simili argomentazioni e toni, in cui la storia delle esperienze di transizione al socialismo viene ridotta a teratologia, a una sequela mostruosa di violenze. Lo spostamento dell’asse del discorso, di tutto l’asse del discorso, entro l’orbita tracciata dal “libro nero” sembra presentarsi inequivocabilmente anche in chi aspira a farsi portavoce del “nuovo movimento no global”. Il recente dibattito sulle pagine del Manifesto e di Liberazione su violenza/non-violenza ha contribuito a spostare ulteriormente l’asse del discorso e ad accentuare la condanna e la rimozione dello studio della storia delle rivoluzioni socialiste del ‘900.


A quindici anni dall’89 siamo oggi di fronte a un fatto evidente: la storia delle rivoluzioni comuniste del ‘900 - tra le quali vanno comprese anche quelle che non sono state spazzate via dall’ondata del 1989-1991 e hanno resistito in modi e forme diversi e contraddittori, non omologabili in un unico blocco, da Cuba alla Cina - è in gran parte ignorata, pochissimo studiata nei suoi svolgimenti reali e, soprattutto, l’interesse a studiarla e conoscerla da parte di chi agita oggi la bandiera di un “nuovo mondo possibile” è scarsissimo, se non nullo. Queste esperienze sono ora ripudiate, e condannate ad una damnatio memoriae.

Con ciò non s’intende dire che non continuino studi seri e documentati, anche sulla scorta del nuovo materiale d’archivio disponibile dopo il 1991 (e dal quale risultano fortemente ridimensionate le cifre da galleria degli orrori presentate da R. Conquest sulle vittime della repressione nel periodo staliniano), ma che non c’è allo stato attuale nessun organico lavoro di studio su quelle esperienze da parte di chi si ritiene, a torto o a ragione, portatore di progetti e lotte per un radicale cambiamento sociale (che non si vuole o non si osa più chiamare coi nomi di socialismo e comunismo), rappresentante e voce degli sfruttati e oppressi, di cui proclama la volontà di emancipazione. Insomma, di chi si richiama in qualche modo agli ideali e al nome del comunismo.


Siamo di fronte al caso del rifiuto, anzi, del ripudio in blocco di una grande e sinora ineguagliata eredità storica. Siamo oggi di fronte all’invocazione di una cesura netta con la storia lunga decenni di centinaia di milioni di persone. Siamo passati dalla rimozione che è – freudianamente – inconsapevole, al ripudio coscientemente voluto e proclamato. Certamente non tutte le voci comuniste oggi sono così, ma questa tendenza si sta ampiamente affermando come senso comune. E, comunque, quand’anche – nei casi migliori – quella storia non venga apertamente ripudiata, essa è però considerata con freddezza, con distacco, senza nessuna grande passione e tensione politica e culturale, che sono un ingrediente essenziale per poter guardare al passato senza annegare in un mare di anonime carte d’archivio. Quella passione politica e culturale, quella capacità di indignarsi contro le infamie dell’avversario e di sentirsi parte in causa nelle lotte del proletariato, che guidava, anche nelle pagine più apparentemente fredde della “anatomia della società borghese” e dei cicli di accumulazione del capitale, l’opera di Karl Marx. Gli scritti di storia contemporanea di Marx – dalla ricostruzione della contenibile ascesa di Napoleone il piccolo alla gloriosa Comune di Parigi - sono sempre stati appassionati e di parte, senza perdere in lucidità e criticità. Marx analizzava appassionatamente e partigianamente la storia della sua parte, indicandone impietosamente gli errori, traendo lezioni da essi, ma sentendosi parte in causa, dalla parte del proletariato. E così Engels, Lenin, Gramsci, quando guardano alle vicende e alle lotte recenti o meno recenti delle classi oppresse e sfruttate, dalla guerra dei contadini nella Germania del primo Cinquecento agli operai torinesi, “uomini in carne e ossa”, sconfitti in uno dei più duri ed emblematici scontri di classe del primo dopoguerra.


Invece, alle rivoluzioni comuniste del ‘900, al più duraturo e complesso movimento di trasformazione della società che le classi oppresse e sfruttate abbiano conosciuto nella storia, deve toccare in sorte se non il ripudio, freddezza e distacco. La storia delle rivoluzioni del ‘900 viene sentita da chi dovrebbe raccoglierne tutta la grande eredità positiva come storia altra, affatto estranea. Questa presa di distanza è stata declinata in passato in vari modi, non necessariamente denigratori, il più persistente dei quali è stata la rivendicazione orgogliosa di una peculiare e storicamente consolidata diversità del comunismo italiano rispetto al “comunismo orientale” dell’URSS e delle democrazie popolari. Questo marcare una propria peculiare diversità, se serviva nella lotta politica immediata a controbattere le violente campagne denigratorie e ad evitare di essere travolti da esse, incideva però nel senso comune una distanza abissale: il “comunismo orientale” finiva con l’apparire proprio un altro mondo e la presa di distanza, la rivendicazione di diversità, spianavano la strada alla rottura di un orizzonte comune condiviso, che sarebbe divenuta più tardi un abisso incolmabile.


Nella rivendicazione orgogliosa della peculiarità e specificità del comunismo italiano, nell’accentuarne i tratti di differenza piuttosto che gli elementi comuni era in nuce la futura presa di distanza e il distacco netto e radicale da quell’esperienza. Ma per tutta una fase l’esperienza dell’URSS e del “socialismo reale” è stata comunque osservata con un atteggiamento che possiamo definire di “simpatia critica”, intendendo con “simpatia” un “sentire insieme”, una compartecipazione e coinvolgimento sentimentali. La presa di distanza critica non significava allora il ripudio o l’indifferenza.


Il 1989-91 segna evidentemente un punto di non ritorno. Si presenta qui per la prima volta in modo diffuso la parola di “fallimento”, adoperata in modo generico e ambiguo quale categoria interpretativa generale di tutta la storia delle rivoluzioni comuniste del ventesimo secolo. In precedenza nessuno dei critici dell’URSS o dello “stalinismo” aveva avanzato massicciamente e diffusamente tale ipotesi. I più accesi critici di sinistra parlavano di “controrivoluzione” o “degenerazione burocratica”, o della nascita di un mostro sociopolitico non ben classificabile, un nuovo potente Leviatano nella forma di un capitalismo di stato sui generis. Ma non era presente all’orizzonte la lettura di questa storia come “fallimento”. Una rivoluzione “tradita” o sconfitta da preponderanti forze esterne, o insidiata e rovesciata da una controrivoluzione interna, mantiene tutta la dignità delle sue ragioni fondatrici, ed anche le potenzialità. Essa può ripresentarsi e riaffermarsi con nuovo vigore. Nel gioco crudele e alterno delle vicende lunghe della storia, la sconfitta è solo un momento di una lunga partita più vasta e complessa ingaggiata con un potentissimo avversario. La Comune fu sconfitta, la rivoluzione del 1905 fu sconfitta, ma poi venne il 1917. Anch’esso è risultato alla lunga sconfitto da pesanti errori di direzione politica intervenuti nel corso della transizione socialista, dal coalizzarsi di forze esterne che hanno reso sfavorevoli i rapporti di forza. Ma dopo la sconfitta potrebbe riprendere con forze rinnovate la sua marcia e ingaggiare battaglie vittoriose.


Fallimento”, al contrario, implica la messa in discussione delle origini stesse, delle finalità della rivoluzione, dei suoi presupposti teorici e politici. Dunque, la ricerca di un “peccato originale”. Di fronte al rapido liquefarsi di regimi politici che solo qualche anno prima apparivano ancora abbastanza solidi, almeno sul piano dell’apparato statale, la parola fallimento sembrava il minimo che si potesse dire di quanto stava accadendo. Ci fu invero qualcuno che inneggiò a “rivoluzioni democratiche e non violente”[8] e volle leggere l’89 come una nuova primavera dei popoli liberati dalla tirannide, cui si spianava la strada di magnifiche sorti e progressive della democrazia e dello sviluppo, ma molto rapidamente – almeno nella parte critica marxista – queste illusioni furono abbandonate di fronte al disastro sociale successivo alla caduta delle democrazie popolari e dell’URSS e ai programmi ultracapitalistici e di restaurazione politica e culturale (in alcuni casi con la rilegittimazione di forze apertamente fasciste) che i nuovi “democratici” stavano attuando, burattini nelle mani dei grandi monopoli transnazionali e delle politiche dei loro stati imperialisti. Non c’era stata, come avevano teorizzato Trockij e la IV Internazionale, l’auspicata rivoluzione proletaria contro l’odiata “burocrazia”, ma il trionfo di una borghesia compradora delle peggiori. Quando la nottola di Minerva prese il volo, rovesciati i regimi politici e passati di campo molti di quei dirigenti che si proclamavano i più tenaci e fidati comunisti, si passò quindi a leggere tutta la storia delle rivoluzioni come “fallimento”. Sembra normale e ovvio usare questa parola, ma essa non è neutra né innocente. E chi ne fa uso mette in discussione dalle fondamenta l’intero progetto comunista. O, almeno, tutta la storia delle rivoluzioni del ‘900, a partire da quella più dirompente e duratura, che dette il “la” ad un intero secolo e da cui si propagarono altre rivoluzioni socialiste, possenti movimenti anticoloniali e antimperialisti, partiti comunisti che organizzarono e diressero lotte fondamentali e il movimento dei lavoratori nelle cittadelle capitalistiche, contribuendo a sconfiggere il fascismo con la resistenza popolare e a trasformare parzialmente gli stati, strappando non disprezzabili (e oggi perduti e rimpianti) diritti e garanzie per le classi operaie: la rivoluzione d’Ottobre.

Ma in questo modo si tagliava più o meno consapevolmente il ramo su cui poggiava la prospettiva socialista del ‘900. Nell’apparente constatazione di un’ovvietà si confluiva, nolens volens, nelle maglie del vecchio discorso borghese sul peccato originale del ‘900.


I tentativi di ricostruzione analitica di un percorso complesso, di indagine differenziata sulle ragioni della dissoluzione dell’URSS non sono certo mancati[9]. Ma nel senso comune della sinistra è passata la spiegazione più semplicistica e semplificatoria, quella che evitava di cimentarsi con le asprezze, le difficoltà, le contraddizioni degli andirivieni della storia di uomini in carne ed ossa, e cercava, con un colpo di bacchetta magica, il passepartout della soluzione immediata a una questione tanto complessa. Invece che seguire un percorso, si troncava la questione all’origine, se ne dava, al pari delle peggiori semplificazioni propagandistiche borghesi, una spiegazione monocausale immediatamente spendibile sul mercato della politica quotidiana: fallimento. Per cui si preferisce voltare pagina, provare a scriverne una del tutto nuova, totalmente e candidamente bianca, senza doversi sobbarcare il peso di un’eredità ingombrante. È l’equivoco del “nuovo inizio” senza aver regolato i conti con la propria storia. Si può leggere come complementare a questa semplificata rappresentazione ideologica anche la presentazione del nuovo movimento “no global” come figlio di se stesso, autofondantesi, senza alcun rapporto con la precedente storia.

L’aspetto più inquietante di questa operazione di cesura netta e di ripudio di un’intera storia è nell’illusione di una rapida scorciatoia: non è una negazione dialettica (ciò implicherebbe la fatica del discernere, dell’analizzare, del fare i conti in modo particolareggiato con il passato comunista), ma la rimozione, l’evacuazione del problema, che viene apparentemente assunto in tutto il suo peso, per essere subito dopo cancellato.


Quando, sull’onda della caduta del muro di Berlino, il PCI subisce una “mutazione genetica” che richiede di cambiare, in un atto che non è assolutamente una mera concessione all’esteriorità, anche simboli, denominazione, icone, si sancisce esplicitamente un passaggio di campo teorico: tutta l’esperienza storica delle rivoluzioni del ‘900 e in particolare dell’URSS è vista come un fallimento. Il fallimento non è la sconfitta. Il fallimento implica la radicale messa in discussione dei presupposti su cui si fondarono i partiti comunisti, dell’ideologia, del progetto, delle prospettive. A differenza dal passato, in cui la cultura del PCI aveva progressivamente preso le distanze dall’URSS, non si trattava qui di condannare errori di un modello – era già stato elaborato per una breve stagione l’eurocomunismo della “terza via” – l’autoritarismo, la scarsa democrazia, ecc., ma il progetto stesso. Insomma, si prendeva atto che non di errori o di incidenti di percorso si era trattato, ma di una pretesa sbagliata nei suoi presupposti, alla radice: il socialismo, la società socialista era l’errore. La pretesa di passare ad un altro modo di produzione, ad altri rapporti di proprietà, era l’errore. L’unico modo di produzione adeguato era quello del capitale, da innervare possibilmente di “democrazia”, ma pur sempre capitale. Tutto l’asse del discorso si spostava sulla “democrazia”, ma intesa puramente nei suoi meccanismi formali di regole del gioco da rispettare, di “stato di diritto”, ben lontana dunque dalla visione togliattiana di una “democrazia progressiva” che, attraverso una ben organizzata “guerra di posizione” spostasse progressivamente i rapporti di forza e modificasse la struttura economico-sociale del paese in senso socialista (le “riforme di struttura”). Ecco perché il partito si trasformava in partito democratico e cassava la parola stessa non solo di “comunismo”, ma anche di “socialismo”.

Rottura con le radici del ‘900 e abbandono della prospettiva socialista procedono di conserva, crisi dell’URSS e avanzare del neoliberismo vanno di pari passo, si sostengono a vicenda. L’ideologia del PCI subì l’attacco neoliberista e vi cedette, ritirandosi non dal comunismo, ma dalla stessa tradizione socialdemocratica: fu progressivamente abbandonato il ruolo che allo stato si assegnava nella trasformazione sociale, non si rivendicò più l’intervento statale in economia, si accettarono le privatizzazioni. D’altro canto, il crollo dell’URSS poteva essere portato a sostegno della tesi del fallimento dello “statalismo”, rafforzava la proposta “neoliberista”. In conclusione, la nuova chiave interpretativa offerta dal PCI (poi DS) post 89 per la storia delle rivoluzioni del ‘900 fu di tipo liberaldemocratico. Erano le stesse conclusioni cui giungevano i “democratici” eltsiniani e lo stesso Gorbaciov in URSS dopo il 1989: il problema non era quello di buoni o di cattivi dirigenti, che avevano indirizzato in senso sbagliato la politica sovietica, il problema non era Stalin o Berija o Breznev, ma il sistema in sé, la proprietà statale dei mezzi di produzione, l’assenza di mercato e proprietà privata capitalistica. Si passò rapidamente al dogma – sulla scia di von Hayek – che senza mercato capitalistico non può esservi democrazia. Tutta la grande questione della vita democratica nella società socialista veniva aggirata e resa obsoleta con un colpo da maestro: è il mercato e solo il mercato (capitalistico, va da sé!) che consente la democrazia; democrazia senza mercato non può darsi. La forza semplificatrice di questa impostazione mistificante – paradossalmente “marxista” sui generis, in quanto indicava una causa strutturale, nell’organizzazione economica, e non sovrastrutturale, politica o etica – è evidente. Una richiesta di democrazia si legava così a quella di passaggio al mercato, cioè allo smantellamento della proprietà statale e alla sua privatizzazione[10].


Ma sulla base di queste premesse non vi è più alcun interesse ad individuare le fasi storiche, gli snodi, i passaggi cruciali, i diversi andirivieni di una storia complessa. Ormai è stato individuato il peccato originale, che è nell’idea che si possa arrivare ad una proprietà sociale dell’intera società, a socializzare i mezzi di produzione. Non si discute più se la socializzazione in URSS sia effettiva o fittizia, o inceppata da meccanismi sfuggiti al controllo, o parziale, imperfetta, ma si mette in discussione la socializzazione in sé, la prospettiva stessa del comunismo viene considerata falsa e criminale, un’utopia negativa irrealistica che presume di poter mettere sotto controllo tutto il mondo, un mondo che tuttavia il pensiero borghese ritiene non pianificabile. La conclusione che si tira è la stessa delle critiche anticomuniste del primo ‘900: il terribile leviatano comunista è figlio di questa pretesa, la violenza, la repressione, il totalitarismo, sono conseguenze necessarie di questo folle progetto; Stalin non è la deviazione da un percorso sano, ma l’esplicazione, la realizzazione di questo; l’errore non è in Stalin, ma in Lenin. Del resto, il Libro nero del comunismo attacca in primo luogo proprio l’ideologia comunista per dimostrare una coerenza e consequenzialità tra le premesse teorico-politiche e gli orrori del gulag. Stato, proprietà statale, intervento statale nell’economia sono bollati come “statalismo”, che al meglio genera burocratismi e al peggio totalitarismo criminale.


A questa impostazione perciò non interessa guardare i diversi passaggi della storia del ‘900, interessa denunciare l’errore originario e prendere definitivamente le distanze da tutta quella storia. Persino da quella delle socialdemocrazie, accolta e legittimata solo in quanto progresso democratico, lotta per lo stato di diritto, non per l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione su cui tanto insistevano anche i più decisi avversari di Lenin, quali gli austromarxisti degli anni Venti. Forse si è fatto poco caso al fatto che la trasformazione del PCI in partito democratico della sinistra ha significato l’abbandono di ogni prospettiva socialista e dunque anche di ogni interesse a cercare nella storia del comunismo mondiale degli esempi da imitare o degli errori da evitare: non si trattava più di errore - l’errore implica l’esistenza di una via giusta da cui si è errato, deviato -, ma di fallimento iniziale. Confluivano così in questa impostazione le vecchie critiche liberali e liberiste al progetto comunista. Quelle critiche infatti non si ponevano sul terreno dell’analisi storica, ma del ripudio ideologico. La storia delle rivoluzioni veniva studiata solo per trovarvi la dimostrazione dell’impossibilità del comunismo e della sequela di misfatti che necessariamente derivano da quella pretesa. La trincea su cui si attestava il nuovo partito era quella dell’antifascismo, del PCI che promuove la resistenza come lotta di liberazione dal fascismo, e mai come componente di una lotta per un nuovo ordine socialista. Dall’eurocomunismo, che si poneva comunque nella prospettiva di una trasformazione socialista, si passa all’“Ulivo mondiale” di Clinton, Blair, D’Alema. Viene abbandonato del tutto qualsiasi approccio socialdemocratico, e persino laburista. Ridotta la democrazia a insieme di regole, la sinistra democratica non ha un soggetto particolare da rappresentare: si richiama genericamente al progresso (e chi non lo vuole?) e ai diritti di cittadinanza. Non più una classe determinata, i lavoratori salariati e sfruttati dal capitale, ma i cittadini tutti. Rimossa la categoria marxista di classe, si accoglie per l’analisi storiografica dell’URSS la categoria di “totalitarismo”, che dai rapporti di classe prescinde: è pronto il terreno per l’assimilazione di stalinismo e nazismo.


Ma al ripudio delle rivoluzioni del ‘900 giunge anche, per altra via, il nuovo pensiero del segretario del PRC: “Il movimento operaio è stato il grande protagonista del secolo ma è stato sconfitto in primo luogo per il fallimento laddove si è costituito in Stato nelle società postrivoluzionarie nelle quali le istanze di liberazione per cui era nato si sono anche rovesciate in forme di oppressione drammatica. La critica allo stalinismo non è quindi semplicemente la critica alle degenerazioni di quei sistemi ma al nucleo duro che ha determinato quell’esito ed è per questo motivo il punto irrinunciabile per la costruzione di una nuova idea del comunismo e del modo di costruirlo”[11]. La presa di distanza netta e senza appello è dallo “stalinismo”. Un oggetto però non definito nei suoi contorni storici, non proposto come equivalente di espressioni tipo “l’era di Stalin”, “il trentennio staliniano” (cosa tra l’altro che è già di per sé una semplificazione che occulta fasi storiche diverse), ma una categoria negativa dello spirito, una teoria e una pratica di governo dispotico che si ritrova in tutte le situazioni in cui una rivoluzione ha conquistato il potere statale. Il “peccato originale”, che produce il rovesciamento delle istanze di emancipazione in “forme di oppressione drammatica” è indicato nel “costituirsi in Stato” del movimento operaio. Diversamente dai liberaldemocratici, Bertinotti non imputa ai bolscevichi la volontà di trasformare l’economia superando il capitalismo con la socializzazione dei mezzi di produzione (di cui tuttavia non parla), ma mette in discussione che a ciò si possa arrivare attraverso la classica strada suggerita dal Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels: la conquista da parte del proletariato del potere politico statale e l’avvio, per mezzo di esso, di profonde incursioni nella proprietà e nella gestione economica, primo passo di una transizione a un nuovo modo di produzione dei produttori associati. La conquista e l’uso del potere politico statale per attuare le trasformazioni sono considerati forieri di pericolosi rovesciamenti del fine di emancipazione nel suo opposto di nuova e più crudele oppressione. Scrive infatti Franco Russo: “Il potere è violento, la spada è sempre pronta a colpire chi si oppone; ma opporsi con la spada dà vita a nuove pratiche sociali di relazioni solidali e libere o perpetua la violenza e il potere? Abbiamo mai visto qualcuno deporre la spada, preso il potere?”[12]. Vi è in questa posizione radicale l’idea che l'uso del medesimo mezzo ti fa diventare come l'altro, ti contamina. È propriamente un’idea metafisica, mutuata da una cultura che non riesce a concepire il processo storico, la transizione da una forma sociale all’altra, attraverso la contraddizione in cui gli opposti si compenetrano, per dar vita a un “superamento” che non è affatto il puro e semplice annichilimento dell’opposto, sostituito da qualcosa di totalmente “Altro”, ma, propriamente, una sintesi, sicché, come scriveva Marx nei suoi appunti critici del programma socialdemocratico di Gotha, “porta ancora i segni della vecchia società dal cui seno è uscita”.


Nella ricerca di passepartout semplificanti, lo “statalismo” funge da architrave per spiegare da sinistra il fallimento. Per questo interessa e appassiona pochissimo studiare i passaggi attraverso cui si costruisce lo stato sovietico, la pianificazione, la forma di una proprietà che non è più capitalistico-borghese e non ancora socialista.


La storia delle rivoluzioni comuniste del ‘900 è stata prima rimossa, dimenticata, ora ripudiata e condannata al silenzio. Verso di essa non si mostra oggi nessuna “simpatia critica”, nessuna passione, nessun interesse militante. La ragione di fondo è che essa viene letta come fallimento, mettendone in discussione i fondamenti della conquista del potere politico per attuare attraverso esso la transizione alla proprietà socialista dei mezzi di produzione. La categoria di fallimento è adoperata da destra (la negazione del mercato capitalistico porta alla negazione della democrazia); e da sinistra (lo “statalismo” comporta il rovesciamento e l’eterogenesi dei fini). Il fallimento è la semplificante chiave di lettura che consente di evitare la fatica dell’analisi e della ricerca dei percorsi. Dal punto di vista dell’apprendimento e dell’azione politica presente, quella storia viene considerata inutile, non interessante, incapace di insegnare alcunché. Il giudizio negativo è già tracciato, la spiegazione data una volta per tutte. Dagli archivi sovietici potranno uscire montagne di documenti per lo studio e il lavoro della cerchia degli studiosi di professione, ma ciò non appassionerà né susciterà l’interesse dei militanti comunisti più di quanto non faccia un qualche archivio del medievale impero bizantino.


Oggi non ci troviamo soltanto di fronte ad un “revisionismo storico”. Esso in fondo ha accompagnato tutta la storia delle rivoluzioni e certe sue argomentazioni risalgono alle ideologie della restaurazione di primo Ottocento contro i giacobini. I libri di Conquest sono venuti ben prima del Libro nero e l’attacco al bolscevismo come inevitabile conculcatore di libertà è coevo allo stesso Lenin. Nei confronti delle rivoluzioni del ‘900 non è in atto un attacco revisionistico, ma il ripudio di un’eredità, la fuoriuscita da un orizzonte entro il quale è stata pensata e praticata la transizione al socialismo. Il dato attuale è caratterizzato da una grande povertà di studi appassionati e critici, dalla parte del proletariato, sulle esperienze delle rivoluzioni del ‘900.

Nella situazione politico-culturale data, che, se non contrastata, è prevedibile tenda ad ulteriori cedimenti, la questione dell’eredità delle rivoluzioni socialiste del ‘900 si presenta come battaglia culturale prioritaria. Essa è oggi una delle responsabilità intellettuali più gravi. Nell’assenza, nel silenzio dei comunisti, dei marxisti, è l’altra parte, quella interessata al mantenimento e rafforzamento dell’egemonia dei dominanti che detta l’agenda politico-culturale. Gli intellettuali marxisti dovrebbero rivendicare a pieno questa eredità. Rivendicare un’eredità non significa certo prendere per oro colato tutto ciò che vi è in essa, anche perché essa non si presenta – al contrario di quel che vorrebbero i semplificatori alla ricerca di un passepartout monocausale – come univoca e omogenea, ma fatta di discontinuità, salti, rotture all’interno di un processo di transizione. Ma significa assumerla nel complesso come parte di una propria storia dalla quale riprendere un percorso di emancipazione È una storia che va studiata in modo militante, con “simpatia critica”, cercando di comprenderne il percorso accidentato, senza per ciò essere acriticamente e dogmaticamente apologetici o giustificazionisti.

 

2. Transizione, una categoria centrale per “lavorare” sulle rivoluzioni del ‘900[13]


La categoria centrale sulla quale organizzare la ripresa di un lavoro serio sulle rivoluzioni del ‘900 è quella di transizione.

Con la categoria di transizione non si indica il generico movimento storico, il divenire, della società che si sviluppa attraverso le sue contraddizioni (che ogni momento che passa sia un momento di transizione è una banalità tautologica che può accettare anche chi non si pone dal punto di vista del materialismo storico). Transizione implica un periodo più o meno lungo - articolato anche in fasi diverse (la “sussunzione formale” e la “sussunzione reale”, su cui Marx parla diffusamente soprattutto nel capitolo VI inedito del Capitale) - di passaggio da un modo di produzione ad un altro. La transizione, dunque, non si esaurisce né può confondersi col momento della rivoluzione politica o semplicemente del passaggio del potere politico da una classe ad un'altra, anche se quest'elemento politico - la costituzione di un nuovo Stato - svolge un ruolo non secondario e non eludibile nel processo di transizione.


Si può assumere più specificamente sotto la categoria di transizione quella fase storica in cui convivono più regimi economici in reciproca dipendenza, collaborazione e/o antagonismo, in cui il vecchio è entrato in crisi, ma non è stato ancora soppiantato e il nuovo si sta formando, ma non è ancora divenuto l'elemento principale, che caratterizza e impregna di sé una data formazione storico-sociale (da cui la differenza, che possiamo riprendere da Lenin, tra quest'ultima e la categoria di “modo di produzione”). Si può dire che un processo di transizione giunga a termine quando il nuovo modo di produzione diviene non l'unico, ma quello determinante e dominante. Avremo così società caratterizzate da un dato modo di produzione. La fine del periodo di transizione non significa ovviamente la fine della storia. Il modo di produzione dominante tende a sottomettere a sé, al suo "scopo della produzione" (Zweck der Produktion), gli altri modi di produzione che con esso coesistono in posizione subalterna o a sopprimerli. L'idea di transizione come fase di coesistenza e antagonismo di più regimi economici è presente nell'analisi leniniana della situazione economico-sociale russa all'indomani della rivoluzione d'Ottobre.


L'elaborazione di una teoria marxista della transizione si basa sull'analisi del processo storico concreto che porta dal modo di produzione feudale a quello capitalistico. Nell'Introduzione del 1857 Marx ci avverte che, se è possibile, partendo dalla forma più complessa (la società capitalistica) comprendere anche le forme precedenti più semplici (società antica, feudale), in cui sono presenti in forma embrionale i rapporti sociali che arriveranno a maturazione nella forma più complessa, se "l'anatomia dell'uomo è una chiave per l'anatomia della scimmia", non si può fare invece l'operazione inversa. Ciò significa che dall'anatomia della società capitalistica, dall'antagonismo reale in essa presente, possiamo cogliere alcuni elementi che consentono di prefigurare il modo di produzione comunista, ma che non possiamo assolutamente definire le sue leggi scientifiche di funzionamento. Possiamo prefigurare delle ipotesi dei processi di transizione, senza la pretesa di definirne le concrete fasi storiche, di "mettere le brache alla storia". Anche e soprattutto perché - contro ogni insostenibile visione storicistico-deterministica - il superamento del modo di produzione capitalistico in senso comunista non è una necessità ineluttabile, ma solo una possibilità. Il che non significa affatto affermare, come gli sciocchi e interessati apologeti di oggi, l'intramontabilità dell'orizzonte capitalistico: il capitalismo è condannato a perire dalle proprie contraddizioni interne. Il problema, per dirla con W. Benjamin, è se perirà di mano propria o per mano del proletariato; il processo reale delle interne contraddizioni del modo di produzione capitalistico, in altri termini, può anche andare non verso il suo "superamento" (una negazione da cui emerge il positivo, Aufhebung), ma verso una qualche forma di dissoluzione-distruzione.


Nessuna provvidenza, dunque, nessun moto verso una meta finale inevitabile: l'esito della transizione non è scontato o predeterminato e il comunismo è solo una possibilità aperta dalle contraddizioni del capitalismo. Una possibilità che può realizzarsi solo a condizione - tra l'altro - che il soggetto rivoluzionario sappia leggere correttamente quelle contraddizioni e agire su di esse nel modo più appropriato. La costituzione  (non arbitraria o casuale, ma posta oggettivamente dallo sviluppo stesso delle contraddizioni del capitalismo) di tale soggetto è un elemento indispensabile della transizione al comunismo, non solo e non tanto nella fase di rottura del vecchio assetto di potere politico, del vecchio Stato, quanto soprattutto in funzione della direzione cosciente e secondo un piano dell'economia. Da quanto sopra detto deriva anche che la transizione al modo di produzione comunista ha una peculiarità intrinseca: quella di essere anche un movimento promosso da forze sociali organizzate ed orientate secondo un progetto determinato, movimento cosciente di una soggettività rivoluzionaria. Il fattore politica - e quindi per un'intera lunga fase il fattore Stato - gioca in questa transizione un ruolo non secondario e ineludibile.


Sin dal Manifesto Marx ed Engels - in polemica con l'utopismo - hanno difeso la tesi di una necessità oggettiva della rivoluzione comunista, iscritta nell'ordine stesso delle contraddizioni capitalistiche. La rivoluzione proletaria - analogamente alla rivoluzione borghese nel suo modello francese - non fa che liberare nella società le forze che nel suo seno sono cresciute e non possono più essere contenute all'interno dei vecchi rapporti sociali. Nel 1848 i giovani rivoluzionari Marx ed Engels ritengono già prossimo il momento per una rivoluzione proletaria. Il modello che si propone è enunciato a chiare lettere nel Manifesto del partito comunista, con un vero e proprio programma di transizione in 10 punti (cfr. il II capitolo). Preliminare è la presa di possesso del potere politico, usando la cui leva il proletariato realizzerà progressivamente le misure che portano al comunismo. Tra queste la centralizzazione statale del credito, dei mezzi di traffico e comunicazione. “Il primo passo nella rivoluzione è l'elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia […] Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive. […] Naturalmente sulle prime tutto ciò non può accadere se non per via di interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, vale a dire con misure che appaiono economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpassano se stesse e spingono in avanti, e sono inevitabili come mezzi per rivoluzionare l'intero modo di produzione”.


Nella critica dell'economia politica Marx analizza il movimento della società capitalistica, e scorge in esso i punti di rottura, i momenti di transizione al comunismo all'interno del modo di produzione capitalistico stesso: “Le fabbriche cooperative degli stessi operai sono, entro la vecchia forma, il primo segno di rottura della vecchia forma, sebbene dappertutto riflettano e debbano riflettere, nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente. Ma l'antagonismo tra capitale e lavoro è abolito all'interno di esse, anche se dapprima soltanto nel senso che gli operai, come associazione, sono capitalisti di se stessi, cioè impiegano i mezzi di produzione per la valorizzazione del proprio lavoro”[14].

Nell’Antidühring, Engels presenta la transizione alla società socialista quale risultato del processo di sviluppo del capitale e delle sue contraddizioni. Si tratta del passaggio dal capitalismo di Stato al socialismo a mezzo di un duplice e convergente processo che implica, da un lato, la trasformazione della proprietà capitalistica privata - che, con la crescente concentrazione e centralizzazione dei capitali passa attraverso le tappe delle società anonime (società per azioni) e dei "monopoli nazionali" (trust) - in proprietà dello Stato capitalistico, e, dall'altro, la presa di possesso rivoluzionaria da parte del proletariato del potere politico, della macchina statale, una macchina statale che è già divenuta il "capitalista collettivo ideale". Sicché la conquista del potere politico significa immediatamente anche conquista e rovesciamento della proprietà capitalistica nel suo opposto dialettico, la proprietà socialista. La rivoluzione politica, la conquista della macchina statale, è, contemporaneamente, rivoluzione dei rapporti di produzione, rivoluzione sociale: “[Con l'assunzione da parte dello Stato capitalistico dei mezzi di produzione] il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice, si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione"[15]


La questione del potere politico è dunque centrale per la transizione al socialismo, anche se – va ribadito – non è che la premessa necessaria ma non sufficiente per il passaggio al nuovo modo di produzione. La ragione di questa centralità risiede nel fatto che il proletariato, inevitabilmente subalterno nella società borghese - a differenza della borghesia, che fece la sua rivoluzione antifeudale avendo il possesso dei mezzi di produzione, essendo già egemone nell’economia -, non ha altra scelta che la conquista del potere politico per avviare attraverso esso la trasformazione dei rapporti di produzione. Sia nel “modello” di Engels (passaggio diretto al socialismo dal capitalismo di stato) che in quello di Marx (rottura del capitalismo all’interno del capitalismo stesso nella forma contraddittoria delle cooperative operaie di produzione per garantire l’esistenza e lo sviluppo delle quali occorre un potere statale), che in quello di Lenin - che assume nella NEP tanto il capitalismo di stato, quanto la cooperazione - la conquista e il mantenimento del potere statale sono una condizione imprescindibile. Lo Stato in cui il proletariato ha preso il potere politico è già uno stato diverso dallo stato borghese: la dittatura del proletariato si coniuga con l’autogoverno dei produttori (come insegnano le riflessioni marxiane ed engelsiane sulla Comune di Parigi). Il proletariato al potere rompe il mercato mondiale, o, meglio, stabilisce una serie di vincoli e controlli, regola la propria presenza nel mercato mondiale, attraverso le nazionalizzazioni e il monopolio del commercio estero. Il capitale può investire nello stato proletario, ma solo a certe condizioni: la sua sfera d’azione viene limitata e controllata dallo Stato. È l’idea che Lenin espone quando parla di “capitalismo di stato” nella NEP.


La questione principale che si è posta al movimento operaio nel secolo lungo che va dalla Comune di Parigi al crollo dell’URSS è stata quella della conquista del potere politico. Attraverso l’insurrezione, o per via parlamentare, o una combinazione di entrambe, nell’arco delle diverse varianti che la storia presentava, quale difesa popolare armata di un potere politico conquistato attraverso le elezioni. Per decenni e decenni la questione delle questioni per i partiti socialdemocratici del XIX secolo e per i partiti comunisti, sorti in gran parte dei paesi del mondo all’indomani della rivoluzione d’ottobre, è stata quella dell’organizzazione delle forze soggettive, della capacità di allargare le fila del movimento operaio organizzato. Guerra di movimento o guerra di posizione, attraverso la conquista progressiva di fortezze e casematte, accumulando le forze per uno scontro che non si sarebbe potuto risolvere nello spazio di qualche settimana, ma implicava l’ingaggio di una guerra di lunga durata per l’abbattimento del potere borghese, la questione verteva sulla strategia più adeguata per il raggiungimento dell’obiettivo: quale politica fosse più corretta per guadagnare il proletariato alla causa della rivoluzione e sottrarlo all’influenza dei partiti borghesi e controrivoluzionari; quale analisi delle classi e dei rapporti di forza per una corretta politica delle alleanze: accumulazione delle forze per la rivoluzione. Mature erano considerate le condizioni oggettive nei paesi capitalisticamente sviluppati, immature quelle soggettive, per far avanzare le quali doveva esercitarsi tutta l’arte e la passione dell’attività politica, ideologica, culturale. Compito estremamente difficile, poiché il capitalismo imperialistico che aveva risolto le sue crisi in modo violento con due guerre mondiali che avevano sconvolto l’assetto del mondo e aperto diverse falle all’interno del proprio sistema di comando – non riuscendo ad impedire l’affermarsi vittorioso di rivoluzioni in vaste e importanti aree periferiche, che avrebbero posto fine al vecchio modo di sfruttamento colonialistico sussunto dall’imperialismo -  non era affatto morente. Ed è riuscito a costruire sistemi di controllo sulle masse e ad ampliare la sua egemonia. Più il capitale si è sviluppato, più si è rivelato capace di questo condizionamento che gli consente di mantenere il rapporto di dominio.


Una conquista duratura del potere politico da parte dei comunisti è intervenuta nella maggior parte dei casi grazie alla crisi violenta del sistema capitalistico sfociata nelle due guerre interimperialistiche mondiali. Ed è intervenuta in Stati deboli (non perché non dotati di forza repressiva, ma perché non ancora adeguati nella loro struttura al modo capitalistico di produzione, non articolati e ramificati nella società con propri solidi apparati ideologici e culturali funzionali all’organizzazione del consenso), quali la Russia e la Cina, o in paesi “periferici” rispetto ai paesi capitalistici centrali. Le grandi rivoluzioni russa e cinese sono state indubbiamente favorite dalle contraddizioni interimperialistiche e dalla guerra, che hanno impedito o reso difficile l’intervento di una coalizione imperialistica controrivoluzionaria. Lo stesso può dirsi per l’affermarsi delle “democrazie popolari” nel secondo dopoguerra nell’Europa centro-orientale e nei Balcani. Le rivoluzioni anticoloniali dirette da forze socialiste e comuniste, dall’Algeria a Cuba al Vietnam, hanno usufruito, in modo diretto o indiretto, del quadro dei rapporti di forza internazionali emersi dopo la seconda guerra mondiale, in cui un blocco militare e politico di paesi costituiva – anche se non sempre in modo limpido e coerente – una retrovia e un contraltare all’imperialismo. Fino alla metà degli anni 1970 – il momento culminante è la sconfitta USA in Vietnam – l’onda lunga del  processo rivoluzionario mondiale avviatosi con l’ottobre sovietico sembrava continuare, nonostante alcune involuzioni, arretramenti, incoerenze, defezioni. Una parte consistente del globo si era sottratta ai meccanismi dominanti del mercato capitalistico mondiale e controllava, attraverso il potere statale, flussi di capitali, investimenti, transazioni commerciali. Non era fuori del mercato mondiale, ma ne limitava e controllava la penetrazione capitalistica nella propria area di influenza. Da questo punto di vista, che vi fosse in URSS il conclamato “socialismo maturo” (come scrivevano i manuali del periodo brezneviano) o una forma generalizzata di capitalismo di stato diretto secondo un piano centrale, è questione secondaria: rompendo in modo duraturo il mercato capitalistico mondiale, le rivoluzioni socialiste del XX secolo si possono concepire come le casematte, le retrovie del proletariato mondiale in una lunga guerra di posizione che non può risolversi nell’arco di qualche settimana o qualche anno. Le rivoluzioni russa, cinese, cubana, vietnamita hanno spezzato gli anelli più deboli della catena imperialista. Una catena che, tuttavia, è riuscita, dopo una fase di sbandamento, a conservare ben saldi gli anelli più forti e a stringere le fila per la sua controffensiva.


La dissoluzione dell’URSS e il rapido processo di restaurazione nei paesi dell’Europa centro-orientale costituiranno ancora a lungo oggetto di indagine storico-teorica. Alla sconfitta hanno contribuito molteplici fattori, che si sono concentrati e condensati tra il 1989 e il 1991. Nella prospettiva che si è qui delineata, in cui la rivoluzione sovietica si presenta storicamente come la sottrazione di un’importante zona del mondo, di una “casamatta”, al mercato capitalistico mondiale e all’imperialismo, la stagnazione economica, le inefficienze e gli sprechi che affliggevano in misura crescente l’economia di questo paese soprattutto negli anni ’80 – scandalose se riferite ad una società socialista sviluppata – hanno un peso relativo. Con un’economia e un livello di vita delle masse ben inferiore l’URSS fu capace – pur pagando un prezzo altissimo in vite e beni distrutti – di respingere l’aggressione dell’esercito hitleriano, che aveva piegato già mezz’Europa. La crisi che ha investito la società sovietica è stata soprattutto di carattere politico e ideologico-culturale. Altri paesi, come Cuba, con condizioni e potenzialità economiche ben inferiori a quelle dell’URSS, ma con una direzione politica diversa, hanno resistito e resistono all’offensiva imperialistica, valutando che l’obiettivo principale in questa fase non è il passaggio diretto e immediato al socialismo, ma il mantenimento del potere politico nelle mani del proletariato.

 

3. Controcorrente: un centro per coordinare gli studi sulle rivoluzioni del ‘900


Una proposta per riprendere il filo interrotto di un lavoro indispensabile allo stato attuale viene dal convegno svoltosi un anno fa a Napoli[16], dove studiosi militanti di diverse competenze specialistiche – storici, filosofi, economisti, scienziati, sociologi, giuristi, storici della cultura, politologi – hanno affrontato alcune delle più importanti questioni, di approccio metodologico e di analisi storica, della storia dell’URSS, con il progetto, ben più ambizioso e controcorrente, di dar vita a un Centro studi sui problemi della transizione al socialismo.

La ragione principale per cui si dà vita a tale Centro è la necessità di non disperdere un inestimabile patrimonio di esperienze di lotte del proletariato e dei popoli oppressi che si sono posti l’obiettivo di dar vita ad una società socialista. La conoscenza, lo studio, la memoria storica, la divulgazione di questo grande patrimonio di esperienze sono oggi uno strumento importante, essenziale, per poter pensare e praticare la trasformazione dei rapporti economico-sociali. Il ruolo che può quindi svolgere il Centro non è affatto quello di ricordare le rivoluzioni socialiste, con l’occhio rivolto al passato, per archiviarle definitivamente, ma di studiare quelle esperienze per apprendere[17] da esse, dai loro successi, dai loro errori, con l’occhio rivolto al presente e al futuro.


L’apprendimento è un processo che può compiersi solo sulla base dell’esperienza. Vi è una bella pagina di Lenin, scritta nel momento drammatico del passaggio alla NEP, quando, vinta la battaglia sul piano militare, si trattava di vincere la ben più difficile guerra, sul piano economico, della costruzione di una nuova economia basata su principi socialisti. Nel discorso tenuto alla VII Conferenza del governatorato di Mosca (ottobre 1921), egli esordisce citando un episodio della guerra russo-nipponica che “ci aiuterà a farci un’idea più precisa del rapporto che esiste tra i vari sistemi e procedimenti politici in una rivoluzione”; si tratta della presa di Port Arthur da parte del generale giapponese Nogi. La presa avviene in due fasi ben distinte: la prima è quella di assalti accaniti, finiti con pesanti insuccessi; la seconda, un lungo assedio duro e difficile, che si conclude con la presa della fortezza. Fu un errore la prima fase di “guerra di movimento”? Lenin spiega che, se a prima vista la risposta sembrerebbe molto semplice, tuttavia “nella soluzione di un simile problema, che presentava moltissime incognite, era difficile, senza la necessaria esperienza pratica, determinare con assoluta esattezza o anche con un sufficiente grado di approssimazione quali fossero i procedimenti da applicare contro la fortezza nemica. Era impossibile determinarlo senza aver praticamente sondato la forza rappresentata dalla fortezza, la potenza delle sue difese”, ecc. All’inizio delle operazioni, l’unica tattica possibile, necessaria e utile era quella dell’assalto; solo dopo il processo di apprendimento, sulla base dell’esperienza, risulta vincente la scelta dell’assedio[18]. Il modo in cui Lenin imposta dialetticamente la questione dell’«errore» può essere proficuamente esteso alla comprensione dell’esperienza delle rivoluzioni socialiste del ‘900: troppi lavori, infatti, ignorando il difficile e doloroso processo di apprendimento nel corso del primo grandioso “assalto al cielo” tentato nella storia dell’umanità, sono costruiti contrapponendo metafisicamente il “dover essere” della rivoluzione (ricavato – ma anche qui ci si è presto divisi in diversi filoni interpretativi – dai “classici” del marxismo) al movimento reale delle società che si andavano formando, col risultato che il reale, non potendo corrispondere al modello, non poteva essere spiegato che attraverso categorie altre, quali il tradimento, la macchinazione, il complotto.


Se continuiamo a leggere la storia delle transizioni al socialismo con le categorie della polemica politica del tempo, dei rispettivi tempi in cui la polemica e lo scontro, senza esclusione di colpi, si svolsero, non faremo molta strada. Non è dunque, operazione archeologica, o “accademica”, di uno studio fine a se stesso, né “nostalgica”, né soltanto una pur doverosa e necessaria difesa di una grande esperienza storica oggi sottoposta ad attacchi liquidatori e infamanti. È invece un lavoro di lunga lena sul fronte culturale, non meno importante, dal punto di vista strategico, della lotta sul fronte politico o sindacale. Il lavoro sul fronte culturale è strategico. Tanto più lo è questo tipo di lavoro, che mira a studiare e diffondere la conoscenza delle rivoluzioni socialiste. Nessun “altro mondo è possibile”, nessun progetto e nessuna pratica politica per dar vita ad una società libera dallo sfruttamento e dall’oppressione sono seriamente pensabili senza fare i conti con le esperienze delle trasformazioni socialiste del XX secolo – e quelle tuttora in corso – e, in particolare, con quella che è stata la più grande e duratura nel tempo, la storia dell’URSS.


La questione della transizione va non solo riproposta sull’agenda delle iniziative politico-culturali – contro una deliberata damnatio memoriae -, ma anche indagata e compresa ancora in molti suoi aspetti. Per citarne solo alcuni:

- il modo in cui si è svolta la complessa vicenda storica delle rivoluzioni del ‘900 e il perché esse siano state sconfitte;

- la “anatomia della società socialista”, a partire dall’analisi materialistica dei rapporti di produzione;

- la produzione teorica elaborata su quelle esperienze, sul problema dell’organizzazione di un’economia fondata sulla proprietà sociale e diretta secondo un piano;

- il problema della organizzazione e direzione politica delle società socialiste;

- l’elaborazione teorica sulla concezione del diritto e dello stato;

- il nodo delle relazioni internazionali;

- la creazione di una nuova cultura.


Lo studio di queste esperienze non è, non può essere, “neutro”, anodino, “accademico”, fine a se stesso. Esso è – come del resto dimostra il libro che raccoglie gli atti del convegno di Napoli – “di parte”, sta dalla parte di chi si batte per l’emancipazione dell’umanità dallo sfruttamento capitalistico e imperialistico. È uno studio che guarda alla storia di classi sociali e di uomini in carne ed ossa, che si sono avviati sul difficile cammino della costruzione del socialismo, con gli occhi di chi a quella prospettiva non ha rinunciato e da quella storia vuole apprendere. È lo studio di chi quell’esperienza non vuol liquidare, né infangare o demonizzare, ma comprendere. Ma studio– serio, rigoroso, critico, scientifico, condotto con la più grande onestà intellettuale – ha da essere, non pura e semplice divulgazione o ripetizione di “verità” date per scontate, agitate come una bandiera. Non si possono “mettere le braghe” a questo studio, né pretendere che vi sia assoluta unanimità di vedute, di approcci, di conclusioni. Lo studio implica un approccio critico alle questioni (tutta l’opera di Marx è una grande critica) e implica che si prendano in esame i diversi approcci, che vi sia un confronto costruttivo tra studiosi, senza anatemi pregiudiziali. La nostra grande ambizione è fornire gli strumenti perché i comunisti, le nuove generazioni, i movimenti che oggi lottano contro lo sfruttamento, l’oppressione, le discriminazioni dell’odierno imperialismo possano comprendere  – liberi da approcci demonizzanti o acriticamente apologetici – le rivoluzioni del ‘900 e apprendere da esse.


Il riproporre la questione della transizione al socialismo invitando allo studio, appassionato e rigoroso a un tempo, delle esperienze di trasformazione socialista è oggi, nel clima culturale e politico in cui siamo immersi, impresa “eversiva”, controcorrente e, come ben sappiamo, irta di grandi difficoltà. La sola costituzione di un centro con questi intenti e queste premesse è di per sé un segnale di cui andrebbe colta in pieno la portata.

 




NOTE:

[1] Direttore del Centro studi sui problemi della transizione al socialismo.

[2] Sull’espressione correntemente usata, cfr. la puntualizzazione di Aldo Agosti nel suo articolo Trasformazioni economiche e sociali e negazione del socialismo”, in L’Ernesto, 2001, n. 3, inserto speciale sul “socialismo realizzato”: «“Socialismo reale”, “socialismo realmente esistente”, “socialismo realizzato”: tutte queste definizioni, coniate dai gruppi dirigenti dei partiti comunisti al potere nel periodo brezneviano, sono entrate a far parte del linguaggio politico corrente verso la metà degli anni ’70 per designare, di fatto in polemica con l’eurocomunismo che teorizzava una “terza via” tra modello sovietico e socialdemocrazia, la realtà politica e sociale dei paesi appartenenti al blocco socialista , e sono state da allora considerate sostanzialmente sinonimi. In realtà di ciascuna di queste definizioni sarebbe interessante fare la storia, perché ciascuna nasconde, magari inconsapevolmente, delle sfumature».

[3] Diversi apprezzabili tentativi di riprendere a studiare attraverso le categorie marxiste le questioni della transizione e del socialismo nell’esperienza storica delle rivoluzioni socialiste del XX secolo sono rimasti confinati in cerchie purtroppo piuttosto limitate e ristrette. Si veda ad esempio il dibattito aperto da Intermarx, "rivista virtuale di analisi e critica materialista" o il già citato numero speciale de L’Ernesto, nonché il convegno internazionale di Urbino, unico svoltosi in Italia in occasione dell’ottantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, i cui atti sono raccolti in D. Losurdo, R. Giacomini (a cura di), URSS: bilancio di un’esperienza, QuattroVenti editore, Urbino, 1999.

[4] S. Courtois et alii, Le livre noir du communisme, R. Laffont ed., Parigi, 1997.

[5] Cfr. alcuni interventi, in particolare di Luciano Canfora e Domenico Losurdo, oltre a quello dello scrivente pubblicati sul Manifesto e raccolti in Sul libro nero del comunismo, manifestolibri, Roma, 1998.

[6] Uno degli ultimi esempi in ordine di tempo è costituito daalcuni articoli pubblicati da Repubblica, il 21.1.04, in occasione dell’ottantesimo anniversario della morte di Lenin, con il significativo titolo “Il peccato originale”, in cui Martin Amis, presentato come “padre spirituale del New Labour di Tony Blair”, afferma che le rivoluzioni “istillano amore per la violenza [...] è bello in teoria pensare che la rivoluzione abbatte la tirannide. Ma il sangue e la violenza generano quasi sempre altro sangue e altra violenza […] l’innesto del comunismo nella Russia del 1917 è stata una tragedia di cui quel paese porta ancora le conseguenze […] Fu Lenin a distruggere la società civile, a far trucidare barbaramente lo zar e tutta la sua famiglia, a creare uno stato di polizia, a usare la carestia come un’arma di repressione e ricatto”. E via demonizzando…

[7] È il titolo del libro di A. von Hayek, La presunzione fatale - gli errori del socialismo, Rusconi, Milano, 1997, che è una requisitoria contro la possibilità stessa del socialismo.

[8] Con questo titolo fu salutato in un articolo di D. Iervolino (in A sinistra, settembre 1991) il golpe vero di Eltsin dell’agosto del 1991, che mise al bando il PCUS.

[9] Per un quadro sintetico e piuttosto esauriente delle analisi e dei tentativi di spiegazioni prodotti nell’ultimo decennio degli anni ’90 sul crollo del sistema sovietico, cfr. A. Höbel, “Il crollo dell’Unione sovietica. Fattori di crisi e interpretazioni”, in Problemi della transizione al socialismo in URSS, La città del sole, Napoli, 2004.

[10] Uno dei manifesti ideologici di questo nuovo dogma fu il documento “Uomo, libertà, mercato”, firmato da numerosi economisti e pubblicato nelle Izvestija del 4 settembre 1990, penultimo anno di esistenza dell’URSS.

[11] Cfr. 15 tesi per il congresso di Rifondazione comunista- contributo di Fausto Bertinotti, in Liberazione, 12.9.04.

[12] Cfr. Liberazione del 20.1.04.

[13]Questa parte riprende riflessioni già pubblicate precedentemente in altri scritti, in particolare: La transizione bloccata – Il “modo di produzione sovietico e la dissoluzione dell’URSS, Laboratorio politico, Napoli, 1998; “Sulla transizione al socialismo – considerazioni inattuali”, in La Contraddizione, n. 100, Roma, 2004.

[14] K. Marx, Il Capitale, Libro III, Editori Riuniti, 1967, pp. 522-23.

[15] Cfr. sezione III dell'Antidühring, "Socialismo", cap. II, "Elementi teorici".

[16] Gli atti sono pubblicati nel già citato volume Problemi della transizione al socialismo in URSS e contengono relazioni e interventi di A. Bernardini, C. Carpinelli, A. Catone, A. Chiaia, F. Dubla, G. Fresu, M. Gemma, R. Giacomini, K. Gossweiler, M. Graziosi, A. Höbel, H. H. Holz, A. Leoni, D. Losurdo, S. Manes, A. Martocchia, A. Mazzone, G. Oldrini, L. Pace, G. Pala, F. Sorini.

[17] Sul “processo di apprendimento” dall’esperienza storica, mi sembra di grande importanza metodologica quanto scrive Domenico Losurdo. Cfr. «Stalin, le delusioni del messianismo rivoluzionario e il mito della “rivoluzione tradita”», in Problemi della transizione al socialismo in URSS, op. cit.

[18] Cfr. Opere complete, vol. 33, pp. 68 sgg.

 

(in : Marxismo Oggi, n.2, 2004)