da http://www.ricercastoricateorica.org/Novecento/CATONE-comunisti-900.htm#_ftn1
I comunisti
e la storia delle rivoluzioni socialiste del '900.
Una questione da archiviare?
di Andrea Catone[1]
1. Il ripudio di una grande eredità storica
Sono trascorsi quindici anni dal 1989, anno oramai ricordato da molti manuali di storia e nella pubblicistica dominante che costruisce il senso comune delle masse come “magnifico” per la caduta del muro di Berlino e il crollo, nei paesi dell’Europa centro-orientale, delle “dittature comuniste”, che apriva la strada alla dissoluzione dell’Unione sovietica accettata supinamente e sancita ufficialmente alle fine del 1991 dall’ultimo segretario di un già disciolto PCUS e ultimo presidente dell’URSS, Michail Gorbaciov.
Se, a ridosso di quegli eventi che, inattesi nella loro rapidità e portata, mutavano il corso della storia e inauguravano una nuova epoca, nient’affatto pacifica e progressiva, di “unipolarismo” militare degli USA e di nuove guerre imperialiste per il controllo e la spartizione dello spazio geopolitico eurasiatico e mondiale liberatosi con la fine dell’URSS, si accesero interesse e dibattiti non solo sulle questioni più immediate e contingenti, ma di carattere strategico, intorno alle cause profonde e di lungo periodo che avevano portato alla crisi e al rapido, catastrofico dissolversi dei regimi politici e sociali del “socialismo reale”[2], nonché sulla natura sociale di quelle società, sui loro caratteri essenziali, sul loro essere e quanto, o quanto poco, o niente affatto “socialiste”, molto presto, troppo presto, su quelle esperienze che tanto hanno pesato nella storia del ‘900 è calato il silenzio, interrotto solo dagli attacchi forsennati di chi, non contento della vittoria raggiunta sul campo, chiedeva abiure ideologiche radicali e definitive.
È davvero singolare e indicativo di un arretramento politico-culturale senza precedenti che gli unici dibattiti pubblici di una certa risonanza[3] siano stati suscitati come risposta alla provocazione editoriale del Libro nero del comunismo[4]che usciva con singolare tempismo a “commemorare” l’ottantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, accusata di essere all’origine di un “totalitarismo comunista” che avrebbe provocato, con la propagazione del comunismo nel mondo, cento milioni di morti, molte volte di più delle vittime del nazismo. In tal modo, nonostante repliche e puntualizzazioni che, dati alla mano, ridimensionavano di diversi zero le cifre delle “vittime del comunismo” e invitavano a contestualizzare gli eventi all’interno di una storia dominata dalla violenza dell’imperialismo, respingendo al mittente la categoria di “totalitarismo” e la conseguente equiparazione di nazismo e comunismo[5], l’operazione editoriale “libro nero” centrava uno dei suoi obiettivi, che era quello di far arretrare tutto l’asse del discorso dal piano della ricerca e dell’approfondimento delle conoscenze sulle esperienze di transizione al socialismo e sulle cause della loro sconfitta venuta a maturazione nel 1989-91, a quello della difesa della legittimità di quei tentativi. Invece che su “modo di produzione”, “rapporti di proprietà”, “classi sociali”, “socializzazione dei mezzi di produzione”, “pianificazione”, il discorso verte ora su repressioni, violenze, massacri, gulag. E dal 1997 ad oggi non si è manifestata alcuna inversione di tendenza, tutt’altro. Sulle pagine dei grandi quotidiani si parla di Unione Sovietica e della storia degli altri paesi del “socialismo reale” solo per associarla all’infamia di una violenza senza limiti[6] di un’utopia negativa ammalata della “presunzione fatale”[7] di costruire una società al di fuori delle regole del mercato capitalistico, una “società regolata” (come Antonio Gramsci definiva nei Quaderni del carcere il socialismo) dalla proprietà sociale e dalla pianificazione.
Ma non si tratta solo della grande stampa borghese, nella cui tradizione si ritrovano già da tempo simili argomentazioni e toni, in cui la storia delle esperienze di transizione al socialismo viene ridotta a teratologia, a una sequela mostruosa di violenze. Lo spostamento dell’asse del discorso, di tutto l’asse del discorso, entro l’orbita tracciata dal “libro nero” sembra presentarsi inequivocabilmente anche in chi aspira a farsi portavoce del “nuovo movimento no global”. Il recente dibattito sulle pagine del Manifesto e di Liberazione su violenza/non-violenza ha contribuito a spostare ulteriormente l’asse del discorso e ad accentuare la condanna e la rimozione dello studio della storia delle rivoluzioni socialiste del ‘900.
A quindici anni dall’89 siamo oggi di fronte a un fatto evidente: la storia
delle rivoluzioni comuniste del ‘900 - tra le quali vanno comprese anche quelle
che non sono state spazzate via dall’ondata del 1989-1991 e hanno resistito in
modi e forme diversi e contraddittori, non omologabili in un unico blocco, da
Cuba alla Cina - è in gran parte ignorata, pochissimo studiata nei suoi
svolgimenti reali e, soprattutto, l’interesse a studiarla e conoscerla da parte
di chi agita oggi la bandiera di un “nuovo mondo possibile” è scarsissimo, se
non nullo. Queste esperienze sono ora ripudiate, e condannate ad una damnatio
memoriae.
Con ciò non s’intende dire che non continuino studi seri e documentati, anche sulla scorta del nuovo materiale d’archivio disponibile dopo il 1991 (e dal quale risultano fortemente ridimensionate le cifre da galleria degli orrori presentate da R. Conquest sulle vittime della repressione nel periodo staliniano), ma che non c’è allo stato attuale nessun organico lavoro di studio su quelle esperienze da parte di chi si ritiene, a torto o a ragione, portatore di progetti e lotte per un radicale cambiamento sociale (che non si vuole o non si osa più chiamare coi nomi di socialismo e comunismo), rappresentante e voce degli sfruttati e oppressi, di cui proclama la volontà di emancipazione. Insomma, di chi si richiama in qualche modo agli ideali e al nome del comunismo.
Siamo di fronte al caso del rifiuto, anzi, del ripudio in blocco di una grande
e sinora ineguagliata eredità storica. Siamo oggi di fronte
all’invocazione di una cesura netta con la storia lunga decenni di centinaia di
milioni di persone. Siamo passati dalla rimozione che è – freudianamente –
inconsapevole, al ripudio coscientemente voluto e proclamato. Certamente non
tutte le voci comuniste oggi sono così, ma questa tendenza si sta ampiamente
affermando come senso comune. E, comunque, quand’anche – nei casi migliori –
quella storia non venga apertamente ripudiata, essa è però considerata con
freddezza, con distacco, senza nessuna grande passione e tensione politica e
culturale, che sono un ingrediente essenziale per poter guardare al passato
senza annegare in un mare di anonime carte d’archivio. Quella passione politica
e culturale, quella capacità di indignarsi contro le infamie dell’avversario e
di sentirsi parte in causa nelle lotte del proletariato, che guidava, anche
nelle pagine più apparentemente fredde della “anatomia della società borghese”
e dei cicli di accumulazione del capitale, l’opera di Karl Marx. Gli scritti di
storia contemporanea di Marx – dalla ricostruzione della contenibile ascesa di
Napoleone il piccolo alla gloriosa Comune di Parigi - sono sempre stati appassionati
e di parte, senza perdere in lucidità e criticità. Marx analizzava
appassionatamente e partigianamente la storia della sua parte, indicandone
impietosamente gli errori, traendo lezioni da essi, ma sentendosi parte in
causa, dalla parte del proletariato. E così Engels, Lenin, Gramsci, quando
guardano alle vicende e alle lotte recenti o meno recenti delle classi oppresse
e sfruttate, dalla guerra dei contadini nella Germania del primo Cinquecento
agli operai torinesi, “uomini in carne e ossa”, sconfitti in uno dei più duri
ed emblematici scontri di classe del primo dopoguerra.
Invece, alle rivoluzioni comuniste del ‘900, al più duraturo e complesso
movimento di trasformazione della società che le classi oppresse e sfruttate
abbiano conosciuto nella storia, deve toccare in sorte se non il ripudio,
freddezza e distacco. La storia delle rivoluzioni del ‘900 viene sentita da chi
dovrebbe raccoglierne tutta la grande eredità positiva come storia altra,
affatto estranea. Questa presa di distanza è stata declinata in passato in vari
modi, non necessariamente denigratori, il più persistente dei quali è stata la
rivendicazione orgogliosa di una peculiare e storicamente consolidata diversità
del comunismo italiano rispetto al “comunismo orientale” dell’URSS e delle democrazie
popolari. Questo marcare una propria peculiare diversità, se serviva nella
lotta politica immediata a controbattere le violente campagne denigratorie e ad
evitare di essere travolti da esse, incideva però nel senso comune una distanza
abissale: il “comunismo orientale” finiva con l’apparire proprio un altro mondo
e la presa di distanza, la rivendicazione di diversità, spianavano la strada
alla rottura di un orizzonte comune condiviso, che sarebbe divenuta più tardi
un abisso incolmabile.
Nella rivendicazione orgogliosa della peculiarità e specificità del comunismo
italiano, nell’accentuarne i tratti di differenza piuttosto che gli elementi
comuni era in
nuce la futura presa di distanza e il distacco netto e radicale da
quell’esperienza. Ma per tutta una fase l’esperienza dell’URSS e del
“socialismo reale” è stata comunque osservata con un atteggiamento che possiamo
definire di “simpatia critica”, intendendo con “simpatia” un “sentire insieme”,
una compartecipazione e coinvolgimento sentimentali. La presa di distanza
critica non significava allora il ripudio o l’indifferenza.
Il 1989-91 segna evidentemente un punto di non ritorno. Si presenta qui per la
prima volta in modo diffuso la parola di “fallimento”, adoperata in modo
generico e ambiguo quale categoria interpretativa generale di tutta
la storia delle rivoluzioni comuniste del ventesimo secolo. In precedenza
nessuno dei critici dell’URSS o dello “stalinismo” aveva avanzato
massicciamente e diffusamente tale ipotesi. I più accesi critici di sinistra
parlavano di “controrivoluzione” o “degenerazione burocratica”, o della nascita
di un mostro sociopolitico non ben classificabile, un nuovo potente Leviatano
nella forma di un capitalismo di stato sui generis. Ma non era presente
all’orizzonte la lettura di questa storia come “fallimento”. Una rivoluzione “tradita”
o sconfitta
da preponderanti forze esterne, o insidiata e rovesciata da una
controrivoluzione interna, mantiene tutta la dignità delle sue ragioni
fondatrici, ed anche le potenzialità. Essa può ripresentarsi e riaffermarsi con
nuovo vigore. Nel gioco crudele e alterno delle vicende lunghe della storia, la
sconfitta è solo un momento di una lunga partita più vasta e complessa
ingaggiata con un potentissimo avversario. La Comune fu sconfitta, la
rivoluzione del 1905 fu sconfitta, ma poi venne il 1917. Anch’esso è risultato
alla lunga sconfitto da pesanti errori di direzione politica intervenuti nel
corso della transizione socialista, dal coalizzarsi di forze esterne che hanno
reso sfavorevoli i rapporti di forza. Ma dopo la sconfitta potrebbe
riprendere con forze rinnovate la sua marcia e ingaggiare battaglie vittoriose.
“Fallimento”,
al contrario, implica la messa in discussione delle origini stesse, delle
finalità della rivoluzione, dei suoi presupposti teorici e politici. Dunque, la
ricerca di un “peccato originale”. Di fronte al rapido liquefarsi di regimi
politici che solo qualche anno prima apparivano ancora abbastanza solidi,
almeno sul piano dell’apparato statale, la parola fallimento sembrava il
minimo che si potesse dire di quanto stava accadendo. Ci fu invero qualcuno che
inneggiò a “rivoluzioni democratiche e non violente”[8] e volle leggere l’89 come una nuova primavera dei
popoli liberati dalla tirannide, cui si spianava la strada di magnifiche sorti
e progressive della democrazia e dello sviluppo, ma molto rapidamente – almeno
nella parte critica marxista – queste illusioni furono abbandonate di fronte al
disastro sociale successivo alla caduta delle democrazie popolari e dell’URSS e
ai programmi ultracapitalistici e di restaurazione politica e culturale (in
alcuni casi con la rilegittimazione di forze apertamente fasciste) che i nuovi
“democratici” stavano attuando, burattini nelle mani dei grandi monopoli
transnazionali e delle politiche dei loro stati imperialisti. Non c’era stata,
come avevano teorizzato Trockij e la IV Internazionale, l’auspicata rivoluzione
proletaria contro l’odiata “burocrazia”, ma il trionfo di una borghesia compradora delle
peggiori. Quando la nottola di Minerva prese il volo, rovesciati i regimi
politici e passati di campo molti di quei dirigenti che si proclamavano i più
tenaci e fidati comunisti, si passò quindi a leggere tutta la storia delle
rivoluzioni come “fallimento”. Sembra normale e ovvio usare questa parola, ma
essa non è neutra né innocente. E chi ne fa uso mette in discussione dalle
fondamenta l’intero progetto comunista. O, almeno, tutta la storia delle
rivoluzioni del ‘900, a partire da quella più dirompente e duratura, che dette
il “la” ad un intero secolo e da cui si propagarono altre rivoluzioni
socialiste, possenti movimenti anticoloniali e antimperialisti, partiti
comunisti che organizzarono e diressero lotte fondamentali e il movimento dei
lavoratori nelle cittadelle capitalistiche, contribuendo a sconfiggere il
fascismo con la resistenza popolare e a trasformare parzialmente gli stati,
strappando non disprezzabili (e oggi perduti e rimpianti) diritti e garanzie
per le classi operaie: la rivoluzione d’Ottobre.
Ma in questo modo si tagliava più o meno consapevolmente il ramo su cui poggiava la prospettiva socialista del ‘900. Nell’apparente constatazione di un’ovvietà si confluiva, nolens volens, nelle maglie del vecchio discorso borghese sul peccato originale del ‘900.
I tentativi di ricostruzione analitica di un percorso complesso, di indagine
differenziata sulle ragioni della dissoluzione dell’URSS non sono certo mancati[9]. Ma nel senso comune della sinistra è passata la
spiegazione più semplicistica e semplificatoria, quella che evitava di
cimentarsi con le asprezze, le difficoltà, le contraddizioni degli andirivieni
della storia di uomini in carne ed ossa, e cercava, con un colpo di bacchetta
magica, il passepartout
della soluzione immediata a una questione tanto complessa. Invece che seguire
un percorso, si troncava la questione all’origine, se ne dava, al pari delle
peggiori semplificazioni propagandistiche borghesi, una spiegazione monocausale
immediatamente spendibile sul mercato della politica quotidiana: fallimento.
Per cui si preferisce voltare pagina, provare a scriverne una del tutto nuova,
totalmente e candidamente bianca, senza doversi sobbarcare il peso di
un’eredità ingombrante. È l’equivoco del “nuovo inizio” senza aver regolato i
conti con la propria storia. Si può leggere come complementare a questa
semplificata rappresentazione ideologica anche la presentazione del nuovo
movimento “no global” come figlio di se stesso, autofondantesi, senza alcun
rapporto con la precedente storia.
L’aspetto più inquietante di questa operazione di cesura netta e di ripudio di un’intera storia è nell’illusione di una rapida scorciatoia: non è una negazione dialettica (ciò implicherebbe la fatica del discernere, dell’analizzare, del fare i conti in modo particolareggiato con il passato comunista), ma la rimozione, l’evacuazione del problema, che viene apparentemente assunto in tutto il suo peso, per essere subito dopo cancellato.
Quando, sull’onda della caduta del muro di Berlino, il PCI subisce una
“mutazione genetica” che richiede di cambiare, in un atto che non è
assolutamente una mera concessione all’esteriorità, anche simboli,
denominazione, icone, si sancisce esplicitamente un passaggio di campo teorico:
tutta l’esperienza storica delle rivoluzioni del ‘900 e in particolare
dell’URSS è vista come un fallimento. Il fallimento non è la
sconfitta. Il fallimento implica la radicale messa in discussione dei
presupposti su cui si fondarono i partiti comunisti, dell’ideologia, del
progetto, delle prospettive. A differenza dal passato, in cui la cultura del
PCI aveva progressivamente preso le distanze dall’URSS, non si trattava qui di
condannare errori di un modello – era già stato elaborato per una breve
stagione l’eurocomunismo della “terza via” – l’autoritarismo, la scarsa
democrazia, ecc., ma il progetto stesso. Insomma, si prendeva atto che non di
errori o di incidenti di percorso si era trattato, ma di una pretesa sbagliata
nei suoi presupposti, alla radice: il socialismo, la società socialista era
l’errore. La pretesa di passare ad un altro modo di produzione, ad altri
rapporti di proprietà, era l’errore. L’unico modo di produzione adeguato era
quello del capitale, da innervare possibilmente di “democrazia”, ma pur sempre
capitale. Tutto l’asse del discorso si spostava sulla “democrazia”, ma intesa
puramente nei suoi meccanismi formali di regole del gioco da rispettare, di
“stato di diritto”, ben lontana dunque dalla visione togliattiana di una
“democrazia progressiva” che, attraverso una ben organizzata “guerra di
posizione” spostasse progressivamente i rapporti di forza e modificasse la
struttura economico-sociale del paese in senso socialista (le “riforme di
struttura”). Ecco perché il partito si trasformava in partito democratico e
cassava la parola stessa non solo di “comunismo”, ma anche di “socialismo”.
Rottura con le radici del ‘900 e abbandono della prospettiva socialista procedono di conserva, crisi dell’URSS e avanzare del neoliberismo vanno di pari passo, si sostengono a vicenda. L’ideologia del PCI subì l’attacco neoliberista e vi cedette, ritirandosi non dal comunismo, ma dalla stessa tradizione socialdemocratica: fu progressivamente abbandonato il ruolo che allo stato si assegnava nella trasformazione sociale, non si rivendicò più l’intervento statale in economia, si accettarono le privatizzazioni. D’altro canto, il crollo dell’URSS poteva essere portato a sostegno della tesi del fallimento dello “statalismo”, rafforzava la proposta “neoliberista”. In conclusione, la nuova chiave interpretativa offerta dal PCI (poi DS) post 89 per la storia delle rivoluzioni del ‘900 fu di tipo liberaldemocratico. Erano le stesse conclusioni cui giungevano i “democratici” eltsiniani e lo stesso Gorbaciov in URSS dopo il 1989: il problema non era quello di buoni o di cattivi dirigenti, che avevano indirizzato in senso sbagliato la politica sovietica, il problema non era Stalin o Berija o Breznev, ma il sistema in sé, la proprietà statale dei mezzi di produzione, l’assenza di mercato e proprietà privata capitalistica. Si passò rapidamente al dogma – sulla scia di von Hayek – che senza mercato capitalistico non può esservi democrazia. Tutta la grande questione della vita democratica nella società socialista veniva aggirata e resa obsoleta con un colpo da maestro: è il mercato e solo il mercato (capitalistico, va da sé!) che consente la democrazia; democrazia senza mercato non può darsi. La forza semplificatrice di questa impostazione mistificante – paradossalmente “marxista” sui generis, in quanto indicava una causa strutturale, nell’organizzazione economica, e non sovrastrutturale, politica o etica – è evidente. Una richiesta di democrazia si legava così a quella di passaggio al mercato, cioè allo smantellamento della proprietà statale e alla sua privatizzazione[10].
Ma sulla base di queste premesse non vi è più alcun interesse ad individuare le
fasi storiche, gli snodi, i passaggi cruciali, i diversi andirivieni di una
storia complessa. Ormai è stato individuato il peccato originale, che è
nell’idea che si possa arrivare ad una proprietà sociale dell’intera società, a
socializzare i mezzi di produzione. Non si discute più se la socializzazione in
URSS sia effettiva o fittizia, o inceppata da meccanismi sfuggiti al controllo,
o parziale, imperfetta, ma si mette in discussione la socializzazione in sé, la
prospettiva stessa del comunismo viene considerata falsa e criminale, un’utopia
negativa irrealistica che presume di poter mettere sotto controllo tutto il
mondo, un mondo che tuttavia il pensiero borghese ritiene non pianificabile. La
conclusione che si tira è la stessa delle critiche anticomuniste del primo
‘900: il terribile leviatano comunista è figlio di questa pretesa, la violenza,
la repressione, il totalitarismo, sono conseguenze necessarie di questo folle
progetto; Stalin non è la deviazione da un percorso sano, ma l’esplicazione, la
realizzazione di questo; l’errore non è in Stalin, ma in Lenin. Del resto, il Libro nero
del comunismo attacca in primo luogo proprio l’ideologia comunista
per dimostrare una coerenza e consequenzialità tra le premesse teorico-politiche
e gli orrori del gulag. Stato, proprietà statale, intervento statale
nell’economia sono bollati come “statalismo”, che al meglio genera burocratismi
e al peggio totalitarismo criminale.
A questa impostazione perciò non interessa guardare i diversi passaggi della
storia del ‘900, interessa denunciare l’errore originario e prendere
definitivamente le distanze da tutta quella storia. Persino da quella delle
socialdemocrazie, accolta e legittimata solo in quanto progresso democratico,
lotta per lo stato di diritto, non per l’obiettivo della socializzazione dei
mezzi di produzione su cui tanto insistevano anche i più decisi avversari di
Lenin, quali gli austromarxisti degli anni Venti. Forse si è fatto poco caso al
fatto che la trasformazione del PCI in partito democratico della sinistra ha
significato l’abbandono di ogni prospettiva socialista e dunque anche di ogni
interesse a cercare nella storia del comunismo mondiale degli esempi da imitare
o degli errori da evitare: non si trattava più di errore - l’errore implica
l’esistenza di una via giusta da cui si è errato, deviato -, ma di fallimento
iniziale. Confluivano così in questa impostazione le vecchie critiche liberali
e liberiste al progetto comunista. Quelle critiche infatti non si ponevano sul
terreno dell’analisi storica, ma del ripudio ideologico. La storia delle
rivoluzioni veniva studiata solo per trovarvi la dimostrazione
dell’impossibilità del comunismo e della sequela di misfatti che
necessariamente derivano da quella pretesa. La trincea su cui si attestava il
nuovo partito era quella dell’antifascismo, del PCI che promuove la resistenza
come lotta di liberazione dal fascismo, e mai come componente di una lotta per
un nuovo ordine socialista. Dall’eurocomunismo, che si poneva comunque nella
prospettiva di una trasformazione socialista, si passa all’“Ulivo mondiale” di
Clinton, Blair, D’Alema. Viene abbandonato del tutto qualsiasi approccio
socialdemocratico, e persino laburista. Ridotta la democrazia a insieme di
regole, la sinistra democratica non ha un soggetto particolare da
rappresentare: si richiama genericamente al progresso (e chi non lo vuole?) e
ai diritti di cittadinanza. Non più una classe determinata, i lavoratori
salariati e sfruttati dal capitale, ma i cittadini tutti. Rimossa la categoria
marxista di classe, si accoglie per l’analisi storiografica dell’URSS la
categoria di “totalitarismo”, che dai rapporti di classe prescinde: è
pronto il terreno per l’assimilazione di stalinismo e nazismo.
Ma al ripudio delle rivoluzioni del ‘900 giunge anche, per altra via, il nuovo
pensiero del segretario del PRC: “Il movimento operaio è stato il grande
protagonista del secolo ma è stato sconfitto in primo luogo per il fallimento
laddove si è costituito in Stato nelle società postrivoluzionarie nelle quali
le istanze di liberazione per cui era nato si sono anche rovesciate in forme di
oppressione drammatica. La critica allo stalinismo non è quindi semplicemente
la critica alle degenerazioni di quei sistemi ma al nucleo duro che ha determinato
quell’esito ed è per questo motivo il punto irrinunciabile per la costruzione
di una nuova idea del comunismo e del modo di costruirlo”[11]. La presa di distanza netta e senza appello è
dallo “stalinismo”. Un oggetto però non definito nei suoi contorni storici, non
proposto come equivalente di espressioni tipo “l’era di Stalin”, “il trentennio
staliniano” (cosa tra l’altro che è già di per sé una semplificazione che
occulta fasi storiche diverse), ma una categoria negativa dello spirito, una
teoria e una pratica di governo dispotico che si ritrova in tutte le situazioni
in cui una rivoluzione ha conquistato il potere statale. Il “peccato
originale”, che produce il rovesciamento delle istanze di emancipazione in
“forme di oppressione drammatica” è indicato nel “costituirsi in Stato” del
movimento operaio. Diversamente dai liberaldemocratici, Bertinotti non imputa
ai bolscevichi la volontà di trasformare l’economia superando il capitalismo
con la socializzazione dei mezzi di produzione (di cui tuttavia non parla), ma
mette in discussione che a ciò si possa arrivare attraverso la classica strada
suggerita dal Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels: la
conquista da parte del proletariato del potere politico statale e l’avvio, per
mezzo di esso, di profonde incursioni nella proprietà e nella gestione
economica, primo passo di una transizione a un nuovo modo di produzione dei
produttori associati. La conquista e l’uso del potere politico statale per
attuare le trasformazioni sono considerati forieri di pericolosi rovesciamenti
del fine di emancipazione nel suo opposto di nuova e più crudele oppressione.
Scrive infatti Franco Russo: “Il potere è violento, la spada è sempre pronta a
colpire chi si oppone; ma opporsi con la spada dà vita a nuove pratiche sociali
di relazioni solidali e libere o perpetua la violenza e il potere? Abbiamo mai
visto qualcuno deporre la spada, preso il potere?”[12]. Vi è in questa posizione radicale l’idea che
l'uso del medesimo mezzo ti fa diventare come l'altro, ti contamina. È
propriamente un’idea metafisica, mutuata da una cultura che non riesce a
concepire il processo storico, la transizione da una forma sociale
all’altra, attraverso la contraddizione in cui gli opposti si compenetrano, per
dar vita a un “superamento” che non è affatto il puro e semplice annichilimento
dell’opposto, sostituito da qualcosa di totalmente “Altro”, ma, propriamente,
una sintesi, sicché, come scriveva Marx nei suoi appunti critici del programma
socialdemocratico di Gotha, “porta ancora i segni della vecchia società dal cui
seno è uscita”.
Nella ricerca di passepartout semplificanti, lo “statalismo” funge da
architrave per spiegare da sinistra il fallimento. Per questo interessa e
appassiona pochissimo studiare i passaggi attraverso cui si costruisce lo stato
sovietico, la pianificazione, la forma di una proprietà che non è più
capitalistico-borghese e non ancora socialista.
La storia delle rivoluzioni comuniste del ‘900 è stata prima rimossa,
dimenticata, ora ripudiata e condannata al silenzio. Verso di essa non si
mostra oggi nessuna “simpatia critica”, nessuna passione, nessun interesse
militante. La ragione di fondo è che essa viene letta come fallimento, mettendone in
discussione i fondamenti della conquista del potere politico per attuare attraverso
esso la transizione alla proprietà socialista dei mezzi di produzione. La
categoria di fallimento è adoperata da destra (la negazione del mercato
capitalistico porta alla negazione della democrazia); e da sinistra (lo
“statalismo” comporta il rovesciamento e l’eterogenesi dei fini). Il fallimento
è la semplificante chiave di lettura che consente di evitare la fatica
dell’analisi e della ricerca dei percorsi. Dal punto di vista
dell’apprendimento e dell’azione politica presente, quella storia viene considerata
inutile, non interessante, incapace di insegnare alcunché. Il giudizio negativo
è già tracciato, la spiegazione data una volta per tutte. Dagli archivi
sovietici potranno uscire montagne di documenti per lo studio e il lavoro della
cerchia degli studiosi di professione, ma ciò non appassionerà né susciterà
l’interesse dei militanti comunisti più di quanto non faccia un qualche
archivio del medievale impero bizantino.
Oggi non ci troviamo soltanto di fronte ad un “revisionismo storico”. Esso in fondo
ha accompagnato tutta la storia delle rivoluzioni e certe sue argomentazioni
risalgono alle ideologie della restaurazione di primo Ottocento contro i
giacobini. I libri di Conquest sono venuti ben prima del Libro nero e l’attacco al
bolscevismo come inevitabile conculcatore di libertà è coevo allo stesso Lenin.
Nei confronti delle rivoluzioni del ‘900 non è in atto un attacco
revisionistico, ma il ripudio di un’eredità, la fuoriuscita da un orizzonte
entro il quale è stata pensata e praticata la transizione al socialismo. Il
dato attuale è caratterizzato da una grande povertà di studi appassionati e
critici, dalla parte del proletariato, sulle esperienze delle rivoluzioni del
‘900.
Nella situazione politico-culturale data, che, se non contrastata, è prevedibile tenda ad ulteriori cedimenti, la questione dell’eredità delle rivoluzioni socialiste del ‘900 si presenta come battaglia culturale prioritaria. Essa è oggi una delle responsabilità intellettuali più gravi. Nell’assenza, nel silenzio dei comunisti, dei marxisti, è l’altra parte, quella interessata al mantenimento e rafforzamento dell’egemonia dei dominanti che detta l’agenda politico-culturale. Gli intellettuali marxisti dovrebbero rivendicare a pieno questa eredità. Rivendicare un’eredità non significa certo prendere per oro colato tutto ciò che vi è in essa, anche perché essa non si presenta – al contrario di quel che vorrebbero i semplificatori alla ricerca di un passepartout monocausale – come univoca e omogenea, ma fatta di discontinuità, salti, rotture all’interno di un processo di transizione. Ma significa assumerla nel complesso come parte di una propria storia dalla quale riprendere un percorso di emancipazione È una storia che va studiata in modo militante, con “simpatia critica”, cercando di comprenderne il percorso accidentato, senza per ciò essere acriticamente e dogmaticamente apologetici o giustificazionisti.
2. Transizione, una categoria centrale per “lavorare” sulle rivoluzioni del ‘900[13]
La categoria centrale sulla quale organizzare la ripresa di un lavoro serio
sulle rivoluzioni del ‘900 è quella di transizione.
Con la categoria di transizione non si indica il generico movimento storico, il divenire, della società che si sviluppa attraverso le sue contraddizioni (che ogni momento che passa sia un momento di transizione è una banalità tautologica che può accettare anche chi non si pone dal punto di vista del materialismo storico). Transizione implica un periodo più o meno lungo - articolato anche in fasi diverse (la “sussunzione formale” e la “sussunzione reale”, su cui Marx parla diffusamente soprattutto nel capitolo VI inedito del Capitale) - di passaggio da un modo di produzione ad un altro. La transizione, dunque, non si esaurisce né può confondersi col momento della rivoluzione politica o semplicemente del passaggio del potere politico da una classe ad un'altra, anche se quest'elemento politico - la costituzione di un nuovo Stato - svolge un ruolo non secondario e non eludibile nel processo di transizione.
Si può assumere più specificamente sotto la categoria di transizione quella
fase storica in cui convivono più regimi economici in reciproca dipendenza,
collaborazione e/o antagonismo, in cui il vecchio è entrato in crisi, ma non è
stato ancora soppiantato e il nuovo si sta formando, ma non è ancora divenuto
l'elemento principale, che caratterizza e impregna di sé una data formazione
storico-sociale (da cui la differenza, che possiamo riprendere da Lenin, tra
quest'ultima e la categoria di “modo di produzione”). Si può dire che un
processo di transizione giunga a termine quando il nuovo modo di produzione
diviene non l'unico, ma quello determinante e dominante. Avremo così società
caratterizzate da un dato modo di produzione. La fine del periodo di
transizione non significa ovviamente la fine della storia. Il modo di
produzione dominante tende a sottomettere a sé, al suo "scopo della
produzione" (Zweck der Produktion), gli altri modi di produzione che con
esso coesistono in posizione subalterna o a sopprimerli. L'idea di transizione
come fase di coesistenza e antagonismo di più regimi economici è presente
nell'analisi leniniana della situazione economico-sociale russa all'indomani
della rivoluzione d'Ottobre.
L'elaborazione di una teoria marxista della transizione si basa sull'analisi
del processo storico concreto che porta dal modo di produzione feudale a quello
capitalistico. Nell'Introduzione del 1857 Marx ci avverte che,
se è possibile, partendo dalla forma più complessa (la società capitalistica)
comprendere anche le forme precedenti più semplici (società antica, feudale),
in cui sono presenti in forma embrionale i rapporti sociali che arriveranno a
maturazione nella forma più complessa, se "l'anatomia dell'uomo è una
chiave per l'anatomia della scimmia", non si può fare invece l'operazione
inversa. Ciò significa che dall'anatomia della società capitalistica,
dall'antagonismo reale in essa presente, possiamo cogliere alcuni elementi che
consentono di prefigurare il modo di produzione comunista, ma che non possiamo
assolutamente definire le sue leggi scientifiche di funzionamento. Possiamo
prefigurare delle ipotesi dei processi di transizione, senza la pretesa di
definirne le concrete fasi storiche, di "mettere le brache alla
storia". Anche e soprattutto perché - contro ogni insostenibile visione
storicistico-deterministica - il superamento del modo di produzione
capitalistico in senso comunista non è una necessità ineluttabile, ma solo una
possibilità. Il che non significa affatto affermare, come gli sciocchi e
interessati apologeti di oggi, l'intramontabilità dell'orizzonte capitalistico:
il capitalismo è condannato a perire dalle proprie contraddizioni interne. Il
problema, per dirla con W. Benjamin, è se perirà di mano propria o per mano del
proletariato; il processo reale delle interne contraddizioni del modo di
produzione capitalistico, in altri termini, può anche andare non verso il suo
"superamento" (una negazione da cui emerge il positivo, Aufhebung),
ma verso una qualche forma di dissoluzione-distruzione.
Nessuna provvidenza, dunque, nessun moto verso una meta finale inevitabile:
l'esito della transizione non è scontato o predeterminato e il comunismo è solo
una possibilità aperta dalle contraddizioni del capitalismo. Una possibilità
che può realizzarsi solo a condizione - tra l'altro - che il soggetto
rivoluzionario sappia leggere correttamente quelle contraddizioni e agire su di
esse nel modo più appropriato. La costituzione
(non arbitraria o casuale, ma posta oggettivamente dallo sviluppo stesso
delle contraddizioni del capitalismo) di tale soggetto è un elemento
indispensabile della transizione al comunismo, non solo e non tanto nella fase
di rottura del vecchio assetto di potere politico, del vecchio Stato, quanto
soprattutto in funzione della direzione cosciente e secondo un piano
dell'economia. Da quanto sopra detto deriva anche che la transizione al modo di
produzione comunista ha una peculiarità intrinseca: quella di essere anche un
movimento promosso da forze sociali organizzate ed orientate secondo un progetto
determinato, movimento cosciente di una soggettività rivoluzionaria. Il fattore
politica
- e quindi per un'intera lunga fase il fattore Stato - gioca in questa
transizione un ruolo non secondario e ineludibile.
Sin dal Manifesto
Marx ed Engels - in polemica con l'utopismo - hanno difeso la tesi di una
necessità oggettiva della rivoluzione comunista, iscritta nell'ordine stesso
delle contraddizioni capitalistiche. La rivoluzione proletaria - analogamente
alla rivoluzione borghese nel suo modello francese - non fa che liberare nella
società le forze che nel suo seno sono cresciute e non possono più essere
contenute all'interno dei vecchi rapporti sociali. Nel 1848 i giovani
rivoluzionari Marx ed Engels ritengono già prossimo il momento per una
rivoluzione proletaria. Il modello che si propone è enunciato a chiare lettere
nel Manifesto
del partito comunista, con un vero e proprio programma di
transizione in 10 punti (cfr. il II capitolo). Preliminare è la presa di
possesso del potere politico, usando la cui leva il proletariato realizzerà
progressivamente le misure che portano al comunismo. Tra queste la
centralizzazione statale del credito, dei mezzi di traffico e comunicazione.
“Il primo passo nella rivoluzione è l'elevarsi del proletariato a classe dominante,
la conquista della democrazia […] Il proletariato si servirà della sua
supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il
capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato,
vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante,
e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze
produttive. […] Naturalmente sulle prime tutto ciò non può accadere se non per
via di interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di
produzione, vale a dire con misure che appaiono economicamente insufficienti e
insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpassano se stesse e spingono
in avanti, e sono inevitabili come mezzi per rivoluzionare l'intero modo di produzione”.
Nella critica dell'economia politica Marx analizza il movimento della società
capitalistica, e scorge in esso i punti di rottura, i momenti di transizione al
comunismo all'interno del modo di produzione capitalistico stesso: “Le
fabbriche cooperative degli stessi operai sono, entro la vecchia forma, il
primo segno di rottura della vecchia forma, sebbene dappertutto riflettano e
debbano riflettere, nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del
sistema vigente. Ma l'antagonismo tra capitale e lavoro è abolito all'interno
di esse, anche se dapprima soltanto nel senso che gli operai, come associazione, sono
capitalisti di se stessi, cioè impiegano i mezzi di produzione per
la valorizzazione del proprio lavoro”[14].
Nell’Antidühring, Engels presenta la transizione alla società socialista quale risultato del processo di sviluppo del capitale e delle sue contraddizioni. Si tratta del passaggio dal capitalismo di Stato al socialismo a mezzo di un duplice e convergente processo che implica, da un lato, la trasformazione della proprietà capitalistica privata - che, con la crescente concentrazione e centralizzazione dei capitali passa attraverso le tappe delle società anonime (società per azioni) e dei "monopoli nazionali" (trust) - in proprietà dello Stato capitalistico, e, dall'altro, la presa di possesso rivoluzionaria da parte del proletariato del potere politico, della macchina statale, una macchina statale che è già divenuta il "capitalista collettivo ideale". Sicché la conquista del potere politico significa immediatamente anche conquista e rovesciamento della proprietà capitalistica nel suo opposto dialettico, la proprietà socialista. La rivoluzione politica, la conquista della macchina statale, è, contemporaneamente, rivoluzione dei rapporti di produzione, rivoluzione sociale: “[Con l'assunzione da parte dello Stato capitalistico dei mezzi di produzione] il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice, si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione"[15]
La questione del potere politico è dunque centrale per la transizione al
socialismo, anche se – va ribadito – non è che la premessa necessaria ma non
sufficiente per il passaggio al nuovo modo di produzione. La ragione di questa
centralità risiede nel fatto che il proletariato, inevitabilmente subalterno
nella società borghese - a differenza della borghesia, che fece la sua rivoluzione
antifeudale avendo il possesso dei mezzi di produzione, essendo già egemone
nell’economia -, non ha altra scelta che la conquista del potere politico per
avviare attraverso esso la trasformazione dei rapporti di produzione. Sia nel
“modello” di Engels (passaggio diretto al socialismo dal capitalismo di stato)
che in quello di Marx (rottura del capitalismo all’interno del capitalismo
stesso nella forma contraddittoria delle cooperative operaie di produzione per
garantire l’esistenza e lo sviluppo delle quali occorre un potere statale), che
in quello di Lenin - che assume nella NEP tanto il capitalismo di stato, quanto
la cooperazione - la conquista e il mantenimento del potere statale sono una
condizione imprescindibile. Lo Stato in cui il proletariato ha preso il potere
politico è già uno stato diverso dallo stato borghese: la dittatura del
proletariato si coniuga con l’autogoverno dei produttori (come insegnano le
riflessioni marxiane ed engelsiane sulla Comune di Parigi). Il proletariato al
potere rompe il mercato mondiale, o, meglio, stabilisce una serie di vincoli e
controlli, regola la propria presenza nel mercato mondiale, attraverso le
nazionalizzazioni e il monopolio del commercio estero. Il capitale può
investire nello stato proletario, ma solo a certe condizioni: la sua sfera
d’azione viene limitata e controllata dallo Stato. È l’idea che Lenin espone
quando parla di “capitalismo di stato” nella NEP.
La questione principale che si è posta al movimento operaio nel secolo lungo
che va dalla Comune di Parigi al crollo dell’URSS è stata quella della
conquista del potere politico. Attraverso l’insurrezione, o per via
parlamentare, o una combinazione di entrambe, nell’arco delle diverse varianti
che la storia presentava, quale difesa popolare armata di un potere politico
conquistato attraverso le elezioni. Per decenni e decenni la questione delle
questioni per i partiti socialdemocratici del XIX secolo e per i partiti
comunisti, sorti in gran parte dei paesi del mondo all’indomani della
rivoluzione d’ottobre, è stata quella dell’organizzazione delle forze
soggettive, della capacità di allargare le fila del movimento operaio
organizzato. Guerra di movimento o guerra di posizione, attraverso la conquista
progressiva di fortezze e casematte, accumulando le forze per uno scontro che
non si sarebbe potuto risolvere nello spazio di qualche settimana, ma implicava
l’ingaggio di una guerra di lunga durata per l’abbattimento del potere
borghese, la questione verteva sulla strategia più adeguata per il raggiungimento
dell’obiettivo: quale politica fosse più corretta per guadagnare il
proletariato alla causa della rivoluzione e sottrarlo all’influenza dei partiti
borghesi e controrivoluzionari; quale analisi delle classi e dei rapporti di
forza per una corretta politica delle alleanze: accumulazione delle forze per
la rivoluzione. Mature erano considerate le condizioni oggettive nei paesi
capitalisticamente sviluppati, immature quelle soggettive, per far avanzare le
quali doveva esercitarsi tutta l’arte e la passione dell’attività politica,
ideologica, culturale. Compito estremamente difficile, poiché il capitalismo
imperialistico che aveva risolto le sue crisi in modo violento con due guerre
mondiali che avevano sconvolto l’assetto del mondo e aperto diverse falle all’interno
del proprio sistema di comando – non riuscendo ad impedire l’affermarsi
vittorioso di rivoluzioni in vaste e importanti aree periferiche, che avrebbero
posto fine al vecchio modo di sfruttamento colonialistico sussunto
dall’imperialismo - non era affatto
morente. Ed è riuscito a costruire sistemi di controllo sulle masse e ad
ampliare la sua egemonia. Più il capitale si è sviluppato, più si è rivelato
capace di questo condizionamento che gli consente di mantenere il rapporto di
dominio.
Una conquista duratura del potere politico da parte dei comunisti è intervenuta
nella maggior parte dei casi grazie alla crisi violenta del sistema
capitalistico sfociata nelle due guerre interimperialistiche mondiali. Ed è
intervenuta in Stati deboli (non perché non dotati di forza repressiva, ma
perché non ancora adeguati nella loro struttura al modo capitalistico di
produzione, non articolati e ramificati nella società con propri solidi
apparati ideologici e culturali funzionali all’organizzazione del consenso), quali
la Russia e la Cina, o in paesi “periferici” rispetto ai paesi capitalistici
centrali. Le grandi rivoluzioni russa e cinese sono state indubbiamente
favorite dalle contraddizioni interimperialistiche e dalla guerra, che hanno
impedito o reso difficile l’intervento di una coalizione imperialistica
controrivoluzionaria. Lo stesso può dirsi per l’affermarsi delle “democrazie
popolari” nel secondo dopoguerra nell’Europa centro-orientale e nei Balcani. Le
rivoluzioni anticoloniali dirette da forze socialiste e comuniste, dall’Algeria
a Cuba al Vietnam, hanno usufruito, in modo diretto o indiretto, del quadro dei
rapporti di forza internazionali emersi dopo la seconda guerra mondiale, in cui
un blocco militare e politico di paesi costituiva – anche se non sempre in modo
limpido e coerente – una retrovia e un contraltare all’imperialismo. Fino alla
metà degli anni 1970 – il momento culminante è la sconfitta USA in Vietnam –
l’onda lunga del processo
rivoluzionario mondiale avviatosi con l’ottobre sovietico sembrava continuare,
nonostante alcune involuzioni, arretramenti, incoerenze, defezioni. Una parte
consistente del globo si era sottratta ai meccanismi dominanti del mercato
capitalistico mondiale e controllava, attraverso il potere statale, flussi di
capitali, investimenti, transazioni commerciali. Non era fuori del mercato
mondiale, ma ne limitava e controllava la penetrazione capitalistica nella
propria area di influenza. Da questo punto di vista, che vi fosse in
URSS il conclamato “socialismo maturo” (come scrivevano i manuali del periodo
brezneviano) o una forma generalizzata di capitalismo di stato diretto secondo
un piano centrale, è questione secondaria: rompendo in modo duraturo il mercato
capitalistico mondiale, le rivoluzioni socialiste del XX secolo si possono
concepire come le casematte, le retrovie del proletariato mondiale in una lunga
guerra di posizione che non può risolversi nell’arco di qualche settimana o
qualche anno. Le rivoluzioni russa, cinese, cubana, vietnamita hanno spezzato
gli anelli più deboli della catena imperialista. Una catena che, tuttavia, è
riuscita, dopo una fase di sbandamento, a conservare ben saldi gli anelli più
forti e a stringere le fila per la sua controffensiva.
La dissoluzione dell’URSS e il rapido processo di restaurazione nei paesi
dell’Europa centro-orientale costituiranno ancora a lungo oggetto di indagine
storico-teorica. Alla sconfitta hanno contribuito molteplici fattori, che si
sono concentrati e condensati tra il 1989 e il 1991. Nella prospettiva che si è
qui delineata, in cui la rivoluzione sovietica si presenta storicamente come la
sottrazione di un’importante zona del mondo, di una “casamatta”, al mercato
capitalistico mondiale e all’imperialismo, la stagnazione economica, le
inefficienze e gli sprechi che affliggevano in misura crescente l’economia di
questo paese soprattutto negli anni ’80 – scandalose se riferite ad una società
socialista sviluppata – hanno un peso relativo. Con un’economia e un livello di
vita delle masse ben inferiore l’URSS fu capace – pur pagando un prezzo
altissimo in vite e beni distrutti – di respingere l’aggressione dell’esercito
hitleriano, che aveva piegato già mezz’Europa. La crisi che ha investito la
società sovietica è stata soprattutto di carattere politico e ideologico-culturale.
Altri paesi, come Cuba, con condizioni e potenzialità economiche ben inferiori
a quelle dell’URSS, ma con una direzione politica diversa, hanno resistito e
resistono all’offensiva imperialistica, valutando che l’obiettivo principale in
questa fase non è il passaggio diretto e immediato al socialismo, ma il
mantenimento del potere politico nelle mani del proletariato.
3. Controcorrente: un centro per coordinare gli studi sulle rivoluzioni del ‘900
Una proposta per riprendere il filo interrotto di un lavoro indispensabile allo
stato attuale viene dal convegno svoltosi un anno fa a Napoli[16], dove studiosi militanti di diverse competenze
specialistiche – storici, filosofi, economisti, scienziati, sociologi,
giuristi, storici della cultura, politologi – hanno affrontato alcune delle più
importanti questioni, di approccio metodologico e di analisi storica, della
storia dell’URSS, con il progetto, ben più ambizioso e controcorrente, di dar
vita a un Centro studi sui problemi della transizione al socialismo.
La ragione principale per cui si dà vita a tale Centro è la necessità di non disperdere un inestimabile patrimonio di esperienze di lotte del proletariato e dei popoli oppressi che si sono posti l’obiettivo di dar vita ad una società socialista. La conoscenza, lo studio, la memoria storica, la divulgazione di questo grande patrimonio di esperienze sono oggi uno strumento importante, essenziale, per poter pensare e praticare la trasformazione dei rapporti economico-sociali. Il ruolo che può quindi svolgere il Centro non è affatto quello di ricordare le rivoluzioni socialiste, con l’occhio rivolto al passato, per archiviarle definitivamente, ma di studiare quelle esperienze per apprendere[17] da esse, dai loro successi, dai loro errori, con l’occhio rivolto al presente e al futuro.
L’apprendimento è un processo che può compiersi solo sulla base
dell’esperienza. Vi è una bella pagina di Lenin, scritta nel momento drammatico
del passaggio alla NEP, quando, vinta la battaglia sul piano militare, si
trattava di vincere la ben più difficile guerra, sul piano economico, della
costruzione di una nuova economia basata su principi socialisti. Nel discorso
tenuto alla VII Conferenza del governatorato di Mosca (ottobre 1921), egli
esordisce citando un episodio della guerra russo-nipponica che “ci aiuterà a
farci un’idea più precisa del rapporto che esiste tra i vari sistemi e
procedimenti politici in una rivoluzione”; si tratta della presa di Port Arthur
da parte del generale giapponese Nogi. La presa avviene in due fasi ben
distinte: la prima è quella di assalti accaniti, finiti con pesanti insuccessi;
la seconda, un lungo assedio duro e difficile, che si conclude con la presa
della fortezza. Fu un errore la prima fase di “guerra di movimento”? Lenin
spiega che, se a prima vista la risposta sembrerebbe molto semplice, tuttavia
“nella soluzione di un simile problema, che presentava moltissime incognite,
era difficile, senza la necessaria esperienza pratica, determinare con assoluta
esattezza o anche con un sufficiente grado di approssimazione quali fossero i
procedimenti da applicare contro la fortezza nemica. Era impossibile
determinarlo senza aver praticamente sondato la forza rappresentata dalla
fortezza, la potenza delle sue difese”, ecc. All’inizio delle operazioni,
l’unica tattica possibile, necessaria e utile era quella dell’assalto; solo
dopo il processo di apprendimento, sulla base dell’esperienza, risulta vincente
la scelta dell’assedio[18]. Il modo in cui Lenin imposta dialetticamente la
questione dell’«errore» può essere proficuamente esteso alla comprensione
dell’esperienza delle rivoluzioni socialiste del ‘900: troppi lavori, infatti,
ignorando il difficile e doloroso processo di apprendimento nel corso del primo
grandioso “assalto al cielo” tentato nella storia dell’umanità, sono costruiti
contrapponendo metafisicamente il “dover essere” della rivoluzione (ricavato –
ma anche qui ci si è presto divisi in diversi filoni interpretativi – dai
“classici” del marxismo) al movimento reale delle società che si andavano
formando, col risultato che il reale, non potendo corrispondere al modello, non
poteva essere spiegato che attraverso categorie altre, quali il tradimento,
la macchinazione, il complotto.
Se continuiamo a leggere la storia delle transizioni al socialismo con le
categorie della polemica politica del tempo, dei rispettivi tempi in cui la
polemica e lo scontro, senza esclusione di colpi, si svolsero, non faremo molta
strada. Non è dunque, operazione archeologica, o “accademica”, di uno studio
fine a se stesso, né “nostalgica”, né soltanto una pur doverosa e necessaria
difesa di una grande esperienza storica oggi sottoposta ad attacchi liquidatori
e infamanti. È invece un lavoro di lunga lena sul fronte culturale, non meno
importante, dal punto di vista strategico, della lotta sul fronte politico o
sindacale. Il lavoro sul fronte culturale è strategico. Tanto più lo è questo
tipo di lavoro, che mira a studiare e diffondere la conoscenza delle
rivoluzioni socialiste. Nessun “altro mondo è possibile”, nessun progetto e
nessuna pratica politica per dar vita ad una società libera dallo sfruttamento
e dall’oppressione sono seriamente pensabili senza fare i conti con le
esperienze delle trasformazioni socialiste del XX secolo – e quelle tuttora in
corso – e, in particolare, con quella che è stata la più grande e duratura nel
tempo, la storia dell’URSS.
La questione della transizione va non solo riproposta sull’agenda delle
iniziative politico-culturali – contro una deliberata damnatio memoriae -, ma
anche indagata e compresa ancora in molti suoi aspetti. Per citarne solo
alcuni:
- il modo in cui si è svolta la complessa vicenda storica delle rivoluzioni del ‘900 e il perché esse siano state sconfitte;
- la “anatomia della società socialista”, a partire dall’analisi materialistica dei rapporti di produzione;
- la produzione teorica elaborata su quelle esperienze, sul problema dell’organizzazione di un’economia fondata sulla proprietà sociale e diretta secondo un piano;
- il problema della organizzazione e direzione politica delle società socialiste;
- l’elaborazione teorica sulla concezione del diritto e dello stato;
- il nodo delle relazioni internazionali;
- la creazione di una nuova cultura.
Lo studio di queste esperienze non è, non può essere, “neutro”, anodino, “accademico”,
fine a se stesso. Esso è – come del resto dimostra il libro che raccoglie gli
atti del convegno di Napoli – “di parte”, sta dalla parte di chi si batte per
l’emancipazione dell’umanità dallo sfruttamento capitalistico e imperialistico.
È uno studio che guarda alla storia di classi sociali e di uomini in carne ed
ossa, che si sono avviati sul difficile cammino della costruzione del
socialismo, con gli occhi di chi a quella prospettiva non ha rinunciato e da
quella storia vuole apprendere. È lo studio di chi
quell’esperienza non vuol liquidare, né infangare o demonizzare, ma comprendere.
Ma studio– serio, rigoroso, critico, scientifico, condotto con la più grande
onestà intellettuale – ha da essere, non pura e semplice divulgazione o
ripetizione di “verità” date per scontate, agitate come una bandiera. Non si
possono “mettere le braghe” a questo studio, né pretendere che vi sia assoluta
unanimità di vedute, di approcci, di conclusioni. Lo studio implica un
approccio critico alle questioni (tutta l’opera di Marx è una grande critica) e
implica che si prendano in esame i diversi approcci, che vi sia un confronto
costruttivo tra studiosi, senza anatemi pregiudiziali. La nostra grande
ambizione è fornire gli strumenti perché i comunisti, le nuove generazioni, i
movimenti che oggi lottano contro lo sfruttamento, l’oppressione, le
discriminazioni dell’odierno imperialismo possano comprendere – liberi da approcci demonizzanti
o acriticamente apologetici – le rivoluzioni del ‘900 e apprendere da esse.
Il riproporre la questione della transizione al socialismo invitando allo
studio, appassionato e rigoroso a un tempo, delle esperienze di trasformazione
socialista è oggi, nel clima culturale e politico in cui siamo immersi, impresa
“eversiva”, controcorrente e, come ben sappiamo, irta di grandi difficoltà. La
sola costituzione di un centro con questi intenti e queste premesse è di per sé
un segnale di cui andrebbe colta in pieno la portata.
[2] Sull’espressione correntemente usata, cfr. la puntualizzazione di Aldo Agosti nel suo articolo “Trasformazioni economiche e sociali e negazione del socialismo”, in L’Ernesto, 2001, n. 3, inserto speciale sul “socialismo realizzato”: «“Socialismo reale”, “socialismo realmente esistente”, “socialismo realizzato”: tutte queste definizioni, coniate dai gruppi dirigenti dei partiti comunisti al potere nel periodo brezneviano, sono entrate a far parte del linguaggio politico corrente verso la metà degli anni ’70 per designare, di fatto in polemica con l’eurocomunismo che teorizzava una “terza via” tra modello sovietico e socialdemocrazia, la realtà politica e sociale dei paesi appartenenti al blocco socialista , e sono state da allora considerate sostanzialmente sinonimi. In realtà di ciascuna di queste definizioni sarebbe interessante fare la storia, perché ciascuna nasconde, magari inconsapevolmente, delle sfumature».
[3] Diversi apprezzabili tentativi di riprendere a studiare attraverso le categorie marxiste le questioni della transizione e del socialismo nell’esperienza storica delle rivoluzioni socialiste del XX secolo sono rimasti confinati in cerchie purtroppo piuttosto limitate e ristrette. Si veda ad esempio il dibattito aperto da Intermarx, "rivista virtuale di analisi e critica materialista" o il già citato numero speciale de L’Ernesto, nonché il convegno internazionale di Urbino, unico svoltosi in Italia in occasione dell’ottantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, i cui atti sono raccolti in D. Losurdo, R. Giacomini (a cura di), URSS: bilancio di un’esperienza, QuattroVenti editore, Urbino, 1999.
[4] S. Courtois et alii, Le livre noir du communisme, R. Laffont ed., Parigi, 1997.
[5] Cfr. alcuni interventi, in particolare di Luciano Canfora e Domenico Losurdo, oltre a quello dello scrivente pubblicati sul Manifesto e raccolti in Sul libro nero del comunismo, manifestolibri, Roma, 1998.
[6] Uno degli ultimi esempi in ordine di tempo è costituito daalcuni articoli pubblicati da Repubblica, il 21.1.04, in occasione dell’ottantesimo anniversario della morte di Lenin, con il significativo titolo “Il peccato originale”, in cui Martin Amis, presentato come “padre spirituale del New Labour di Tony Blair”, afferma che le rivoluzioni “istillano amore per la violenza [...] è bello in teoria pensare che la rivoluzione abbatte la tirannide. Ma il sangue e la violenza generano quasi sempre altro sangue e altra violenza […] l’innesto del comunismo nella Russia del 1917 è stata una tragedia di cui quel paese porta ancora le conseguenze […] Fu Lenin a distruggere la società civile, a far trucidare barbaramente lo zar e tutta la sua famiglia, a creare uno stato di polizia, a usare la carestia come un’arma di repressione e ricatto”. E via demonizzando…
[7] È il titolo del libro di A. von Hayek, La presunzione fatale - gli errori del socialismo, Rusconi, Milano, 1997, che è una requisitoria contro la possibilità stessa del socialismo.
[8] Con questo titolo fu salutato in un articolo di D. Iervolino (in A sinistra, settembre 1991) il golpe vero di Eltsin dell’agosto del 1991, che mise al bando il PCUS.
[9] Per un quadro sintetico e piuttosto esauriente delle analisi e dei tentativi di spiegazioni prodotti nell’ultimo decennio degli anni ’90 sul crollo del sistema sovietico, cfr. A. Höbel, “Il crollo dell’Unione sovietica. Fattori di crisi e interpretazioni”, in Problemi della transizione al socialismo in URSS, La città del sole, Napoli, 2004.
[10] Uno dei manifesti ideologici di questo nuovo dogma fu il documento “Uomo, libertà, mercato”, firmato da numerosi economisti e pubblicato nelle Izvestija del 4 settembre 1990, penultimo anno di esistenza dell’URSS.
[11] Cfr. 15 tesi per il congresso di Rifondazione comunista- contributo di Fausto Bertinotti, in Liberazione, 12.9.04.
[12] Cfr. Liberazione del 20.1.04.
[13]Questa parte riprende riflessioni già pubblicate precedentemente in altri scritti, in particolare: La transizione bloccata – Il “modo di produzione sovietico e la dissoluzione dell’URSS, Laboratorio politico, Napoli, 1998; “Sulla transizione al socialismo – considerazioni inattuali”, in La Contraddizione, n. 100, Roma, 2004.
[14] K. Marx, Il Capitale, Libro III, Editori Riuniti, 1967, pp. 522-23.
[15] Cfr. sezione III dell'Antidühring, "Socialismo", cap. II, "Elementi teorici".
[16] Gli atti sono pubblicati nel già citato volume Problemi della transizione al socialismo in URSS e contengono relazioni e interventi di A. Bernardini, C. Carpinelli, A. Catone, A. Chiaia, F. Dubla, G. Fresu, M. Gemma, R. Giacomini, K. Gossweiler, M. Graziosi, A. Höbel, H. H. Holz, A. Leoni, D. Losurdo, S. Manes, A. Martocchia, A. Mazzone, G. Oldrini, L. Pace, G. Pala, F. Sorini.
[17] Sul “processo di apprendimento” dall’esperienza storica, mi sembra di grande importanza metodologica quanto scrive Domenico Losurdo. Cfr. «Stalin, le delusioni del messianismo rivoluzionario e il mito della “rivoluzione tradita”», in Problemi della transizione al socialismo in URSS, op. cit.