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Le prospettive rivoluzionarie in Bolivia in una intervista ad Alvaro
Garcia Linera, vicepresidente boliviano
"In Bolivia, non stiamo pensando al socialismo, piuttosto ad una
rivoluzione democratica e decolonalizzatrice"
13/04/2006
Álvaro García Linera è il vicepresidente boliviano, matematico e sociologo
autodidatta.
Quarantaquattro anni d’età, di cui cinque trascorsi in prigione, vari libri editi ed una vita di ricerca intellettuale. In questo percorso esistenziale ha esplorato "ossessivamente" l'idea di Marx sui paesi "senza storia" ed è giunto a conclusioni che lo hanno unito ad Evo Morales.
Qual è stato il suo percorso intellettuale?
Sono una persona che ha vissuto la sua adolescenza in un periodo di grande
instabilità politica: elezioni, colpi di Stato, elezioni, ancora colpi di
Stato, in un ambiente carico di mobilitazioni, di progetti, di dibattiti,
d’utopie. Sto parlando della fine degli anni '70 e credo che quell'esperienza
abbia avuto influenza su un tipo di avvicinamento personale alla politica e
alle scienze sociali.
Nel 1979, a 17 anni, ho vissuto il primo grande blocco indigeno della storia moderna della Bolivia. Era difficile capire quello che stava succedendo ed in quel contesto cercai l'aiuto delle scienze sociali, della sociologia, dell'economia, come autodidatta. Tuttavia, risentivo di una certo approccio intellettualizzato della politica, ero distante dalle organizzazioni. Avevo cominciato a studiare matematica perché credevo che le scienze sociali si potessero imparare da soli, allora decisi di continuare i miei studi in Messico. Il contesto centroamericano ha influenzato molto la mia percezione della politica, specialmente la guerriglia salvadoregna, e politicizzato le mie letture. Passai da un approccio filosofico ed astratto del capitale, della dialettica di Hegel, di Kant, ad un altro più pratico. Allora cominciano le mie letture più leniniste, diciamo così, per comprendere meglio il senso generale della gestione delle questioni politiche. Questo avviene negli anni '80 e al termine del percorso, ritorno in Bolivia con una posizione di maggiore preparazione politica.
Qual è stata l’influenza dei movimenti politici centroamericani sulla sua
evoluzione intellettuale?
C'erano due elementi importanti: la lotta armata come soluzione politica o di
conquista del potere e la questione etnica. In Guatemala ho ascoltato per la
prima volta in un dibattito il tema della multiculturalità. Anche se si era già
un momento di riflusso, la guerriglia guatemalteca riuscì ad incorporare questo
elemento nel dibattito per via della presenza della sua componente maya. Questo
per me è stato estremamente innovativo. E con quel bagaglio culturale sono
tornato in Bolivia, dove tentai insieme a Raquel Gutiérrez di costruire una
struttura politica principalmente operaia, perché i minatori erano il perno della
contestazione, iniziando così un lungo dibattito che in qualche modo dura
ancora fino al giorno d’oggi, contro il trotskismo e lo stalinismo,
rappresentato dal Partito Operaio Rivoluzionario ed il PC. In seguito abbiamo
conosciuto un gruppo di leader indigeni, giovani che venivano delle correnti
katariste ed indigeniste degli anni '70 e che denunciavano il
"colonialismo interno."
Fu lì che si è identificato con la questione etnico-nazionale?
Abbiamo iniziato una rilettura, o meglio, un'ampliazione del nostro orizzonte,
dalla questione operaia verso la tematica della questione nazionale e quella
contadino-indigena, centrandolo su quello che vengono definite "identità
diffuse." Lì è incominciata una tappa - verso il 1986 - che dura tutt’ora,
di un’attenzione intorno alla tematica indigena e della costruzione della
nazione.
Ho dedicato il mio tempo a scrivere vari libri, alcuni polemici, contro la sinistra tradizionale predominante, ed altri che anticipavano lavori di maggiore astrazione. In quell’epoca ho cominciato un'ossessione che è durata per dieci anni, di approfondire ciò che Marx aveva detto sul tema, sicché cominciai a studiare i suoi quaderni, i suoi testi sui "paesi senza storia" del '48; i Grundrïsses, i testi sull'India e la Cina, le sue lettere a Vera Zasulich, perfino il suo manoscritto etnologico ed altri inediti sull'America Latina che si trovano ad Amsterdam. Sono andato fino là, per consultarli. Alcuni compagni mi rimproveravano per questo: non capivano bene perché in momenti intensi di lotta politica io dovessi passare il tempo a visitare gli archivi. Comincia allora un'ossessione, con diverse varianti, per trovare il filo conduttore su quella tematica indigena dal marxismo, e credendo che era possibile che il marxismo potesse rendere conto della forza della dimensione, del contenuto e del potenziale della domanda etnica nazionale dei paesi indigeni. Ciò implicava varie polemiche, su testi meno accademici e più polemici, con la sinistra boliviana secondo la quale gli indigeni non erano altro che contadini. Si trattava di una lite marginale perché eravamo un gruppo di persone che non influivamo da nessuna parte, ci dedicavamo a diffondere i nostri libelli, i nostri testi, il nostro materiale fotocopiato di 50 pagine nelle manifestazioni, nelle miniere. Ma lì è cominciata una polemica.
Dopo viene il tentativo di formare l'Esercito Guerrillero Túpac Katari e la
prigione.
Negli anni '85 e '86 convergono nuove forze, intellettuali, giovani, molto
giovani, operai delle miniere in un processo di radicalizzazione, ed un
conglomerato di leader contadini e indigeni provenienti dalle file
dell'indigenismo katarista. In questa prima tappa, tutta l'attività si incentra
sul lavoro politico nelle miniere, nelle assemblee, nel produrre materiale di
propaganda, critico delle posizioni della sinistra tradizionale e con uno
slogan chiaro: c’è una prova di forza, e quella prova decide il futuro."
Quella prova di forza fu nel 1986, la Marcia per la Vita dei minatori contro lo
smantellamento della Corporazione Mineraria della Bolivia. Gli operai escono
politicamente sconfitti, si sgretola il movimento e cominciala dispersione.
E quella sconfitta apre la strada ad un'orientamento verso le comunità
indigene?
Da quel momento ci spostiamo con tutto il blocco di intellettuali e minatori a
potenziare il lavoro in campagna, insieme agli indigenisti. Si va costruendo
uno scenario più potente di autodeterminazione delle nazionalità indigene,
speciamente di quella aymara. C'è una forte enfasi nella possibilità di un'insurrezione
indigena, nell'idea che l'emancipazione indigena passa obbligatoriamente per
un'insurrezione di comunità. Quispe teorizza lì la guerra degli ayllus, ha
l'immagine di una presa del potere mediante un'insurrezione di ayllus e
comunità, si struttura un immaginario guerrigliero che fa leva su di uno
scenario di emancipazione di massa. Incomincia un processo che dopo darà luogo
all'EGTK, formazione militare nelle comunità; prima nell'Altopiano, con
militanti del vecchio indigenismo degli anni '70, dopo a Potosí, a Rivestirò, a
Sucre. Era una dinamica forte.
Dopo avviene la disarticolazione dal gruppo e la prigione. Come si sviluppa la
sua attività intellettuale seguente,
in prigione?
Sapendo che non avrei potuto contare su molti libri, che non avrei avuto la mia
biblioteca disponibile, decisi di dedicarmi solo ad alcuni libri, a lavorarli
in modo molto più profondo. Ho continuato parte dei miei lavori teorici e ho
scrito “Forma valore, forma comunità”, una lettura interamente legata a “Il
Capitale” che approfondisce la questione del valore d’uso, il valore del
cambiamento e delle logiche organizzative della modernità, per fare un
ragionamento comparativo con le logiche organizzative del mondo andino. Sono
stati cinque anni di reclusione. Credo che quello sia il mio libro migliore,
riuscito così per il tempo che ho potuto dedicargli, per la pazienza che
abbiamo avuto nel fare le trascrizioni. E’ stato un corso accelerato di
antropologia andina, di etnostoria andina e di economia agraria. Uscendo dalla
prigione, immediatamente mi sono iscritto all'università, riprendendo la
questione del mondo operaio, ma da una prospettiva più sociologica. In quel
periodo scrivo “Riproletarizzazione”, sul mondo operaio industriale in Bolivia
ed i suoi cambiamenti organizzativi e tecnologici, ed anche “La condizione
operaia”, sul nuovo settore minerario. Le conclusioni generali sono che gli
operai non sono spariti, ma c'è stata una modifica sostanziale della struttura
materiale della condizione operaia, dell'identità operaia e della composizione
politica e culturale della classe operaia. I motivi per cui la Centrale Operaia
Boliviana si estingue come movimento sociale unificatore del paese. Negli
ultimi anni ho sviluppato vari studi dai movimenti sociali, incorporando teorie
più moderne come quelle di Charles Tilly, Pierre Bourdieu e Norbert Elías.
Lei è passato dal movimento insorto all’università, e da lì ha frequentato i
media e la politica. Come vede il ruolo dell'intellettuale in un campo
universitario come quello dell'America latina, poco istituzionalizzato e in
mezzo ad una nuova ondata di politicizzazione sociale?
Negli anni '90 si era imposta la visione secondo cui bisognava separare la
politica dall'accademia o l'idea di un campo accademico autonomo, ma è stata
un'illusione. La promessa di un accademicismo molto più solido, coerente,
motivato su basi proprie, finì in un accademicismo che serviva da
legittimazione ideologica del progetto politico ed economico neoliberale.
Quando rivedi spassionatamente la produzione degli anni '90 ti rendi conto
della povertà investigativa, concettuale, dell'abbondanza di retorica e
buonsenso di una gran parte di quella produzione. Credo che ora si presenti una
nuova sfida per la produzione intellettuale: la capacità di costruire
criticamente categorie, argomenti e ragioni, e non semplicemente propaganda
politica ma, contemporaneamente, che sappia raccogliere questi segni e la
ricchezza della società, non solamente dei movimenti sociali. Lì sta la grande
sfida di continuare questa lunga traiettoria dell'intellettuale latinoamericano
e boliviano che rompe quella falsa asepsi ideologica tanto cara a Llosa.
Tuttavia, non si richiede che di fronte all'intellettuale neoliberale cooptato
dalla propaganda statale sorga un intellettuale dai movimenti sociali che
faccia l'apologia dell'azione collettiva, ma un intellettuale critico col
potere esistente e con le forze emergenti.
È un problema essere contemporaneamente sociologo critico e vicepresidente?
No, al contrario, è un'eccellente combinazione, perché permette di analizzare
con una freddezza siberiana quello che sta succedendo e le tue azioni. Da
vicepresidente vedi alcune cose che non vedresti mai dalla tua posizione di
sociologo.
I media parlano di "evismo" per riferirsi a questo governo.
L’ "evismo" è una rottura rispetto ad anteriori strategie di lotta
per il potere, è un progetto di autoreferenza dei movimenti sociali, della
società plebea. È un nuovo orizzonte che non nasce dalla teoria ma si va
concretizzando nella pratica, e può apportare un'interessante venatura di
analisi alle correnti neomarxiste. Un secondo elemento che si potrebbe definire
prorpio dell’ "evismo" è un'indigenismo flessibile, capace di unire i
settori non indigeni, quello meticcio e i settori semiurbani. In termini
didattici potremmo dire che la Rivoluzione Nazionale del 1952 porta
all’indigeno la cittadinanza, ma tenta di diluirlo nel meticciato e blocca le
possibilità di sviluppo politico. Cinquanta anni dopo, l'indio si pone come un
individuo politico autonomo che propone un nazionalismo espansivo, una nazione
con "unità" nella diversità, come ha ripetuto tante volte Evo
Morales. L'esperienza che stiamo vivendo in Bolivia ripropone tutto il
dibattito sulla lotta per il potere, perfino le proposte di Antonio Negri. Che
cosa è un governo dei movimenti sociali?
È possibile? Come sarà la relazione tra la questione politica e la questione sociale?
Lei ha parlato di capitalismo andino.
Con quell'espressione, piuttosto teorica, ho fatto riferimento al fatto che le
strutture materiali delle ribellioni sociali dal 2000 sono le piccole economie
familiari, in campagna come in città. Sono i piccoli produttori quelli che si
sono ribellati: contadini, cocaleros, artigiani, microimprenditori,
cooperativisti minerari. E non c’è rivoluzione socialista in una nazione di
piccoli produttori.
L’"evismo" visualizza queste multiple modernità, il piccolo
contadino dell'Altopiano non è un farmer, ma può avere trattori o Internet. Ciò
che è nuovo sottomette sempre ciò che è tradizionale, ora pensiamo ad
un'articolazione diversa e non subordinata tra queste due piattaforme che
perdurano nei prossimi 50 o 100 anni. Non stiamo pensando al socialismo per il
futuro prossimo, ma ad una profonda rivoluzione democratica decolonizzatrice.