da Latinoamerica e dintorni -Febbraio
2005
Il modello cileno
Nel firmamento mondiale della
globalizzazione dei mercati brilla una nuova stella. Al Cile del presidente
socialdemocratico Ricardo Lagos spetta il poco invidiabile primato di Paese
dall’economia più aperta di tutta l’America Latina, allineato com’è sul fronte
del peggiore liberismo.
Fin dagli anni settanta in piena dittatura pinochettista, i seguaci di Milton
Friedman vi hanno costruito il loro laboratorio di sperimentazione delle teorie
economiche ultraliberiste, aiutati nel loro intento anche dai più recenti
governi “progressisti”, figli della concertazione tra socialisti e
democristiani. Nei tre lustri di gestione socialdemocratica, la politica
economica cilena è stata caratterizzata da una lunga serie di accordi
bilaterali sul libero commercio, stretti principalmente con Stati Uniti e
Canada, verso i quali l’export ha fatto registrare un’impennata del 40%. Un
risultato a prima vista eccellente.
A ben vedere, tuttavia, la struttura economica del Paese è regredita negli
ultimi decenni ad un livello primario, dal momento che il volume delle
esportazioni si concentra prevalentemente nel settore delle materie
prime (rame, uva e farine di pesce), mentre interessa solo
marginalmente quello dei prodotti finiti (manufatti, vino e
prodotti industriali).
Il tanto decantato boom dell’export, se da un lato ha consentito l’accumulo di
ingenti introiti (ad esclusivo vantaggio delle grandi imprese esportatrici che
controllano il 98% del traffico mercantile), da un punto di vista sociale non
ha fatto che aumentare il divario che separa una ristretta cerchia di
neoarricchiti da un esercito di lavoratori - occupati o sottoccupati - ridotti
in miseria. Tra questi ultimi circa un milione di persone (un quarto di tutti i
salariati) “non ha alcun contratto di lavoro. E agli sconfitti del sistema si
vanno aggiungendo professionisti, piccoli e persino medi imprenditori che non
ce la fanno”. *
In un paese dove la stragrande maggioranza della forza lavoro si concentra
nella piccola e media impresa, i profitti (assicurati e a breve termine)
vengono realizzati solo da poche categorie di privilegiati che controllano i
settori strategici dell’economia. Secondo i dati del Programma di Sviluppo
Umano dell’Onu, in Cile “il 10% più povero genera il 3,7% del reddito nazionale,
mentre quello più ricco si appropria del 54%”.
Il modello economico-industriale cileno, il sistema per definizione della
“crescita impoverente”, può vantare indici economici di tutto rispetto - tanto
da meritare il plauso delle istituzioni finanziarie mondiali - che si traducono
in lauti guadagni per grandi aziende e multinazionali. Ma si tratta di uno
sviluppo economico costruito sulla pelle di un’enorme massa di lavoratori “a
basso costo, flessibili e addomesticati, senza più diritti né capacità di reazione”.
*
Nel settore della moderna agricoltura da esportazione, da sempre punta di
diamante dell’economia cilena, le condizioni di vita di lavoratori e braccianti
sono andate col tempo peggiorando. Attualmente appena 312 aziende si estendono
su 26 milioni di ettari e, negli ultimi trent’anni, ben 800.000 piccoli
proprietari terrieri “si sono già trasformati in bracciantato per le grandi
proprietà”. Queste mega-haciendas possono anche contare
sull’apporto degli stagionali: una forza lavoro di almeno 200.000 addetti
sottoposti a condizioni di lavoro impossibili, senza tutele sindacali e
sanitarie (come del resto accade nella maggior parte delle piantagioni
centroamericane di proprietà delle multinazionali).
Nel quadro del drastico risanamento della finanza pubblica - altro postulato
del dogmatismo neoliberista -, i colpi d’accetta assestati al sistema
pensionistico hanno contribuito negli ultimi vent’anni a gettare sul lastrico
migliaia di cittadini cileni.
Ispirate anch’esse alla dottrina dei “Chicago Boys”, le riforme strutturali in
campo previdenziale presero il via già a partire dagli anni 80. Fu infatti il
governo di Pinochet il primo ad introdurre il metodo del calcolo contributivo,
il quale “deve rispettare rigidamente solo l'ammontare di ciò che si è versato
dal primo giorno di lavoro al giorno di riposo. Un disastro per i signori di
una certa età sfiniti dall'inflazione e da stipendi inferiori al salario
minimo: il 40% della popolazione viveva così. E perse anche quel poco”. **
Venticinque anni più tardi, il grande affare della gestione dei fondi pensione
è finito nelle mani di cinque società finanziarie private, mentre altre quattro
holding
(anche queste private) amministrano il 75% del servizio sanitario nazionale.
Situazioni simili di monopolio si verificano anche nel settore dei
supermercati, delle assicurazioni, della telefonia e della comunicazione.
Mentre proliferano affari e investimenti, per la gioia di finanzieri e
mercanti, il popolo cileno reclama condizioni di vita più dignitose. Anche se
camuffati dalle statistiche ufficiali i poveri, che al tempo di Allende erano
il 30%, sono diventati oggi la metà della popolazione: nove milioni di persone.
Altre vittime sacrificali immolate al “Dio Mercato”.
(Andrea Necciai)
Note:
* “Cile, il laboratorio
economico dell’ingiustizia sociale” di Gennaro Carotenuto.
** “Gli smemorati amici di Pinochet” di Maurizio Chierici.