da Il Manifesto del 01/10/2005
La Cina cambia
obiettivi: meno disparità
di Francesco Piccioni
I benefici della crescita vanno «redistribuiti» in servizi sociali, come
istruzione e sanità
Se si guarda alla Cina con occhiali ideologici - «un paese capitalista come gli
altri» oppure «l'ultimo paese comunista» - si rischia seriamente di non capirci
niente. Troppi i dati che contrastano con gli schemi semplificati. Come è
capitato all'oracolo del liberismo yankee - il Wall Street Journal - che si è
messo ad esaminare le linee guida del prossimo «piano quinquennale»,
l'undicesimo, di Pechino. Intanto cambia nome e diventa «piano dettagliato in
cinque anni». Ma soprattutto cambia priorità: l'obiettivo della «crescita»
viene infatti sostituito dalla «riduzione delle differenze tra ricchi e
poveri», tra «regioni costiere sviluppate e quelle interne», prevalentemente
agricole, dove tuttora vive la maggioranza del miliardo e 300 milioni di
cinesi. Uno degli strumenti sarà naturalmente lo sviluppo dei servizi sociali,
a partire dall'istruzione e dalla sanità (la Cina ha uno dei sistemi sanitari
peggiori del mondo, a detta dello stesso ministro competente).
Oltre 15 anni di crescita del Pil a tassi medi del 9-10% hanno generato
disparità di ricchezza mostruose, ma il numero dei poveri (secondo lo standard
mondiale) è diminuito di centinaia di milioni. Ora che l'industria cinese ha
conquistato un posto di rilievo nell'economia globale, però, si pone l'esigenza
di sviluppare un mercato interno, potenzialmente vastissimo. Che in alcune zone
e settori, del resto, vanta già performance discrete: il salario di un
metalmeccanico «ufficiale», ovvero della grande industria, viaggia ormai sui
250 euro mensili, con un potere d'acquisto reale equivalente o superiore al suo
corrispettivo, qui da noi, in Fiat. L'incremento numerico delle proteste, molto
spesso sfociate in autentiche rivolte violente (e altrettanto violentemente
represse), unito alle preoccupazioni su come gestire squilibri crescenti di
dimensioni gigantesche, avrebbe convinto i vertici del Pc a sviluppare un
«approccio scientifico allo sviluppo» che privilegia appunto «i livelli di vita
della popolazione» piuttosto che la «crescita cieca». Concetti prima non
formulabili - come lo «sviluppo sostenibile», la «ripartizione dei benefici
della crescita nel popolo» o «una tassazione più elevata per le aree ricche» -
hanno trovato ora legittimità; anzi, un ruolo guida.
Non che si rinunci alla crescita, comunque. Ma Kai, uno degli «strateghi» del
nuovo piano, ha già detto pubblicamente che verranno sviluppate le zone intorno
alle grandi città, regioni come il delta del fiume Yangtze, l'area di Pechino,
Tianjin ed Hebei, la cintura industriale del nordest (ce c'è uno anche lì).
Tutti progetti che, aggiungendosi alle risorse già in azione, faranno correre
il Pil cinese nei prossimi anni tra il 7 l'8,5%. Con le Olimpiadi del 2008 a
fare da moltiplicatore anche mediatico della rinata «potenza» dell'ex celeste
impero.
Per il Wsj, però, la domanda finale resta una sola: se il governo riuscirà
nell'obiettivo di «socializzare la crescita», migliorando lo standard di vita
medio, si crea «il rischio di non attrarre più il livello di investimenti
stranieri di questi ultimi anni». Insaziabili, le arpie del liberismo su carta.