di Enrico Lobina
L’Indice di Sviluppo Umano (ISU) è un indice elaborato dalla UNDP (United Nations Development Programme),
una delle più prestigiose e influenti agenzie dell’ONU. La UNDP, sull’onda
dell’elaborazione di economisti quali Amartya Sen, sostiene che lo sviluppo
umano non può essere calcolato solamente in base alla crescita economica, e per
questo ha elaborato l’ISU, che tiene conto dell’aspettativa di vita alla
nascita, del tasso di analfabetismo e del reddito procapite.
In base a queste elaborazioni, la UNDP ha dichiarato l’8 settembre 2005 che la
Cina ha registrato negli ultimi due decenni uno dei più rapidi miglioramenti
dello sviluppo umano nella storia. Dal 1990 il suo ISU è aumentato di circa il
20%.
Un altro degli obiettivi della UNDP è di migliorare le condizioni di vita delle
popolazioni più povere. A tal fine, l’assemblea delle Nazioni Unite ha votato
nella seduta plenaria del 2000 gli Obiettivi
del millennio. Uno dei primi è dimezzare la povertà, basandosi sui livelli
del 1990, entro il 2015. La Repubblica Popolare Cinese ha già raggiunto questo
traguardo: circa 130 milioni di persone considerate povere nel 1990 non lo sono
più. In generale, la UNDP prevede che l’obiettivo del dimezzamento della
povertà entro il 2015 sarà raggiunto grazie alle sorprendenti performance della
Cina, dell’India, del Viet Nam e di altri paesi asiatici, mentre l’Africa
sub-sahariana continuerà a vivere in mezzo alla povertà.
Le cause principali della riduzione della povertà cinese sono la portentosa
crescita economica e il ruolo attivo dello stato. Alla fine del periodo
maoista, la Cina ha deciso, a differenza dell’Unione Sovietica di Gorbachev, di
non capitolare di fronte all’avversario, ma di elaborare una strategia di
sviluppo autonoma.
Sergio Garavini, primo segretario di Rifondazione Comunista, così sintetizzò
nel 1995 le scelte cinesi:
Il punto è che la Cina ha saputo -
dopo la morte di Mao - fare un bilancio critico, ma non liquidatorio, della
fase precedente e delle condizioni di eccezionalità che l’avevano
contraddistinta; ha trovato gradualmente la via di un modello di sviluppo che
andasse oltre Mao, senza bisogno di demonizzare Mao, con una politica di
riforme - ancora in corso - adeguate alla nuova fase storico-politica (modello
che si sta sperimentando, che non viene considerato esaustivo e definitivo, che
si è pronti a correggere sulla base dell’esperienza, ma che ha permesso di
fronteggiare la crisi del “socialismo reale”, evitare il crollo, andare
avanti). Mentre l’Urss e le direzioni del PCUS che sono venute dopo Stalin, non
hanno saputo veramente andare “oltre Stalin”; lo hanno denigrato o rimosso, ma
non hanno saputo elaborare e attuare un progetto organico di riforme del
sistema sovietico capace di rivitalizzarlo nella nuova fase storica; non hanno
saputo adeguarlo al nuovo contesto interno e internazionale per renderlo capace
di reggere la competizione economica e tecnologica con i Paesi capitalistici
più avanzati, passando da una fase
estensiva ad una intensiva dello sviluppo economico, fino ad imboccare la via
della stagnazione burocratica e poi
della crisi. E, con la catastrofe finale della politica gorbacioviana,
hanno condotto l’Urss non sulla via della riforma del socialismo, ma sulla via
della sua autoliquidazione.
A dieci da questa analisi, possiamo solamente aggiungere che la politica di
riforme cinesi, pur tra mille contraddizioni, si è rivelata l’unica in grado di
migliorare il benessere della popolazione. L’ultima dimostrazione è data dalla
Corea del Nord, che nell’ultimo anno ha aperto le prime zone economiche
speciali. La Russia, al contrario, è tra i paesi il cui ISU, tra il 1990 e
oggi, è maggiormente arretrato.
Come ha scritto Francesco Piccioni nel Manifesto del 1 ottobre 2005, Se si guarda alla Cina con occhiali ideologici – ‘un paese capitalista come gli altri’ oppure ‘l'ultimo paese comunista’ - si rischia seriamente di non capirci niente. Troppi i dati che contrastano con gli schemi semplificati. I dati, infatti, ci dicono che la Cina non è un paese capitalista, e la presentazione dell’ultimo “Piano dettagliato in cinque anni” (la nuova terminologia per “piano quinquennale”) ne è la dimostrazione: l’obiettivo non è più la crescita, ma la riduzione delle differenze tra ricchi e poveri, tra regioni costiere e regioni interne. Ma non si tratta neanche di un paese comunista, fosse anche l’ultimo. Il Partito Comunista Cinese, infatti, ha consapevolmente accettato di entrare a far parte del mercato mondiale capitalista, basato sulla proprietà privata e sul concetto di profitto. Ciò ha permesso la nascita, come nel periodo della Nuova Politica Economica sovietica degli anni venti, di una media e grande borghesia la quale, per la sua stessa natura, è in contrasto con la direzione del PCC. A tal proposito, sarebbe da verificare l’efficacia e i risultati della teoria delle “tre rappresentanze” di Jiang Zemin.
La Cina, insomma, è un paese che meriterebbe ben altra attenzione e profondità da parte di studiosi, partiti, militanti, movimenti. Sui suoi sviluppi interni, ma anche sul suo ruolo internazionale. Oggi tutti i maggiori analisti europei e mondiali, tra cui Giulietto Chiesa, concordano nel ritenere che la Cina è contemporaneamente il grande nemico degli USA, che fa di tutto per renderla succube economicamente e militarmente, e l’unica potenza in grado di tener testa da sola, in prospettiva, all’imperialismo a stelle e striscie.
Dal punto di vista interno, gli sforzi del PCC per conquistare il consenso dei
cinesi sono costanti. Come ha scritto Luigi Vinci, europarlamentare di
Rifondazione Comunista, “il PCC dunque non ritiene, sulla scia delle
attuali condizioni della Cina, che in essa possano oggi costituirsi le libertà
politiche tipiche dell’Occidente. Tuttavia questo ragionamento, che nei suoi
tratti di fondo ritengo, personalmente, realistico, concreto, e perciò
condivisibile (e che questa Cina, socialista, continui ad esistere e continui
nel suo sviluppo io credo debba importare assai), non taglia la testa al toro.
Giacché, entro i notevoli limiti che la realtà cinese frappone al movimento
politico del Pcc, un maggior grado di democrazia può, penso, essere praticato.
[…] è infine indubbio che in tutto questo il
potere statale abbia l’appoggio della virtuale totalità della popolazione”.
Sino a qualche decennio fa le questioni internazionali erano sentite, dai militanti della sinistra, come questioni che toccavano direttamente. Oggi non è più così. Questo perché ci si è adagiati sull’ideologia dominante, sulle idee-forza dell’avversario. Occorre ripartire, dunque. Occorre riprendere a studiare, a criticare, ad approfondire.