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Contropiano Anno 13 N° 2(2005)
Venti
punti per riflettere sulla Cina
di Antonio Gabriele*
Nel mio articolo sul Manifesto del 21 agosto sostenevo che la Cina è un
paese “socialistico”. Il termine “socialistico” si riferisce ad alcune
caratteristiche strutturali che consentono di differenziare strutturalmente il
sistema cinese dalla norma dei paesi capitalistici sul piano positivo (cioè di
pura descrizione oggettiva e scientifica della realtà). Questa definizione è
indipendente dal piano normativo (quello che riguarda i fini che il
funzionamento del sistema stesso dovrebbe conseguire), ed anzi giustapposta al
termine “socialista”, che preferirei associare a caratteristiche sistemiche,
strategie di sviluppo, e politiche economiche atte a conseguire obiettivi
sociali quali la giustizia sociale ed altri tradizionalmente associati alla
tradizione del movimento socialista e comunista. Per chiarire questo concetto
aggiungo alcune semplici note interpretative nei paragrafi seguenti.
1
Utilizzando – sia pure in modo grossolano e ad hoc – alcune fondamentali
categorie marxiane, ritengo che tutti i sistemi socioeconomici contemporanei
possano essere considerati come varianti di un unico modo di produzione, quello
moderno. Questo modo di produzione, a differenza di quelli precedenti, è basato
sulla accumulazione di capitale e sul progresso tecnico, nonché (con poche e
circoscritte eccezioni) sulla pervasività delle relazioni di mercato,che
consentono – a certe condizioni – una crescita della produzione nel lungo
periodo (1).
2.
La prima variante storicamente affermatasi del modo moderno di produzione è
stata quella capitalistica classica, studiata tra l’altro da Marx stesso. Marx
ammirava molti aspetti dinamici e modernizzanti del capitalismo, ma ne
criticava i difetti, auspicando il suo abbattimento e l’avvento di un nuovo
modo di produzione, il socialismo, fondato sulla proprietà pubblica dei mezzi
di produzione e sulla sostituzione di un piano economico razionale alle anarchiche
(ancorché vitali) forze di mercato.
3.
La storia ha dimostrato, a mio parere, che il livello elevato e continuamente
crescente di complessità del sistema economico moderno, legato ad una continua
e stratificata accumulazione di saperi, non consente soluzioni semplicistiche
nè eccessivamente centralizzate al problema della governabilità. Si rende
quindi inevitabile da parte dello stato un grado elevato di delega al mercato
della funzione di coordinare le attività economiche ordinarie.(2)
Questa lezione storica ci deve indurre ad abbandonare la categoria di
socialismo come un sistema talmente diverso dal capitalismo, e anzi ad esso
opposto, dal dovere essere considerato un nuovo e distinto modo di produzione.
È secondo me più corretto considerare un unico modo di produzione, nell’ambito
del quale, come risultato di vari fattori tra cui il principale è dato dalla
lotta di classe, possono storicamente svilupparsi una serie di varianti.
4.
Tali varianti si differenziano tra loro in misura più o meno marcata. Un modo
di rappresentare queste differenze consiste nel classificare concettualmente i
vari sistemi socioeconomici realmente esistenti (o che potrebbero razionalmente
esistere) rispetto alla loro posizione in uno spazio “pieno” multidimensionale,
determinata da vari “vettori”, i quali a loro volta descrivono in modo continuo
fondamentali caratteristiche economiche e sociali. (3) Le
caratteristiche principali sono quelle che rappresentano gli aspetti strutturali
dei rapporti di produzione, ed hanno quindi essenzialmente natura positiva.
5.
Uno dei vettori più importanti è quello che descrive il peso relativo dello
stato e del mercato nella regolazione delle attività economiche – dando per
scontato che l’area realmente rilevante esclude gli estremi “niente stato” e
“niente mercato”, in quanto non sostenibili.(4) La
quantificabilità di questa caratteristica (peso rispettivo del mercato e dello
stato) è solo parziale. Un altro vettore strutturale descrive la distribuzione
della proprietà dei mezzi di produzione. Un altro ancora identifica la classe,
o il gruppo sociale che controlla l’economia nel suo insieme, e in particolare
determina in misura decisiva il processo di accumulazione e progresso tecnico.
E così via.
6.
Altri vettori potrebbero avere caratteristiche più prettamente normative, e
rappresentare il grado di conseguimento di obiettivi intermedi (come la
crescita economica o il progresso tecnico) e finali (come l’eliminazione della
povertà, la soddisfazione universale dei bisogni primari, una distribuzione del
reddito conforme a determinati principi etici e sociali, il rispetto
dell’ambiente). Molti di queste caratteristiche, sia positive che normative,
possono anche essere interpretate come descrittive di un grado maggiore o
minore di “socialisticità’” del sistema. Pur dando per scontato che non vi sarà
necessariamente in ogni caso unanimità tra gli osservatori neanche rispetto a
questo criterio definitorio, è probabile che la maggioranza consideri come “più
socialistico” un sistema nel quale il ruolo economico dello stato è maggiore
(da un punto di vista positivo). Su un piano ben diverso, quello normativo, è
“più socialista” rispetto ad altri un sistema con minori diseguaglianze sociali
e di reddito.
7.
Tenuto conto della estrema complessità dei rapporti sociali di produzione e di
scambio tipica del modo moderno di produzione, e della natura dialettica e non
lineare della storia, non esiste necessariamente una corrispondenza biunivoca
lineare tra la sfera positiva e quella normativa. Ciò non significa che le due
siano del tutto separate e che i movimenti sociali di ispirazione socialista
debbano rassegnarsi a una completa irrilevanza e impotenza progettuale. I
rapporti tra struttura sistemica e esiti economici e sociali possono essere
visti come una forma specifica del più generale rapporto tra mezzi e fini nella
sfera storico-sociale. Essi sono sempre complessi, a volte contraddittori, e
lasciano un ampio margine di flessibilità all’azione della politica, anche
all’interno di determinate coordinate sistemiche che escludano rivolgimenti
rivoluzionari.
8.
L’approccio delineato nei paragrafi precedenti non esclude che possa darsi
nella sfera positiva una differenza definitoria tra socialismo e capitalismo di
tipo dicotomico. Tale differenza, tuttavia, non è cosi “forte” da permettere di
considerare il socialismo come un nuovo e diverso modo di produzione, ma più
“debole”. A date condizioni, certe varianti del modo di produzione moderno
possono essere viste come abbastanza diverse dal tipico modello capitalistico
dal poter essere considerate delle nuove e diverse “formazioni
economico-sociali”. Il “socialismo di mercato” attualmente esistente in Cina e
in Vietnam è una manifestazione storica reale della possibilità teorica di
esistenza di “formazioni economico-sociali” diverse dal capitalismo,
all’interno del modo moderno di produzione.
9.
La caratteristica strutturale del socialismo di mercato asiatico che consente
di differenziarlo strutturalmente dal capitalismo è (come ho sostenuto
nell’articolo menzionato all’inizio) la seguente: il controllo diretto e
indiretto dei mezzi di produzione da parte della sfera pubblica determina in
questi paesi rapporti sociali di produzione diversi da quelli tipici del
capitalismo. Questa differenza è rilevante e significativa a livello
macroeconomico e sistemico, ma non si manifesta necessariamente a livelli più
bassi, quelli rilevanti soggettivamente per gli individui. Anzi, quasi tutti i
cinesi e vietnamiti devono confrontare (come piccoli contadini o come
salariati) come lavoratori con rapporti sociali di produzione determinati
essenzialmente dal mercato, e quindi soggettivamente non diversi da quelli
capitalistici.(5)
10.
In Cina e in Vietnam il ruolo di agente principale della accumulazione, nonché
detentore del potere politico e militare, è svolto dal partito, non dalla
borghesia. Il partito costituisce un gruppo sociale che non gode giuridicamente
della proprietà privata dei mezzi di produzione, ma esercita un controllo
strategico su questi ultimi attraverso una rete di organismi pubblici e
semipubblici e un sistema complesso e variegato di diritti di proprietà.
Aggiungo che ritenere che il partito conservi tale controllo strategico (che
indubbiamente aveva durante l’epoca preriformista), da una parte, e che non si
sia ormai trasformato in una nuova borghesia capitalistica (malgrado la
corruzione e le commistioni sempre più frequenti con l’imprenditoria privata),
dall’altra, costituiscono giudizi di valore derivanti da una valutazione
complessiva. Altri osservatori potrebbero non condividere tali giudizi di
valore, la cui accettazione non esclude peraltro la possibilità sempre presente
di una progressiva (come contrapposta a quella catastrofica verificatasi nella
ex-URSS) degenerazione capitalistica.
11.
Questo sistema consente di eliminare in parte un tradizionale difetto del
capitalismo: la potenziale contraddizione tra risparmi e investimenti causata
dalla appropriazione del surplus in forma finanziaria da parte di una classe
sociale estremamente ristretta, ma priva di meccanismi spontanei di
coordinazione interna delle fondamentali decisioni economiche. Nel socialismo
di mercato, o almeno nella forma in cui sta funzionando in Cina e in Vietnam,
lo stato determina il tasso d’investimento in misura qualitativamente più forte
che nel capitalismo, grazie alla maggiore ricchezza ed efficacia di strumenti
per il controllo diretto e indiretto del surplus e della sua utilizzazione, ed
alla assenza di una classe borghese nazionale propriamente strutturata e
politicamente egemone. Il controllo strategico diretto e indiretto sui mezzi di
produzione e sui centri di generazione e riproduzione del sapere tecnico
consentono in linea di principio una forma avanzata di pianificazione –anche
qualitativa – delle principali direttrici tecnologiche dello sviluppo (come si
vedrà, tuttavia, questa potenzialità non è stata finora sfruttata
adeguatamente).
12.
Lo straordinario dinamismo della economia cinese (e, in misura un poco minore,
di quella vietnamita) è dovuto in buona misura a queste caratteristiche
fondanti del socialismo di mercato. In altre parole, questo sistema consente in
teoria (e, almeno da trent’anni a questa parte, in pratica) di conseguire più
efficacemente del modello capitalistico standard un obbiettivo intermedio
fondamentale, soprattutto per i paesi arretrati: lo sviluppo delle forze
produttive – misurato ex-post sinteticamente, in modo notoriamente inadeguato,
dalla crescita(6) del PIL(7). Questo è il
significato normativamente neutro che attribuisco al termine “socialistico”.
13.
Il controllo pubblico di gran parte del surplus, se si potesse e volesse
estendere alla sfera dei consumi finali (cosa a mio avviso possibile, in linea
di principio, nell’ambito del socialismo di mercato), implicherebbe anche
potenzialmente un grande vantaggio distributivo: vi sarebbe infatti la
possibilità di minimizzare il consumo superfluo delle classi privilegiate, che
nel capitalismo godono di redditi non da lavoro, per canalizzarlo a forme di
consumo pubblico o sociale. È purtroppo evidente che questa potenzialità non è
affatto realizzata attualmente in Cina (e nemmeno in Vietnam): anzi è ormai
riconosciuto quasi ufficialmente che la spirale perversa verso un continuo
peggioramento della distribuzione del reddito è sfuggita praticamente di mano,
mentre servizi pubblici essenziali quali la sanità e l’educazione primaria sono
da tempo allo sfascio(8).
14.
È quindi sempre più evidente che il socialismo di mercato attualmente esistente
in Cina e Vietnam si è dimostrato gravemente deficitario nel compito di
tradurre la realizzazione di un obbiettivo intermedio e strumentale come la
crescita del PIL in obbiettivi finali di tipo sociale e in senso lato,
“umanistico”– intendendo con questo termine una serie di ragionevoli obbiettivi
non di classe ma di fondamentale importanza per l’umanità nel suo complesso,
trai quali primo un rapporto soddisfacente e sostenibile tra la sfera delle
attività umane e quella della natura.
15.
Le radici di questa contraddizione sono a mio parere non contingenti, ma
strutturali. Le riforme che hanno fondato il socialismo di mercato sono scaturite
da una giustificata reazione contro gli eccessi arbitrari e irrazionali del
precedente modello di socialismo egualitaristico centralmente pianificato.
Hanno interpretato una profonda aspirazione dei contadini, quella di sentirsi
in una certa misura padroni della terra per cui avevano fatto la rivoluzione.
Le riforme hanno così potuto creare rapporti sociali di produzione adeguati
alla fase storica che Cina e Vietnam stavano attraversando un trentina di anni
fa. Per usare una terminologia vecchia ma ancora efficace, hanno rappresentato
una corretta reazione “di destra” ad eccessi egualitaristici, volontaristici e
“di sinistra” che stavano mettendo a rischio la sopravvivenza stessa del potere
del partito e l’indipendenza nazionale, il cui unico possibile esito sarebbe
stato il ritorno della dominazione neocoloniale imperialista (a parte il
rischio concreto di spaventose carestie)(9).
16.
Le successive fasi di riforme applicate all’industria sono state anch’esse
molto efficaci in termini di sviluppo delle forze produttive, ma hanno anche
generato contraddizioni sociali crescenti. La strategia riformista ha
manifestato un grave limite culturale, probabilmente inevitabile all’inizio ma
divenuto progressivamente più deleterio, e trasferitosi progressivamente sul
piano sociale e politico. Questo limite consiste essenzialmente nella sua
natura accentuatamente pragmatica e priva di solide fondamenta teoriche,
scientifiche e – lo aggiungo senza tema di passatismo – ideologiche. Il salutare
bagno di realismo dopo la sbornia irrazionalistica della Rivoluzione Culturale,
efficacissimo nel breve periodo, si è man mano tradotto in una crisi
intellettuale e morale e in un vuoto ideologico. Questo vuoto, inevitabilmente,
è stato man mano riempito da una subalternità crescente al pensiero economico
borghese e all’ideologia globalizzante del “pensiero unico, e addirittura dal
rischio di un ritorno in forze di credenze magiche e religiose.
17.
L’apertura al mercato ha generato nuove contraddizioni di classe – inesistenti
o comunque del tutto secondarie nel periodo precedente, quando paradossalmente
Mao proclamava l’intensificarsi della lotta di classe dopo la rivoluzione –
che, in assenza di un adeguato intervento soggettivo della politica, non sono state
governate e sono andate progressivamente fuori di controllo. Il partito stesso
ha mostrato gravi forme di degenerazione opportunistica, e la politica
economica è stata caratterizzata in pratica da una priorità eccessiva e
parossistica accordata alla crescita quantitativa. È stata inoltre
sottovalutata la gravità dell’impoverimento relativo delle masse causata dalla
continua divaricazione delle differenze sociali (pur in una epoca di
straordinario miglioramento assoluto delle condizioni di vita per quasi tutti i
cinesi), mentre sono stati largamente abbandonati in pratica i sani principi
egualitari del socialismo (che dovrebbero e potrebbero essere distinti dagli
irrazionali eccessi “egualitaristici” del passato).
18.
Insomma, la crisi ideologica a livello sovrastrutturale ha impedito finora di
utilizzare ai gruppi dirigenti di utilizzare gli ampi spazi di flessibilità che
la politica può e deve mantenere, pur dando per scontato il rispetto dei
vincoli strutturali e macroeconomici fondamentali per il funzionamento della
accumulazione e della crescita interno al modello di socialismo di mercato.
Tali vincoli sistemici sono infatti, a mio parere, compatibili con l’attuazione
di forti politiche sociali, redistributive e ambientali, all’interno di
qualsiasi sistema di accumulazione parzialmente basato sulla delegazione di
gran parte delle scelte economiche ordinarie agli automatismi del mercato.(10) Parafrasando un vecchio detto di Mao, è il partito che
deve comandare al mercato, e non viceversa.
19.
La consapevolezza della gravità della crisi sociale, ambientale, morale, e
ideologica del paese, che si sta manifestando parallelamente allo straordinario
successo del socialismo di mercato nel compito primario (ma non esclusivo) di
sviluppare le forze produttive, non è estranea al (relativamente nuovo) gruppo
dirigente del PCC. Si parla ormai apertamente e dai pulpiti più elevati della
necessità di (ri)costruire una “civiltà spirituale socialista” fondata sulla
“armonia” sociale e di mantenere un “approccio scientifico allo sviluppo”. Più
concretamente, i dirigenti del partito e la stampa ufficiale affermano sempre
più insistentemente che le differenze sociali e di reddito hanno ormai
oltrepassato il livello di guardia e non sono assolutamente tollerabili, che il
degrado ambientale è talmente rovinoso da rendere ingannevole la stessa idea di
crescita della ricchezza nazionale a causa dei suoi enormi effetti perversi,
che le sofferenze inflitte alle masse dalla assenza di un sistema sanitario
nazionale degno di questo nome sono inaccettabili in qualsiasi paese civile,
men che meno in un paese socialista.
20.
Finora si è fatto qualcosa per metterci una pezza, ma non basta. Il primo a
saperlo sembra essere Hu Jin Tao. Se la politica riuscirà a tornare al posto di
comando per governare le contraddizioni inevitabilmente generate dallo
straordinario successo del socialismo di mercato si saprà abbastanza presto
(non c’è più molto tempo, il rischio che il processo sfugga di mano è reale).
Naturalmente, come andranno le cose dipenderà soprattutto dalla lotta politica
interna al PCC, e dalle lotte sociali e ideologiche in corso nella società
cinese.
* Economista ed esperto dei problemi dello sviluppo
Note
1) Si noti che l’estrazione di
plusvalore (o se si vuole usare un termine più neutro, di surplus), fondamento
della accumulazione, non è invece una novità, in quanto preesistente e
caratteristica di tutti i sistemi divisi in classi (anche se, naturalmente,
essa presenta caratteristiche nuove nel sistema moderno).
2) Del tutto ridicola è, d’altra parte, la falsa utopia
borghese di un mercato autoregolantesi in modo perfetto senza bisogno alcuno
dello stato.
3) Tali caratteristiche hanno sia componenti positive che
componenti normative, che possono essere quantificate compiutamente solo in
certi casi, mentre in altri è necessario affidarsi ad un giudizio euristico in
certa misura intuitivo e non privo di un margine di arbitrarietà.
4) Questo vettore rappresenta una caratteristica positiva (il
mondo come è), ma non è privo di implicazioni normative: un liberale favorirà
un ruolo minimo dello stato come un valore in sé, mentre un socialista, al
contrario, vedrà nello stato almeno una potenzialità di razionalità, giustizia
e democrazia, e tenderà (ceteris paribus) a vederlo con favore rispetto alle
cieche forze di mercato.
5) Con una precisazione: malgrado la grande espansione del
settore private soprattutto nell’industria e nei servizi, la maggior parte dei
cinesi e dei vietnamiti è tuttora costituita da contadini. Numerosi, anche se
in diminuzione, sono i dipendenti pubblici e delle imprese statali. Queste due
gruppi sociali non sono sottoposti a “sfruttamento” capitalistico nel senso
classico marxiano.
6) Non è questa la sede per un discorso critico sulla “teoria
della decrescita”. In sostanza, tuttavia, credo che sia sempre corretto da un
punto di vista sociale porsi un obbiettivo di crescita e sviluppo, sempre che
per crescita si intenda “ampliamento progressivo della sfera delle possibilità
tecniche per soddisfare legittimi bisogni umani”, tra i quali ovviamente un
giusto rapporto con la natura, e non, capitalisticamente, una espansione
indefinita e incontrollata della produzione di merci a discapito dell’ambiente.
7) La consapevolezza del fatto che il tasso di crescita del PIL
convenzionalmente misurato è inadeguata, soprattutto perché ne ignora (o
sottostima gravemente) i costi ambientali, è molto avanzata in Cina, anche
negli ambienti ufficiali. Per uno dei paradossi tipici di questa fase di grandi
cambiamenti, ad esempio, i progressi statistici verso una stima realistica del
“PIL verde” sono assai più avanzati in Cina che nella maggior parte dei paesi
occidentali avanzati. A questi progressi teorici non hanno però corrisposto
finora grandi risultati pratici in termini di politica ambientale.
8) Questo sfascio va inteso come gravissimo degrado della
necessaria natura pubblica di questi servizi, che dovrebbero essere universali
e gratuiti: al contrario, in Cina essi sono stati largamente abbandonati al
mercato.
9) Questi sommari giudizi storici si riferiscono alla Cina. La
situazione in Vietnam alla fine degli anni ’70 era diversa ma anch’essa
drammatica.
10) La Svezia, ad esempio, è un paese capitalista e non
“socialistico”, da un punto di vista non-normativo. Tuttavia, lo stato svedese
mostra grandi capacità di controllo sulle risorse nazionali attraverso la leva
fiscale, e riesce a riorientarle in senso fortemente sociale ed egualitario,
mantenendo al contempo politiche macroeconomiche compatibili con una forte
crescita del PIL. Senza ignorare le enormi differenze storiche e culturali e il
ben diverso livello di sviluppo delle forze produttive, non vi sono ragioni
teoriche di principio per cui politiche redistributive e sociali comparabili non
potrebbero essere applicate in un sistema di socialismo di mercato.