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da Rebelion.org – 06/01/2006
http://www.rebelion.org/noticia.php?id=25130

Appunti sulla Cina


di Higinio Polo

1.
A Pechino, o Beijing, colpisce la modernità della città. Anche a Shanghai. Visitare quelle città, dopo un’assenza di un decennio, le rende quasi irreconoscibili. Sono gigantesche, del resto lo è tutto il paese, tanto che per un europeo le dimensioni della Cina confondono.
Non dobbiamo dimenticare che la popolazione della Cina è ormai pari all’intera popolazione mondiale degli inizi del secolo XX.

La Cina conta su una brillante civiltà: la grande muraglia, la città proibita, la sua raffinata cultura, il vigore e l’esperienza dei suoi contadini che inventarono ed interpretarono la vita, le invenzioni che cambiarono il pianeta, sono dimostrazioni di una realtà che l’Occidente segue senza capire bene e guardandole da lontano, con paura e avidità. Perché quell’Occidente capitalista continua a credersi il centro dell’umanità, nonostante che il suo tempo sia già passato. Lo rivela il fatto che in Europa e negli Stati Uniti si continui a denominare Everest la montagna più alta del mondo, quando in realtà, quella montagna si chiama Qomolangma, come la chiamano cinesi e nepalesi. I cinesi, molto prima che in Occidente la battezzassero Everest, quella montagna l’avevano messa sulle loro mappe, e questo capitava quasi trecento anni fa.

Pechino bolle di animazione. Nella ristrutturata strada Wangfujing, masse di pechinesi passeggiano, comprano, mangiano in piccoli e gradevoli ristoranti ambulanti. Nel Tempio del Cielo, migliaia di turisti cinesi vedono il prodigio delle creazioni della loro cultura millenaria.
La trasformazione del paese è un fenomeno di portata storica universale: si tenta di trasformare 1.300 milioni di contadini in cittadini. Non si è mai verificato nella storia dell’umanità un processo di tale portata, ed il suo risultato segnerà il secolo XXI. Si calcola che nei prossimi quindici anni, due o trecento milioni di contadini si sposteranno nelle città: la popolazione urbana della Cina aumenterà dagli attuali 525 venticinque milioni a circa 800 milioni di persone.
Ciò che indicano quelle cifre esula dalle nostre convenzioni, oltrepassa le anali che siamo soliti realizzare: è come se l’Unione Europea nel breve lasso di quindici anni, dovesse creare posti di lavoro, abitazioni, quartieri, città, infrastrutture, ospedali e scuole per la somma della popolazione dei suoi tre principali paesi membri: Germania, Gran Bretagna e Francia.

Quella è la sfida che affronta la Cina. Lo scorso ottobre, nell’ultima riunione del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese è stato messo a punto il piano quinquennale XI (2006-2010).
Il piano persegue l’obiettivo di duplicare il PIL della Cina nel 2010, prendendo come riferimento quello dell’anno 2000. Come se non bastasse, il PCC abborda come obiettivi del piano il perfezionamento del “sistema economico socialista di mercato”, la riduzione del consumo energetico, il rinvigorimento delle imprese cinesi all’estero, l’educazione obbligatoria di nove anni per tutti, la creazione di milioni di nuovi posti di lavoro, la riduzione della povertà, l’aumento del livello di vita - con speciale attenzione ai contadini - la stabilità dei prezzi, il miglioramento delle abitazioni e dell’ecosistema, dell’educazione e della cultura. Roba da poco…

Il PCC pretende anche di spingere soprattutto i meccanismi democratici di partecipazione popolare e il rispetto della legalità in tutto il paese, oltre ad avanzare nel riconoscimento dei diritti civili.
Sono lontani gli anni degli spropositi della rivoluzione culturale.
Quella riunione del Comitato Centrale del PCC ha insistito nella prospettiva di una società socialista armoniosa, con quel sorprendente (per gli europei) linguaggio orientale; in una situazione che in alcune zone del paese si fa preoccupante, in realtà, si propone soprattutto di farla finita con le disuguaglianze che ha creato la riforma, di controllare la crescita economica ed il suo impatto sull’ecosistema. Le disuguaglianze che la riforma ha creato tra le diverse regioni del paese, e le differenze di reddito tra gli abitanti urbani e quelli rurali, sono stati oggetto del dibattito tra i dirigenti comunisti con l’obiettivo di ridurli, sottolineando con enfasi la necessità di permettere l’accesso di tutta la popolazione cinese ai benefici della riforma, e insistendo nel rinvigorimento dell’obiettivo del socialismo: se fino ad ora predominava l’interesse per la crescita dell’economia del paese, a volte a qualunque prezzo, ora, senza abbandonare quella strada, il Partito Comunista crede arrivato il momento di concentrarsi sulla vita dei cittadini. È indispensabile.

Nel frattempo, Pechino prepara i prossimi Giochi Olimpici, e ciò si nota in piazza Tiananmen, il cuore del paese, coi suoi parterre di fiori immacolati, ma anche nella trasformazione della città, nella modernizzazione di strade, autostrade, quartieri ed edifici, nei trasporti, nella vita dei suoi abitanti. Nel quartiere musulmano di Pechino vedo lavorare le scavatrici e le gru: si abbattono le vecchie case stipate negli stretti hutongs e si costruisce la nuova città, che a volte continua ad ospitare tracce della vita rurale, là sui balconi di alti edifici, dove si vedono i cardellini di campagna o si ascoltano i grilli chiusi in una piccola gabbia di bambú. In quel quartiere, molti cartelli sono in alfabeto arabo, gli stessi che si vedono anche nel centro dell’antica capitale imperiale, la Xian dei guerrieri di terracotta dove arrivano turisti da tutto il mondo per vedere le migliaia di statue che conservano il sonno dell’imperatore Qin Shi Huang.

2.
Gli hutongs sono i vecchi vicoli della vita comunitaria cinese. In quei posti si viveva praticamente per strada: lì si cucinava, si chiacchierava, si discuteva di argomenti comuni e di politica, si lavavano i vestiti ed le stoviglie. Si fa ancora, anche se molti stanno scomparendo. La vita in questi posti non è facile; l’ammucchiarsi, la convivenza in stretti vicoli, la mancanza di infrastrutture adeguate, la decadenza delle abitazioni, pesa più delle pittoresche immagini della vita cinese che pure si possono cogliere ancora oggi. Perchè l’emozione che producono è una cosa che possono sentire solo i turisti, i curiosi. La scomparsa degli hutongs pechinesi ha suscitato critiche, soprattutto di turisti e di residenti stranieri, che credono che con ciò si perde l’anima della vecchia cultura cinese. Ma ai cittadini cinesi che vivevano in quelle abitazioni precarie e sovvrapopolate, sembra loro stupendo passare a vivere in un alloggio nuovo e moderno.

Cambiano tante altre cose: i negozi, i mercati, i centri di riunione. Alcuni visitatori si sorprendono che ci siano quegli infami ditributori di cibo unto e insalubre chiamato Mcdonalds. Ma la Cina si è aperta all’esterno, e questo comporta anche l’ingresso delle feci della culura occidentale.
Il cambiamento si vede per le strade, dall’angolo di campagna fino a Pechino; il chiassoso popolo cinese assaggia una prosperità che è una conquista ed una novità, e riempie ristoranti, luoghi di passatempo, negozi e centri commerciali, e viaggia per il suo immenso paese, fotografando le impressionanti dimostrazioni della sua cultura, la più antica che oggi esista sul pianeta. Milioni di cinesi si muovono a Xian o Shanghai, visitano la città proibita degli imperatori o la grande muraglia che li difendeva dai popoli del nord. Non l’avevano fatto mai fino ad ora, almeno in cifre tanto grandi come quelle di oggi.


Deng Xiao Ping, l’ispiratore della riforma, di cui molte scelte sono discutibili, aveva insistito:
“Il socialismo non è povertà”, ed a ciò si sono applicati i dirigenti cinesi. Il vecchio socialismo ugualitario e povero che costruì Mao sta lasciando il passo ad un altro tipo di socialismo.
Ma i problemi sono ancora molti. Al sud della grande piazza Tiananmen, le cui dimensioni sono equivalenti a quarantamila case dell’Eixample barcellonese, si vedono alcuni mendicanti che vivono per strada; certo non si possono paragonare alle legioni di senzatetto che si vedono a New York, ma sono un tratto preoccupante, a dispetto del loro scarso numero.

La riforma ha già trasformato buona parte del paese. Le risorse su cui conta ora, solo venticinque anni fa erano impensabili. Ormai la Cina è in grado di inviare cosmonauti nello spazio. Prima, solo l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti hanno potuto farlo, e oggi sono le tre uniche potenze con i mezzi per continuare a farlo. Questo inorgoglisce il paese, ed è comprensibile che sia così. Il 15 ottobre del 2003, Yang Liwei, il primo cosmonauta cinese, è stato inviato nello spazio dall’astronave Shenzhou V. E’ stato un successo. Dopodichè, nell’ottobre scorso, è stato lanciato il vettore spaziale Shenzhou VI: la Cina è una delle tre potenze spaziali del mondo. Il quotidiano Xinwen Chenbao rivela che il vettore lanciato nel cosmo aveva l’insegna dell’Esposizione Universale di Shanghai che si celebrerà nel 2010, e che pretende di essere la vetrina del vigoroso sviluppo cinese. I taikonauti, come chiamano i cinesi i loro uomini dello spazio, sono tornati con successo e soddisfatti.

La Cina si è impegnata a partecipare alla conquista dello spazio ed ogni volta vi dedica più risorse. La recente inaugurazione del Centro di Ricerche Scientifiche e d’Addestramento per Astronauti, a Pechino, si aggiunge ai due che fino ad oggi già esistevano sul nostro pianeta: il pioniere Centro d’Addestramento di Astronauti Yuri Gagarin, dell’URSS (Russia), ed il Centro di Voli Spaziali di Houston, negli Stati Uniti. Il centro di controllo dei voli (CCVEB) è nella Città Voli Spaziali di Pechino, un enorme complesso vicino all’autostrada Pechino-Changping: da lì si controllano i voli spaziali cinesi. Dall’enorme sala di controllo, uno schermo lungo dodici metri e alto quattro, la Cina, si lancia nella competizione spaziale, mentre gli Stati Uniti hanno seri problemi con le loro navette e la Stazione Spaziale Internazionale si regge sulle Soyuz russe, perché la Cina non partecipa: gli Stati Uniti avevano vietato la partecipazione a Pechino.

3.
Il treno che porta all’aeroporto internazionale di Shanghai è unico al mondo: elettromagnetico, raggiunge una velocità di 430 chilometri all’ora. È una prodezza, realizzata in cooperazione con ditte tedesche: i treni si muovono a velocità di vertigine senza toccare il suolo. La Cina è stata il primo paese del mondo a contare su treni di quelle caratteristiche.
Anche Shanghai bolle di attività. Nel passato, le potenze coloniali avevano imposto “concessioni”: britannici, nordamericani, giapponesi, signoreggiavano la zona chiusa tra il fiume Huangpu e la strada Huashan, ed i francesi stavano nella zona di Luwan e Xuhui. Intorno, si estendeva il sigillo della prostituzione, della schiavitú, della miseria, della droga, e il lusso dei delinquenti. Davanti al fiume  si conserva ancora l’hotel dove, negli anni trenta del secolo scorso, quando Shanghai era la prostituta dell’Asia, regnava uno dei raffinati gangsters e trafficanti di droga, Víctor Sassoon, arricchitosi col traffico di oppio che ammazzava decine di migliaia di cinesi. Oggi, in quell’hotel, al pianterreno, ogni notte suona un gruppo di musicisti di jazz.

Nel Bund, la passeggiata davanti al fiume che articola la vita di Shanghai i colonizzatori europei avevano messo quei cartelli infamanti che proibiva l’ingreso “ai cani o cinesi”.
Qui, in questa città bella e caotica, venne fonfato anche il Partito Comunista Cinese, in una vecchia casa della strada Wantze, nella concessione francese. Erano solo quindici persone quelle che assistettero alla riunione; tra esse, due delegati dell’Internazionale Comunista. La polizia francese era alle loro calcagna e il congresso fondativo dovette essere sospeso per evitare l’arresto dei presenti In quella casa del 106 di Wantze si vede ancora il tavolo intorno a cui si riunirono quei quindici rivoluzionari. Ma dalla fondazione del Partito Comunista a Shanghai, la città si è trasformata ed il partito anche: oggi ci sono quasi settanta milioni di iscritti.


Sull’altro lato del fiume, c’è la Perla dell’Asia, come chiamano la futurista torre della televisione di Shanghai che domina l’orizzonte sul Huangpu. Salire fino alla veranda situata a 350 metri di altezza, aiuta a comprendere le dimensioni di Shanghai e della crescita economica cinese. Altri, guardano la città dalla torre Jin Mao, all’87º piano non si può smettere di risentire la sensazione di stare assistendo alla nascita di un altro mondo. Le due torri sono a Pudong, una zona sull’altro lato del fiume, che quando la visitai nel 1991, erano ancora risaie. Oggi, è l’immagine della città moderna, futurista, che giustifica la frase di un giornalista nordamericano che ha esclamato: “Davanti alla nuova Shanghai, Manhattan mi sembra vecchia e decadente.” 
Anche a Shanghai sono stati costruiti centri di ricerca sul cosmo, così occupa un posto importante nel programma spaziale, insieme a Xichang, Taiyuan, Pechino e la base di lancio di Jiuquan, nel deserto dei Gobi.

Lo speculatore George Soros, nel suo libro “La crisi del capitalismo globale”, dichiarava che nei giorni della crisi asiatica del 1997, la metà di tutte le gru da costruzione del mondo stavano lavorando a Shanghai.
Le centinaia di grattacieli che si vedono oggi nella città mostrano il vigore dell’economia cinese.
Alcuni osservatori (è curioso) tanto di destra come di sinistra, ritengono che quella realtà si spiega perché la Cina ha adottato il capitalismo. Settori della sinistra occidentale arrivano a parlare della “classe capitalista-burocratica” che, secondo loro si è impadronita del paese. È vero che l’egualitarismo dei tempi di Mao è sparito, a volte a causa delle esigenze di grandi compagnie internazionali, e altre volte in conseguenza delle necessità della riforma economica: la flessibilità del lavoro è stata considerata come una garanzia per la crescita economica, anche se la sua efficacia è dubbia. Tuttavia, si sbagliano entrambi, come si sbagliò Mao Tse Tung quando dopo la sua rottura con Mosca, denunciò che nell’Unione Sovietica si era stabilito di nuovo il capitalismo: il furto e le privatizzazioni che stabilirono il capitalismo dei banditi Yeltsin e Putin, quarant’anni dopo smentirono quell’affermazione di Mao.

Quella similitudine nelle analisi liberali e di sinistra, si spiega per via di una conoscenza parziale della realtà cinese e per la persistenza di luoghi comuni e dogmi prestabiliti. Per i liberali, il successo economico cinese può spiegarsi solo come frutto dell’adozione di strutture capitalistiche: secondo la loro visione, il socialismo è fallimento e il capitalismo è prosperità e crescita economica. Per alcuni di sinistra che sono arrivati a scrivere che si è passati dal libro rosso al più feroce capitalismo, è difficile accettare molte delle decisioni della Cina: l’investimento straniero, l’apertura alle borse valori, il beneficio privato, l’arricchimento di un piccolo settore della popolazione. Altri, più sensati, ricordano il precedente della NEP sovietica.

In realtà, se seguiamo le spiegazioni del Partito Comunista Cinese, quelle iniziative portate dalla riforma possono piacere o no, ma sono una conseguenza di un programma di sviluppo nazionale che non poteva smettere di crescere nel paese più popoloso del mondo. I dirigenti cinesi insistono col dire che l’investimento estero e l’esistenza di un spazio economico in mani private, straniere, sono imprescindibili per migliorare  tecnologia e sistemi di lavoro, e per superare la povertà, e ricordano che il settore pubblico continua a controllare la struttura economica del paese. Non sono state privatizzate né imprese pubbliche di settori strategici, né quelle che continuano ad essere redditizie, ed il settore pubblico continua ad essere maggioritario nell’economia cinese.

A dispetto di tutto, le contraddizioni esistono, e spesso sono gravi. I nuovo ricchi si distinguono per le loro eccentricità e a volte, per la loro ostentazione. Gli squilibri si mostrano nella differenza di reddito tra le città - soprattutto dell’Est e Sud del paese - e la campagna, ed anche tra un segmento della popolazione che ha già raggiunto livelli di consumo equiparabili a quelli d’Europa e l’evidente austerità e basso livello di vita di centinaia di milioni di persone. Il quotidiano del Paese, rendeva noto alcune settimane fa, che secondo uno studio di Hu Angang, professore dell’Università di Tsinghua, la differenza di reddito tra gli abitanti delle città e quelli di campagna era stata di 2,5 volte nel 1995, e di 3,2 volte nel 2003. La relazione concludeva che grazie ai sussidi che si godono nelle città, è probabile che la differenza sia di quasi cinque volte. Quella è una delle cause della gigantesca migrazione di popolazione che sta avendo luogo dalle zone rurali a quelle urbane, di dimensioni sconosciute nella storia dell’umanità, e spiega l’attrazione che esercitano le città cinesi e anche l’insoddisfazione dei contadini, abituati ad una grande uguaglianza in tutta la Cina dai tempi di Mao, ma che hanno visto che mentre il paese avanzava la prosperità arrivava prima alle città che alle campagne. Le loro lamentele sono più che ragionevoli, e sono riconosciute come tali anche dallo stesso governo cinese.

Mentre il Ministero di Lavoro e Previdenza sociale proclamava che nel X piano quinquennale la previdenza sociale era aumentata e che era riuscito ad assicurare il pagamento puntuale delle prestazioni e superare il ritardo delle pensioni, il ministro della sanità, Gao Qiang, riconosceva poco dopo che la riforma sanitaria è stata un fallimento, e che la delicata situazione che affronta la popolazione senza copertura medica è un grave problema che non si può trascurare. Milioni di contadini non hanno accesso ad una medicina affidabile, ciò è una lacuna che il paese non può permettersi. Ma ci sono problemi anche in città, e spesso gravi. Il Centro di Controllo e Prevenzione di Malattie richiamava l’attenzione sulle più di 1.700 aziende che producono forme di inquinamento pericolose per i lavoratori, e riconosce che è minacciata la salute di circa duecento milioni di lavoratori.

Durante il X piano quinquennale, il PIL cinese è cresciuto di quasi un 10 % annuale, ma la creazione di posti di lavoro nell’industria non è stata della grandezza di cui ha bisogno il paese per integrare i milioni di contadini che emigrano nelle città. Il PCC considera preoccupanti gli squilibri che sono apparsi negli ultimi anni: numerosi gruppi di popolazione povera, con scarse risorse, nelle città e in campagna. L’aumento della delinquenza è una conseguenza diretta di quella situazione. Liu Jian, responsabile nel Consiglio di Stato cinese dell’aiuto alle regioni povere, ritiene che da quando è cominciata la riforma economica, i 250 milioni di persone che vivevano nella povertà sono diminuiti a soli ventisei milioni.

Detto in altro modo, però, tutto ciò risulta alquanto diverso: è notevole il contrasto tra l’aumento della povertà nel mondo, dai mille milioni di poveri nel 2000, si è passati a mille trecento nel 2004, mentre vi è stata una costante riduzione in Cina. Bisogna notare che nel mondo, dei 750 milioni di persone che soffrono la fame ogni giorno, nessuno è cinese.
La vita della vecchia Shanghai è un ricordo, anche se rimangono le stradine del centro storico, ora ristrutturato. Nel giardino Yuyuan, visitato dal conte Maurice di Hérisson nel 1859 che si meravigliava davanti ai pozzi dove le famiglie povere lanciavano i loro figli morti, appena avvolti in un sudario, c’è la casa del tè Huxingting, circondata da un piccolo lago solcato da ponti capricciosi. Lì, all’'imbrunire, s’infiammano gli animi che illuminano la cerimonia del tè, in un ambiente che ricorda la vecchia Cina imperiale, orgogliosa e decadente, marionetta dell’imperialismo occidentale che ora è soltanto un cattivo ricordo del passato.

4.
Impalcature di bambú scalano il nuovo grattacielo in costruzione, illustrando la frenetica apparizione di edifici, nuovi quartieri, fabbriche, città.
I rischi per l’ambiente sono molti, perciò il governo si appresta a lottare contro la distruzione dell’ecosistema, sottovalutato da molti dirigenti locali e regionali in onore della crescita a qualunque prezzo. Una delle ultime iniziative è stata creare nella periferia di Pechino zone verde per evitare che arrivi fino alla capitale la polvere dal deserto di Gobi. Si fa lo stesso in altre zone: è stata appena costruita una’area verde di 435 chilometri, larga circa ottanta metri, che attraversa il terribile deserto di Taklimagan, nella regione di Xinjiang. È il deserto di sabbia in costante movimento, il più grande del mondo. Le strade finivano con l’essere consumate dal deserto. Il suo obiettivo è lo sviluppo della regione iugur di Xinjiang e la conservazione delle infrastrutture, per questo si è ricorso all’irrigazione per gocciolamento delle migliaia di alberi piantati. Ma il paese è stato disboscato in molte zone, ed ora è urgente tornare a creare i giganteschi boschi che permettano alla Cina di respirare.


La prima ministro cinese, Wen Jiabao, ha insistito recentemente sulla necessità di un sviluppo ugualitario che raggiunga tutta la popolazione. Da parte sua, Niu Wenyuan, uno scienziato dell'Accademia delle Scienze cinese, ritiene che nei prossimi venticinque anni, la Cina deve stabilizzare la sua popolazione, raggiungere uno sviluppo sostenibile ed un consumo energetico costante, senza crescita. Se otterrà ciò, sarà riuscita ad assicurare per tutta la popolazione l’alimentazione, la conservazione dell’ambiente, la salute e la giustizia sociale. Per lui, lo sviluppo sostenibile, meta del Partito Comunista Cinese, sarà possibile (anzitutto) sulla base della “crescita zero” della popolazione, della stabilizzazione del consumo energetico, e della conservazione dell’ecosistema. Non si potrà costruire nulla su di una natura devastata.
Uno sviluppo sostenibile, come quello che pretende di ottenere il governo cinese è possibile con una gestione prudente delle risorse e dell’energia. La Cina importa sempre di più petrolio, ma conta su importanti giacimenti di fonti energetiche. Zhang Guobao, ministro della Commissione Statale di Sviluppo e Riforma, rivelava che da alcune settimane la percentuale di autonomia energetica del paese è arrivata al 94 %, e che solamente il 6 % restante dipende ancora dall’importazione.

A dispetto delle sue crescenti necessità energetiche, la Cina continua ad esportare carbone: 80 milioni di tonnellate lo scorso anno. Zhang si è difeso così dalle costanti accuse - di fonte occidentale - che una delle principali cause dell’aumento del prezzo del petrolio era dovuta alla crescente domanda cinese. Le pressioni sono costanti: l’ex presidente USA, Bill Clinton, recentemente ha chiesto alla Cina di riconoscere la minaccia per la natura che implica la sua crescita economica e l’aumento nel consumo d’energia. Clinton ha dichiarato che forse non ci sarà petrolio sufficiente per tutti. Ma le sue parole hanno stupito molto, dato che provengono dall’ex presidente di un paese che è il maggiore consumatore di petrolio del pianeta e l’agente inquinante più aggressivo.

Clinton vede la pagliuzza nell’occhio cinese, ma ignora la trave nell’occhio nordamericano.
La creazione di nuovi centri industriali, città manifatturiere, porti che articolano sempre di più un commercio internazionale, lanciano l’avanzamento cinese trasformando il paese nella fabbrica del mondo: è difficile oggi che gli abitanti di qualunque posto del mondo non abbiano in casa loro i prodotti cinesi. Accanto a ciò, cresce lo sviluppo di Internet; la Cina è già il secondo paese nel mondo per numero di utenti della rete e, tra poco sarà aumentata la diffusione della telefonia, perché la Cina è ormai il paese con più telefoni mobili del pianeta, e anche dell’uso di carte di credito - che ha raggiunto la cifra di 875 milioni - illustrano il cambiamento sociale e lo sviluppo cinese.
Il gigante cinese si è svegliato.

5.
A Shanghai si scatena un tifone. Mi dicono che era più di un anno che non colpiva la città un temporale simile, che ha impressionato chi non è abituato: il vento fischia, si abbatte al suolo, fare due passi per la strada significa finire inzuppato fino alle ossa, spesse cortine d’acqua frustano gli edifici, e tutto sembra sul punto di affondare. Ma Shanghai è preparata per resistere ai tifoni. Benché, dal Bund, non si veda il grattacielo di Pudong per tutta quell’acqua, le sue strutture resistono senza problemi. La vecchia città cinese attorno al bel giardino di Yuyuan si è completamente trasformata: chi l’aesse visitata dieci, quindici anni fa, avrebbe visto una frenesia di quartieri popolari, di mercati caotici, di case decrepite dove si ammucchiavano i suoi abitanti, dove si lavava e si cucinava per strada.

Qui c’è stato Jean Cocteau, nel 1936. Lo scrittore francese ci parla dei suoi quartieri di prostitute, dei bambini alimentati a forza che non si lasciavano crescere e che si trasformavano in piccoli mostri obesi, dei quali invecchiava solo la testa, trasformati in budda viventi; dei marinai americani ubriachi che cercavano amori mercenari e vomitavano le marcia ed avida aquila del loro paese; dei russi bianchi che trascinavano la loro miseria e disperazione per gli antri della Shanghai inginocchiata. A Shanghai, Cocteau incontrò Charlie Chaplin e Paulette Godard, e con essi vide le danze di povere ragazze che ballavano per un dollaro. Ci sono problemi di prostituzione nella Shanghai dei nostri giorni, e c’è spaccio di droga, a dispetto della severità della polizia, ma la città non ha niente a che vedere con quella che vide Cocteau. Neanche con la Shanghai austera degli anni maoisti.


La diga delle tre gole è lontano da Shanghai, ma qui si discute sui benefici che porterà al paese.
Non invano, la città è nel grande estuario dello Yangtze, uno dei grandi fiumi cinesi che attraversa il paese per migliaia di chilometri. La grande diga, che sarà la più grande del mondo, servirà, tra l’altro, per ostacolare le disastrose inondazioni periodiche che causavano migliaia di morti quasi anno, come una sorta di condanna millenaria che la Cina ha sopportato dalla preistoria. Gli ecologisti occidentali non vedono di buon occhio la diga, ma i suoi benefici sembrano evidenti.
Un milione di persone sono stati trasportate altrove per facilitare la sua costruzione, e sembrano soddisfatte con le loro nuove abitazioni. Costata circa 25.000 milioni di dollari, nel 2009 la diga sarà finita, e genererà buona parte dell’elettricità di cui ha bisogno il paese.


6.
La strategia cinese segue i modelli di pazienza orientali. Non è qualcosa di nuovo, portato dalla riforma: è stato sempre così. Se in Europa contiamo gli anni, in Cina sembrano pensare per decadi e secoli. Chu In Lai, il compagno di armi di Mao, interrogato sul significato storico della rivoluzione francese, rispose che era ancora troppo presto per saperlo. L’ascesa cinese alla condizione di grande potenza ci porta una novità: tutte le vecchie potenze ottennero il loro potere dopo guerre distruttive o sanguinarie campagne di conquista. Invece, l’ascesa cinese è pacifica. In realtà, ciò è tradizione della sua diplomazia e della sua cultura: la Cina non ha  mai invaso i suoi vicini.

Una questione centrale per capire la politica estera cinese ed il suo irrimediabile rinvigorimento: a differenza degli Stati Uniti, la Cina non ha nemici. Le sue differenze col Giappone dimuiscono secondo l’interpretazione della storia recente. Mantiene una stretta collaborazione col Vietnam e con la Russia. Di fronte a quella realtà, Washington è prigioniera tra la tentazione di una politica aggressiva e la prudenza che gli reclamano alcuni noti membri della sua elite dirigente. Samuel Berger, ex assessore della Sicurezza Nazionale di Clinton, dichiarava quasi con metafore orientali: “troppi nordamericani guardano il drago cinese e vedono solo squame e denti affilati, e molti cinesi vedono l’aquila statunitense ed osservano solo occhi ferosi e forti artigli, che il drago e l’aquila lascino spazio libero nel mondo, per condividere il futuro”. Non è una concessione: è la più sensata politica che possono seguire gli Stati Uniti, perché il potere cinese non sta arrivando, è già qui. Secondo Berger, le questioni dell’energia, della protezione della natura e della sanità, devono essere al centro delle preoccupazioni dei due paesi.


Quella tranquilla strategia cinese si manifesta nella sua nuova sicurezza nei fori internazionali, sebbene mantenga molte volte un profilo basso nelle sue iniziative diplomatiche; si manifesta nell’interesse della potenza asiatica per l’America Latina, per lo sguardo dell’Africa abbandonata che vede nella Cina un esempio da seguire, ed anche per la portata del suo commercio. L’Unione Europea continua ad essere il primo socio commerciale della Cina, con un commercio bilaterale che ha raggiunge la cifra di 157.000 milioni di dollari nei primi nove mesi dell’anno. Seguono gli Stati Uniti, con un scambio commerciale per un valore di 153.000 milioni nello stesso periodo. Il Giappone continua la lista, e il commercio tra Tokyo e Pechino nei nove primi mesi dell’anno passato ha raggiunto i 134.000 milioni. La sicurezza delle forniture petrolifere, la stabilità dei prezzi, le tecnologie rinnovabili, e malattie come l’AIDS e l’influenza, sono le questioni strategiche che secondo Berger impongono una cooperazione tra Pechino e Washington.

Allo stesso tempo, la Cina, benché abbia alcune enormi riserve di valute in dollari, sta incominciando a scorgere la fine dell’egemonia della moneta nordamericana. Alcuni economisti della Riserva Federale statunitense hanno manifestato la loro inquietudine per la possibilità che la Cina abbandoni il dollaro, e le catastrofiche conseguenze che ciò avrebbe per l’economia nordamericana. I cauti movimenti per cambiare una parte delle riserve cinesi in euro ed una paniere di monete asiatiche, giustificano le paure di Washington. Ma anche i due paesi hanno interessi comuni: un rapido deprezzamento del dollaro comporterebbe enormi perdite del valore delle valute in potere di Pechino. E l’Europa, che continua a sopportare il giogo atlantico della NATO, incomincia anche a definirsi in mondo diverso, con timidezza, con cautele, perché l’amico americano è presente. La geoestrategia di Mosca, Pechino, Berlino e Parigi si basa, in parte, su quel mondo cangiante dell’economia. In realtà, Washington ha bisogno di enormi bonifici di capitale e l’acquisto delle sue emissioni di buoni da parte delle economie giapponese, cinese e russa per mantenere il suo barcollante predominio politico, e la Cina lo sa.

7.
I bassi salari sono uno delle attrattive per l’investimento estero in Cina. Atsuko Nakamoto è un giapponese che lavora a Shanghai: la sua compagnia ha installato una fabbrica nella città e mentre gli operai sono cinesi, i quadri dirigenti e intermedi sono giapponesi. Atsuko mi informa sulle dure condizioni di lavoro che hanno gli operai cinesi e i salari che paga la sua compagnia. A dispetto di ciò, molti lavoratori, soprattutto se sono di estrazione contadina, sono contenti. Eppure devono sopportare l’ipocrisia occidentale che approfitta delle differenze salariali tra il loro paese e l’Occidente - che il governo cinese non può cambiare, perché la sua economia riceverebbe un duro colpo - e contemporaneamente denuncia nei suoi paesi i bassi salari cinesi, accusandoli delle sue difficoltà. In Occidente spiegano la conquista di mercati da parte dei prodotti cinesi come conseguenza dei bassi costi salariali. In alcuni casi è certo, ma nonè sempre così: la percentuale attribuita ai salari è molto limitata nella fabbricazione di molti prodotti.


Mentre le imprese dello Stato assicurano i diritti operai, pur sacrificando i risultati economici, le imprese straniere cercano di spremere i lavoratori, creando una situazione per la quale i sindacati cinesi non sono preparati, come riconoscono essi stessi. È ragionevole che ci sia malumore. Molti operai, o contadini emigrati, vedono che hanno passato della condizione di “comproprietari” delle imprese a semplici lavoratori nelle imprese con partecipazione occidentale o giapponese.

Il quotidiano del Paese, organo centrale del Partito Comunista Cinese, riconosceva che in alcuni imprese erano peggiorate le condizioni di lavoro e che le dispute per i salari sono sempre più importanti. I sindacati cinesi devono svolgere un altro ruolo, e lo Stato deve assicurare i diritti della classe operaia.

Tuttavia, le voci che in Europa e Stati Uniti, spesso in modo ipocrita, denunciano che gli operai cinesi soffrono condizioni vicine allo schiavitú e sono senza diritto di sciopero, pretendono, non di migliorare la condizione operaia ma di creare difficoltà ai prodotti cinesi all’estero. Lo si capisce bene notando che molti giornali legati alla borghesia si scoprono un’anima sensibile davanti alle difficoltà operaie in Cina. In realtà, gli scioperi che si fanno in Cina evidenziano la volontà di lotta di operai e sindacati, nonostante una situazione mutevole.

La riforma è nata dall’evidenza del ritardo economico del paese. Non bisogna dimenticare che prima della rivoluzione del 1949, il 75% della popolazione del paese era analfabeta, che la speranza di vita era simile agli inizi della rivoluzione industriale dei principi del secolo XIX in Europa, e che la vita dei cinesi era un inferno governato da politici corrotti e potenze straniere.
Le conquiste rivoluzionarie furono molto importanti, e la Cina passò in poche decadi di fame nera con milioni di morti, alla sicurezza alimentare, seppur modesta. Passò alla proprietà della terra per i contadini, conobbe i medici rurali - seppur scarsamente  preparati -, arrivò all’istruzione popolare. Ma trent’anni dopo la fondazione della Repubblica Popolare, il paese esigeva di iniziare un nuovo impeto, passare dal socialismo della penuria al socialismo dello sviluppo.
Helmut Schmidt, ex cancelliere tedesco, scriveva recentemente come trent’anni fa lo impressionò la povertà della Cina, e come l’ha impressionato il suo rapido sviluppo, tanto che ha riconosciuto: “tra i 400 e i 500 milioni di persone sono usciti dalla povertà.”
Eppure esistono problemi che la stampa cinese raccoglie sempre più apertamente.

La Cina ha oggi riserve per 750.000 milioni di dollari, la maggiore del mondo, è il secondo possessore di buoni del Tesoro nordamericano, fatto che ha spinto alcuni analisti cinesi ad interrogarsi  sulla convenienza di continuare a dare agevolazioni per l’investimento straniero in presenza dell’insoddisfazione in molti centri industriali. Quando il paese si è aperto alle imprese internazionali, pretendeva di captare capitali per spingere lo sviluppo, ottenere tecnologia non esistente nel paese e creare nuovi posti di lavoro. Da tutto ciò si aspettava, come in effetti è successo, che ciò avrebbe permesso l’accesso a nuovi mercati per i prodotti cinesi il cui culmine fu l’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. Questo percorso ha fruttato alcune condizioni contrattuali vantaggiose, per un verso, ma per un altro ha forzato a realizzare riforme non previste e ad aprire il paese ai prodotti stranieri. Quel processo è ancora in corso. Dall’ingresso del paese nella OMC, le importazioni ed esportazioni cinesi sono passate da circa 500.000 milioni a 1.150.000 milioni di dollari nel 2004, cifra che posiziona la Cina al terzo posto nel mondo per il volume commerciale.

Gli investimenti stranieri sono arrivati all’industria, ma anche ai servizi e all’agricoltura, come alla costruzione di infrastrutture. Quattrocento cinquanta delle cinquecento multinazionali più importanti del mondo hanno investito in Cina. Così, circa ventiquattro milioni di lavoratori industriali, il 10% del totale di operai industriali, lavorano in imprese di capitale straniero.
Il governo cinese calcola che, dal principio della riforma, gli investimenti stranieri accumulati sommano un totale di 600.000 milioni di dollari, ma registrando i disinvestimenti e il deprezzamento di alcuni attivi, gli investimenti stranieri diretti raggiungono un importo minore: 213.000 milioni di dollari. Rappresenta meno della decima parte del volume di investimento straniero per capite che ricevono i paesi capitalisti sviluppati. La Cina non si è ipotecata. La ricerca di quegli investimenti è stata conseguenza della necessità che si spostino la tecnologia e le forme di gestione per sviluppare l’industria cinese, anche se alcuni di quegli investimenti hanno causato seri problemi ecologici ed uno sperpero di energia. La Cina, per altro, non si è nemmeno indebitata.

8.
Ci sono dei rischi, senza dubbio: il rilevante ruolo dei nuovi ricchi che urtano con la tradizione ugualitaria del maoismo, i settori politici che opterebbero per un’opzione liberale dallo stesso Partito Comunista e la cui evoluzione è imprevedibile, e la dinamica imposta da alcune multinazionali sono alcuni di questi.
Un ambasciatore spagnolo in Oriente alcune settimane faceva l’ipotesi, a lui conveniente, che fosse lo stesso PCC a cambiare pelle, magari in un congresso, abbandonando il socialismo e la prospettiva di una società comunista. Non è pazzesco: si ricordi l’esempio del Partito Comunista Italiano, o la trasformazione dei partiti operai al potere in Ungheria  e Polonia in strumenti neoliberali dopo l’uragano causato dallo sprofondamento del socialismo europeo. È certo che la Cina si trova in un altro stadio e che la situazione non è paragonabile, ma per i sostenitori del socialismo sarà bene che sprima  di accettare delle proposte facciano le verifiche necessarie.

A dispetto di tutto, il settore socialista dell’economia cinese continua ad essere maggioritario, e i settori strategici, la terra, la grande industria, le comunicazioni, l’industria militare, la ricerca, l’energia ed altri settori, sono saldamente nelle mani dello Stato.

Inoltre, il Partito Comunista Cinese è avanzato dall’epoca maoista in cui le leggi si sottomettevano alle decisioni prese da un ridotto gruppo di dirigenti,  presidente e segretario generale, Hu Jintao, insiste sulla necessità di costruire un’impalcatura di leggi che si adattino alle necessità del paese e all’obiettivo socialista. Hu Jintao ha insistito sull’importanza di rinforzare la condizione marxista del partito. Quell’impegno si è già tradotto in una maggiore trasparenza nel paese, che pubblica e discute in ogni tipo di media e tribune politiche questioni che fino ad alcuni anni fa si nascondevano: i problemi economici causati dalla riforma; gli incidenti, a volte molto gravi che continuano a capitare nell’industria e nel settore minerario; la delinquenza, le differenze tra città e campagna, la corruzione, e perfino la pena di morte, che continuana ad essere vigente.

A Pechino, vedo un numeroso gruppo di gente con cartellette dove si apprezzano i caratteri ideografici cinesi ed il simbolo di falce e martello: sono membri del partito che escono da una riunione. Li seguo con la vista fino a che spariscono nel chiasso di Xuanwu. Il Partito Comunista è presente in tutte le imprese del paese.

L’agricoltura ha ottenuto un grande sviluppo, fino al punto che l’abbondanza di prodotti alimentari ha fatto dimenticare le epoche di scarsità e penuria. Le nuove generazioni non sanno più cosa significa la penuria di cibo. Non possono immaginarlo. La terra continua ad essere di proprietà pubblica, benché la produzione sia nelle mani dei contadini che possono vendere liberamente i loro prodotti in forma privata. La Cina sul piano alimentare è autosufficiente, fatto tuttaltro che marginale, se consideriamo che da sola, la popolazione cinese è quasi la quarta parte dell’umanità.

Bisogna notare il contrasto tra il caos delle riforme di Gorbachev nell’URSS e l’epilogo della costruzione di un capitalismo selvaggio sotto Yeltsin e Putin, con il successo della riforma cinese. Gli occhi del mondo sviluppato sono in Cina. E i paesi dipendenti, quello Terzo Mondo che non riesce ad uscire dalla povertà, la fame e la disuguaglianza estrema, anche quelli guardano alla Cina. Quando il presidente Hu Jintao ha visitato Cuba, nel 2004, è stato insignito da Fidel Castro.
Il presidente cubano, soddisfatto del contributo cinese al superamento della crisi economica nell’isola e della solidarietà mostrata in altri aspetti, dichiarava: “la Cina si è trasformata obiettivamente nella più promettente speranza ed il migliore esempio per tutti i paesi del Terzo Mondo.”


9.
Hong Kong, dopo Chris Patten, la potenza coloniale britannica e il ritorno del territorio alla Cina, ha continuato ad essere un faro finanziario di importanza mondiale che canalizza alcuni dei flussi economici cinesi, e continua ad essere una delle basi dell’attività economica delle aziende occidentali attente alle possibilità di commercio in Cina. La città prospera, mostra la sua brillante facciata di grattacieli davanti alla baia e all’estuario del fiume della Perla, convertito in una delle zone industriali più importanti del mondo. Gli impresari occidentali frequentano l’hotel Penisola e l’Intercontinentale cercando di ottenere da Hong Kong - che conta su di uno status di regione speciale e su di una moneta propria - un trampolino di accesso nell’immenso mercato cinese.

E si lamentano anche: l’ipocrisia occidentale di fronte all’arrivo dei prodotti cinesi, come i tessili, computer, telefoni, televisori, fotocopiatrici, mobili ed altri, si mostra nel suo impegno di reclamare protezionismo nei suoi paesi, proprio mentre predicano le bontà dell’apertura dei mercati e delle frontiere, fatto che nasconde l’importanza della domanda cinese per l’economia occidentale.
Lo scorso settembre, la Southern Airlines e China Aviation impegnavano la compagnia europea Airbus per un totale di 1.800 milioni di dollari. E questo è solo un esempio.


Ma la moda di accusare la Cina di tutti i mali viene da lontano. E’ successo anche con l’aumento del prezzo del grano. Molti analisti accusavano la Cina di creare insicurezza alimentare nel mondo a causa della sua crescente necessità di cereali. È una bugia. La delegazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Agricoltura e l’Alimentazione (FAO) a Pechino, dichiarava la scorsa estate che lo sviluppo agricolo cinese non ha solo ottenuto l’autosufficienza alimentare, ma gli permette anche di esportare.

Ogni giorno, al crepuscolo, i grattacieli di Hong Kong si accendono e spengono al suono di vecchie melodie e nuove canzoni in uno spettacolo seguito da migliaia di persone; il panorama dei giganteschi grattacieli della baia non hanno niente da invidiare al profilo di Manhattan: pretendono di mantenere contemporaneamente l’attrattiva turistica di una città che è uno degli specchi in cui si guarda la Cina.

10.
Il paese mantiene una politica estera pacifica e non crea crisi artificiali, né in Asia, né in altre parti del mondo. Sa perfettamente ciò che è la guerra.
La Cina durante la Seconda Guerra Mondiale patì la carica del fascismo giapponese, e si calcola che la guerra causò circa 35 milioni tra feriti e morti, oltre alle incalcolabili perdite economiche e distruzioni. Basti citare il feroce massacro di Nanchino ad opera dell’invasore giapponese, per capire la dimensione della sofferenza cinese.

Ci sono zone di frizione con gli Stati Uniti. Ma il recente indipendentismo di alcuni forze politiche di Taiwan è solo una politica ordita e fomentata da Washington che cerca di creare difficoltà alla Cina. La stessa cosa succede con la Corea del nord: sono crisi progettate negli Stati Uniti. O nel Tíbet, dove, al margine dell’opportunismo del Dalai Lama che predica pace e felicità mentre cerca di recuperare un potere teocratico che manteneva lo schiavitù, e che ogni tanto viene aizzato da attori di Hollywood o dal Dipartimento di Stato nordamericano. Washington continua a pressare per giocare le sue carte davanti a Pechino. La Cina prosegue il suo avvicinamento all’India, con grandi ripercussioni strategiche, mantiene buone relazioni con Mosca, che sono arrivate fino alla realizzazione di manovre militari congiunte, e cerca di contribuire alla stabilità dell’Asia centrale, mentre acquisisce protagonismo in Europa, in America, in Africa, e a poco a poco, anche nel mondo islamico.

La Cina è cambiata. Offre un’immagine a volte contraddittoria, a volte rutilante a volte confusa; in altre ancora sembra ancora ancorata al mondo contadino del passato. Li Ao, un uomo di 70 anni, che è uno  degli scrittori più celebri di Taiwan, ha visto il cambiamento cinese. In una recente visita alla Cina continentale evocava i suoi ricordi di infanzia a Pechino. In televisione ha parlato di una vivida immagine che ricorda da bambino: un povero contadino che caricava il tradizionale palo sulle spalle. A un estremo portava un cesto con verdure, nell’altro, portava suo figlio. Alla sera, aveva venduto le verdure e anche il bambino, e piangeva. Li Ao ricordò quella scena che di nuovo portava alla memoria l’estrema povertà della Cina prima della rivoluzione. Molte famiglie contadine, per alimentare i loro figli, ne vendevano qualcuno agli abitanti della città. In un modo insolito insolito, e da parte di un cittadino di Taiwan che non era obbligato a fare una dichiarazione simile,  Li Ao ringraziava il Partito Comunista per la grande trasformazione che aveva sperimentato il paese.

Socialismo, con il mercato. Una vita modestamente sistemata. Quelle sono le parole che pronunciano i dirigenti comunisti cinesi. Perché la Cina sa che le forme di vita occidentali non possono estendersi in tutto il mondo: si basano sulla povertà e la disuguaglianza di buona parte del pianeta. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno il petrolio a basso costo sulla pelle della povertà araba. Ma non si possono chiudere gli occhi davanti alla realtà: i problemi sono molti, e stimolanti.
Il prossimo Congresso del Partito Comunista, previsto inizialmente per l’autunno del 2007, dovrà affrontare quella situazione. Il presidente del paese e segretario generale del PCC, Hu Jintao, sembra orientarsi verso la restaurazione degli equilibri sociali e risolvere l’insoddisfazione dei contadini, ma altri dirigenti scommettono sulla crescita economica, lasciando da parte quelle questioni.

Ritorno, di nuovo, a Pechino. Ascolto “l’Oriente è rosso”, inno che cantavano i lavoratori negli anni turbolenti e confusi della rivoluzione culturale. Ancora una passeggiata in piazza Tiananmen.
Saluto Mao, alla porta della città proibita. Quando lascio piazza Tiananmen, faccio un lieve gesto, che vale solo per me, in un piccolo e privato omaggio, non tanto a Mao quanto alla vita di tanti onesti comunisti cinesi: alzo fugacemente il pugno chiuso guardando il grande ritratto del dirigente comunista sulla Città Proibita, facendo bene attenzione che nessuno lo noti. Ma, in quell'istante, vedo una giovane che mi osserva, mi ha visto. Ha sorpreso il mio gesto, e mi sorride.

Il socialismo, il comunismo, non solo non sono morti, e non è nemmno che abbiano ancora qualcosa da dire, è che devono ancora dire tutto.

Traduzione dallo spagnolo di FR