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- popoli resistenti - cina - 01-11-10 - n. 338
da giulemanidallacina.files.wordpress.com/2010/10/dirittilavoro_cina_sisa_corr.pdf
Cina: alla ricerca di nuovi diritti per il lavoro
Documento politico del Dipartimento Internazionale del Sindacato Indipendente Studenti e Apprendisti (SISA)
Solidarietà con il processo di sviluppo della democrazia socialista e di miglioramento dei diritti del lavoro nella Repubblica Popolare Cinese
1 – Introduzione
Dal 1° gennaio 2008 è entrata in vigore nella Repubblica Popolare Cinese una nuova Legge sul Lavoro, che nel corso del 2010 riuscirà a coinvolgere quasi 800 milioni di lavoratori e lavoratrici: un passo decisivo verso lo “sviluppo armonico” del grande paese socialista asiatico, a cui hanno partecipato ampiamente le cellule comuniste, i collettivi operai e i sindacati cinesi, raccogliendo quasi 200'000 proposte di modifica della prima bozza e – dato rilevante – tali emendamenti erano perlopiù orientati verso una impostazione “più di sinistra”. La classe politica di Pechino non ha dimenticato l'insegnamento di Mao Tse-Tung: ”Concentrare le opinioni attinte dalle masse, quindi riportarle in mezzo a loro perché ci si attenga fermamente, così da formarsi opinioni corrette sulla direzione: questo è il fondamentale metodo di direzione”.
Questo documento politico-sindacale intende quindi concentrarsi sui nuovi diritti del lavoro nella Cina odierna: non è dunque questa la sede adatta per proporre un'analisi approfondita delle scelte politiche del paese socialista, ciò nonostante è di fondamentale importanza, per capire il contesto storico di questa riforma, fare un passo indietro nella storia cinese, al fine di meglio capirne le dinamiche e uscendo dallo schematismo manicheo tipico della propaganda anti-cinese e anti-comunista occidentale.
2 – Dalla rivoluzione maoista alle riforme economiche
Anzitutto occorre tenere conto del fatto che la Cina è un paese multietnico enorme e molto diversificato con quasi 1.350.000.000 abitanti, il quale fino al 1949 era di una arretratezza economica e di una povertà spaventose. Non è dunque possibile paragonarla ad un paese occidentale. Conscio di ciò il presidente Mao Tse-Tung nel 1947 diceva: ”Data l'arretratezza economica della Cina, anche dopo la vittoria della rivoluzione, in tutto il paese sarà ancora necessario consentire per un lungo periodo l'esistenza di un settore capitalista dell'economia (...) Questo settore capitalista sarà ancora un elemento indispensabile all'economia nazionale presa nel suo complesso.” Mao Tse-Tung sbagliava però le sue stime sulla durata di questo periodo, e il famoso “Grande Balzo in Avanti” che auspicava, sta avvenendo proprio adesso, all'ora in cui si è deciso di riaprire parzialmente il paese a metodi produttivi tipici del capitalismo e al mercato internazionale. Nulla di contraddittorio rispetto al pensiero marxista: lo stesso Karl Marx teorizzava infatti l'avvento del socialismo solo in paesi a capitalismo avanzato in cui si riscontrasse un forte sviluppo delle forze produttive.
Nel 1952, dato 100 il totale del reddito nazionale, le imprese statali partecipavano per un 19,1%, le imprese pubbliche per lʻ1,5%, le miste per un modesto 0,7%, le industrie capitaliste per il 6,9% e quelle private per ben il 71,8%. Da qua la necessità di una sorta di armistizio con il capitale e l'industria privata, protrattosi fino al 1955, utile per organizzare una prima base economica socialista e tentare di migliorare l'efficienza del sistema produttivo nel suo complesso. Nel 1950, ai tempi di quello che abbiamo chiamato “armistizio con il capitale”, venne creata la Federazione Nazionale dei Sindacati di tutta la Cina (ACFTU), nacquero pure i “comitati lavoro-capitale” trasformatosi presto in “comitati di gestione” delle imprese, composti di rappresentanti della proprietà, della dirigenza dell'industria, e dei lavoratori, mentre i consigli operai, cioè l'insieme dei lavoratori, avevano soltanto una funzione consultiva, senza perciò poter influire direttamente sulla gestione delle imprese. I lavoratori, scontenti, scesero presto nelle piazze e scioperarono chiedendo maggiori diritti nella gestione e incentivi salariali di fronte ad un aumento dei ritmi di lavoro e di produttività. Lo scontro raggiunse un tale livello che si rimosse dalla propria carica il dirigente della ACFTU, accusato di anteporre gli interessi materiali ed economici immediati dei singoli operai alle prospettive del socialismo. In questa prima fase di armistizio con il capitale, i sindacati dovettero quindi fare i conti, come pure dopo il 1978, con la contraddizione tra gli interessi immediati dei lavoratori, e quelli del futuro dello Stato operaio (cioè della nazione socialista) nella sua globalità.
Il quadro di convivenza capitale-lavoro subì una drastica modifica a partire dalla fine del 1955, vista l'accelerazione delle nazionalizzazioni, dando ai lavoratori un ruolo più centrale nella gestione dell'economia nazionale. Fu allora che nelle città presero piede le “unità di lavoro”, chiamate in cinese danwei, e nelle campagne le “comuni popolari”, dal funzionamento simile. Le danwei erano unità chiuse finanziate dal governo centrale, con le funzioni di organizzare e fornire il lavoro all'interno del proprio ambito, di gestire le retribuzioni, di razionalizzare il sistema dei consumi, e di soddisfare le esigenze dei propri lavoratori e delle rispettive famiglie (accesso ai servizi sociali, ai beni di consumo e alla casa). Le danwei erano quindi una sorta di “piccola società” all'interno della società. I salari erano tenuti volutamente bassi ed egualitari, e l'accesso gratuito generalizzato ai servizi (migliori nelle città rispetto alle campagne), era considerato come un “salario aggiunto”. Il surplus così prodotto veniva reinvestito nell'industria pesante e nelle infrastrutture. Questo sistema ha però rischiato il collasso a causa della crisi alimentare nelle campagne durante il “Grande Balzo in Avanti” portando ad un vastissimo movimento migratorio dalle campagne alle città.
Nel 1978 il governo cinese si trovava in una situazione tragica: la povertà dilagava nel paese, gli altri stati socialisti stavano ormai da tempo andando verso un lento collasso, le potenze capitaliste dominavano il mondo e continuavano a svilupparsi con rapidità (alle spalle dei lavoratori), l'industria nazionale non era ancora abbastanza sviluppata ed era quasi esclusivamente centrata su quella pesante, e la popolazione, scontenta, chiedeva a gran voce un cambio. Si decise quindi di rilanciare fortemente l'industria leggera garantendo così maggiori livelli occupazionali e maggiore produttività. Il Partito Comunista Cinese (PCC) tornò sui propri passi e decise di sviluppare una politica simile a quella degli anni '50 ai tempi dell'armistizio con il capitale, senza però abbandonare progressivamente la visione globale socialista come era accaduto in URSS. Venne gradualmente introdotto un sistema salariale basato sul concetto di “distribuzione secondo il lavoro”, con incentivi non indifferenti a chi produceva di più e una sorta di “cottimo” per la parte di produzione eccedente quella fissata, con una forbice di massimo il 20% tra i livelli salariali nella stessa azienda, ponendo così fine al sistema di salari egualitari dell'epoca maoista. L'esperimento risultò però solo in parte positivo, in alcuni casi gli incentivi venivano dati a tutti, in altri in modo casuale, ed in altri ancora ad amici o familiari, non veniva così valorizzata la qualità del lavoro, e i costi di produzione aumentarono ben più della produttività. Era quindi giunto il momento, se si voleva rendere più forte e dinamico il sistema economico nazionale, di approfondire le riforme delle aziende di stato, rendendole più autonome e in grado di ottenere profitti, potenziandone gli elementi di competitività e di concorrenza tanto rispetto al settore pubblico quanto a quello privato, sempre più liberalizzato e in via di consolidamento. Il movimento sindacale era però ancora debole e le condizioni di lavoro, ovviamente, peggiorarono progressivamente, dando vita a sempre maggiori disparità economiche tra i cittadini, anche se il paese cominciava lentamente a rialzare la testa di fronte al mondo.
Nel 1984 cominciò una nuova fase di riforme, la fase dell'”economia pianificata di mercato”, quando lo stato cominciò a limitarsi alla supervisione sulla circolazione della manodopera e la ridistribuzione dei redditi. Tutto il processo di riforme rimaneva comunque “protetto” da una pianificazione statale che consentiva in parte di sfuggire alle normali logiche antisociali dell'economia liberale di mercato grazie a forti interventi regolatori da parte del governo, e a un parziale reinvestimento dei surplus nel sociale e nell'ulteriore sviluppo dell'industria. Un mercato del lavoro che si consolida fortemente e si diversifica, dunque, ma uno Stato che cerca di non arretrare e che pone freni allo sviluppo “anarchico” dell'economia privata per mantenere il suo carattere socialista.
Verso la fine degli anni '80, per la prima volta da quando le riforme hanno avuto inizio, si presenta il problema dell'occupazione e nelle città vi è manodopera in eccesso, questo perché l'incredibile sviluppo dei centri urbani, grazie specialmente alla crescita esponenziale dei settori del tessile e delle costruzioni, spingeva molti contadini che avevano vissuto meno tale sviluppo, a migrare lasciando le campagne. Tra il 1977 e il 1988, 134 milioni di contadini hanno lasciato i campi, e solo il 21% ha trovato un lavoro ben tutelato nelle aziende statali, mentre il rimanente 79% ha mantenuto una condizione di lavoratore temporaneo o stagionale.
Sono stati questi settori meno tutelati della Cina a dar vita al movimento di protesta del 1989 (Tien An Men), che vennero però manipolate e strumentalizzato dalle forze occidentali e dagli opportunisti interni al PCC che volevano liquidare il socialismo e instaurare rapidamente il capitalismo convertendo il paese al neoliberismo scavalcando i sindacati che, finalmente, avevano cominciato a riorganizzarsi e a prendere forza.
L'allora segretario comunista Jiang Zemin nella sua relazione al XIV Congresso del PCC nel 1992 disse: ”Il sistema socialista di economia di mercato che noi vogliamo creare si propone di far giocare al mercato, sotto il controllo macroeconomico dello stato socialista, un ruolo fondamentale nella ripartizione delle risorse, in modo che le attività economiche corrispondano alle esigenze della legge del valore e si adattino alle fluttuazioni dell'offerta e della domanda. (...) Il mercato ha i suoi aspetti positivi e negativi, è quindi necessario rafforzare e perfezionare conseguentemente il macro-controllo che lo stato deve esercitare sull'economia.” Questo avvicinamento a un sistema sempre più pericolosamente simile a quelli occidentali rese ancora più acute le disparità all'interno della popolazione e permise sfruttamenti vari, nonostante la nuova legge sulla rappresentanza sindacale del 1992 e la nuova legislazione sul lavoro nel 1994, e spinse così a un cambio di rotta, più “socialista”, visti i problemi sociali diventati ormai strutturali.
Questo cambio di rotta cominciò con il XVI Congresso del PCC nel 2003 e si consolidò nel 2007 con il XVII Congresso, quando la direzione del partito passò nelle mani di Hu Jintao, l'attuale presidente cinese. Si introdusse il concetto di “sviluppo armonico” della società socialista. Armonia tra sviluppo economico e bisogni/diritti dei lavoratori, armonia tra uomo e uomo, armonia tra natura e industria, armonia tra sviluppo attuale e sviluppo delle future generazioni.
3 – I diritti dei lavoratori in un “socialismo di mercato” più armonico
La Cina, facendo una dura autocritica senza nascondere i problemi attuali e passati del paese, ha così lanciato nuove campagne prendendo posizioni sempre più ecologiste, espellendo dal paese industrie straniere, controllando maggiormente il mercato, limitando le industrie private a favore di quelle statali o miste, sviluppando le regioni dell'ovest, storicamente più povere, nonché introducendo nel 2008 una nuova fondamentale legge sul lavoro, che tutela fortemente i lavoratori. Una legge più progressista di qualsiasi legge sul lavoro in vigore nei paesi occidentali, che proprio ora hanno inasprito le critiche nei confronti della Cina che, purtroppo per loro, non è diventata “un paese capitalista arretrato” nel quale poter investire fortemente sfruttando la popolazione locale in accordo con i poteri forti del paese stesso, come potrebbe essere la Colombia di Uribe, bensì una potenza socialista con ormai troppi diritti per poter delocalizzare facilmente industrie traendone solo forti benefici, e un concorrente internazionale che comincia conquistare i mercati del sud del mondo, che la prediligono perché applica una politica internazionalista e non imperialista, contribuendo, finalmente, ad una vera liberazione delle ex-colonie. Secondo il consulente del lavoro italiano Amedeo Tea, del “Centro Ricerche Documentazione Economica e Finanziaria”, l'innovazione della normativa cinee del lavoro porterà a varie conseguenze per il mercato della Repubblica Popolare, come un incremento del costo del lavoro, l'aumento dei salari, l'aumento del potere sindacale, la perdita dell'autonomia da parte del mangement delle aziende, la diminuzione della flessibilità del sistema produttivo e la riduzione degli investimenti occidentali in Cina”
Questa nuova legge si basa su di un sistema contrattuale che vincola al mutuo rispetto le due parti contendenti. Una legge “per proteggere i legittimi diritti e interessi dei lavoratori, e per costruire e sviluppare rapporti di lavoro armoniosi e duraturi” (art.1), basandosi su “legalità, equità, eguaglianza, libera volontà, mutuo consenso e buona fede” (art.2). La legge riconosce poi il coordinamento delle relazioni di lavoro a tre entità: rappresentanti del governo socialista ai diversi livelli, rappresentanti delle imprese e esponenti dei sindacati. Impedendo così abusi da parte dei manager, grazie al dovere di “istituire un meccanismo di contrattazione collettiva con il datore di lavoro al fine di tutelare i diritti dei lavoratori” (art.6). In tal senso nell'elaborazione della contrattazione collettiva, la bozza finale del contratto deve essere accettata dall'assemblea dei rappresentanti dei dipendenti, o da parte di tutti quanti i salariati - un esempio di democrazia diretta sempre meno presente in Europa. In vari settori fino a qualche anno fa poco tutelati, come quelli dell'edilizia, della ristorazione o dell'estrazione mineraria, si può procedere a contratti di lavoro allargati “settoriali” o “territoriali”, che anche qui devono venire accettati da tutti i lavoratori, amplificando così il fattore democratico (art. 51-56). E ciò quanto, ancora oggi, in Svizzera la contrattazione collettiva di lavoro non è né obbligatoria né tantomeno diffusa a tutti i settori dell'economia nazionale.
I contratti possono ancora essere a tempo indeterminato, determinato, o a progetto. Per i contratti a tempo determinato esiste l'articolo 14 che interviene qui di tutelare i lavoratori più anziani obbligando a rinnovare loro almeno tre volte consecutivamente i contratti a tempo determinato.
“È vietato inserire clausole contrattuali che comportino una responsabilità per danni a carico del lavoratore” cita l'articolo 25. Invece il lavoro straordinario deve essere assolutamente volontario e proporzionalmente retribuito, mentre in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro la legge, oltre a tutelare il diritto degli operai a denunciare delle mancanze, impedisce al datore di lavoro di retrocedere dal contratto nei casi di contrazione di malattie professionali o infortuni; principio che per le lavoratrici si allarga alle fasi di gravidanza, puerperio e allattamento, impedendo così che possano perdere il lavoro a causa di una nascita (art. 32 e 42).
Nel caso di un licenziamento il datore di lavoro deve poi interpellare obbligatoriamente i sindacati e le competenti autorità territoriali, e non può licenziare, se non in casi estremi, i lavoratori con contratto determinato dal termine lungo, lavoratori con contratto a tempo indeterminato e – aspetto sconosciuto nei paesi occidentali – lavoratori che siano la sola fonte di reddito della propria famiglia all'interno della quale ci siano anziani o minori (art. 41).
La legge regola pure gli obblighi delle agenzie di lavoro (simili alla “Adecco” in Svizzera), che non possono stipulare contratti della durata inferiore ai 2 anni, e che devono dare al lavoratore, mentre attende che gli venga assegnato un lavoro, il salario minimo mensile applicato in quella regione (sì, addirittura nella “retrograda” Cina hanno un salario minimo obbligatorio, considerato invece incostituzionale in Ticino nel 2009!).
Per quanto riguarda il lavoro a tempo parziale, la retribuzione viene calcolata principalmente su base oraria, ma il dipendente non può lavorare per la stessa impresa per più di 4 ore giornaliere e 24 settimanali, e naturalmente anche qui è in vigore un salario minimo orario stabilito dal governo socialista (art. 72).
L'ultima parte della legge disciplina le diverse autorità di controllo (amministrative, sanitarie, edilizie) a partire dalla consapevolezza che il successo o l'insuccesso dell'intero percorso si giocherà proprio sul terreno della corretta applicazione della nuova legge.
4 – Conclusione
La nuova legge, che si inserisce in un contesto di rivalorizzazione dell'uomo e del lavoratore come soggetto principale della società socialista, è ovviamente una legge provvisoria e ancora piuttosto moderata rispetto a quella che si potrà pretendere in uno stato socialista sviluppato – cosa che la Cina, a detta dei suoi stessi dirigenti non è ancora – ciononostante fa invidia ai lavoratori occidentali: mentre la Cina stabilizza il lavoro, l'Unione Europa incrementa il livello di flessibilità e di precarietà dei contratti e taglia regolarmente sulle assicurazioni sociali, fomentando inoltre una “guerra fra poveri” aprofittando dell'esercito industriale di riserva composto dai lavoratori immigrati meno tutelati.
La Cina vive in una prima fase di socialismo che sarà caratterizzata ancora a lungo da logiche di mercato (ma non di “libero” mercato), con un'egemonia però delle aziende pubbliche e mantenendo una pianificazione macroeconomica. Una lotta ideologica è in corso al fine di mantenere la rotta socialista del Paese: la legge è dunque una mediazione tra rapida crescita economica (necessaria anche come freno all'imperialismo guerrafondaio degli USA e dei suoi alleati europei), e la tutela dei lavoratori, e dovrà presto subire nuove riforme per rafforzare ulteriormente i diritti partecipativi della popolazione. Intanto, la dirigenza cinese porta avanti una dura lotta contro la corruzione e il lavoro nero, unici possibili antagonisti di questa legge.
Compito di un sindacato di classe come il SISA è quello di sostenere la “linea rossa” che guida la ACFTU e che intende incrementare la democrazia socialista e operaia in Cina, difendendo inoltre la sovranità nazionale, l'unità e l'indipendenza della Repubblica Popolare quando essa è attaccata dall'imperialismo delle potenze capitaliste.
(elaborato da: Amedeo Sartorio – Brione s/M., marzo-agosto 2010)
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