I sindacati della sanità fanno appello al Vaticano
Diritti negati nelle cliniche cattoliche
di Vittorio Longhi
Dopo 150 giorni di sciopero e di proteste per tentare
di aprire un qualsiasi negoziato con la direzione delle cliniche cattoliche di
Seul, i sindacati degli ospedalieri hanno deciso di chiedere direttamente
l’intervento del Vaticano. Un gruppo di delegati è venuto a Roma, nei giorni
scorsi e, con l’appoggio di Cgil, Cisl e Uil, è riuscito ad avere un’udienza
con alcuni membri della Commissione Justitia et Pax. La speranza è che la
Commissione possa in qualche modo intercedere presso la Chiesa del paese
asiatico. “Abbiamo trasmesso tutta la documentazione del caso alla Segreteria
di Stato, e ci auguriamo che il nostro contributo possa servire a trovare una
soluzione” afferma Keshore Jayabalan, rappresentante di Justitia et Pax.
Ottimista e soddisfatto, il vicepresidente della confederazione coreana Kctu,
Shin Sung-Cheol: “Parlare con il Vaticano – spiega – è già un grande risultato.
I funzionari della Commissione hanno mostrato una seria preoccupazione per la
vertenza e per la grave violazione di diritti in Corea”.
Dopo questo primo incontro, i dieci dirigenti della Kctu, del sindacato della
sanità Khmwu e i delegati degli ospedali sono tornati a Seul, dove centinaia di
lavoratori stanno ancora protestando contro le pratiche antisindacali messe in
atto dai prelati che amministrano le cliniche. La protesta va avanti da aprile,
dal momento del rinnovo contrattuale del personale paramedico. I sindacati di
categoria erano riusciti a raggiungere accordi con le direzioni della maggior
parte dei 140 ospedali in cui sono presenti. Solo dove la Chiesa è proprietaria
e diretto gestore, però, le trattative non avevano neppure avuto inizio. I
dipendenti del Saint Mary’s hospital e delle due sedi distaccate, del Mokpo
Catholic e del Puncheon Seongga, avevano chiesto un aumento salariale dell’11
per cento, alcune riduzioni d'orario, una maggiore tutela per il personale
precario e l’adeguamento dei contributi per i dipendenti della clinica
universitaria, pari a quello di tutti gli altri lavoratori della ricerca. Il
management ha cercato di liquidare le domande concedendo un aumento del 2 per
cento e ignorando tutto il resto. A maggio è iniziato lo sciopero. Il mese successivo,
come previsto dal “sistema di arbitrato obbligatorio”, è intervenuta la
Commissione nazionale per le relazioni industriali, imponendo un aumento del
7,4 per cento per il rinnovo del contratto e tralasciando le altre richieste.
La legislazione coreana per i servizi pubblici essenziali, tra cui rientra
quello sanitario, prevede che ogni ulteriore azione di protesta sia da
considerarsi illegale. Gli ospedalieri, però, sono andati avanti lo stesso, e
600 di loro hanno continuato a manifestare, mentre una parte si è impegnata ad
assicurare il servizio. Per tutta risposta la direzione ha sottoposto a
procedimenti disciplinari ben 573 iscritti ai sindacati e ha avviato pratiche
di licenziamento per 20 loro rappresentanti. A settembre la polizia ha fatto irruzione
sia nelle cliniche sia nella cattedrale Myongdong di Seul, dove alcuni
attivisti dimostravano pacificamente.
A metà ottobre la mobilitazione è diventata generale. 5 mila lavoratori della
sanità sono scesi in piazza per manifestare solidarietà ai compagni delle
cliniche cattoliche e per dire basta alla repressione, al sistema di arbitrato
obbligatorio e all’uso della polizia per fermare le proteste. Alle proteste
nelle cinque cliniche si sono aggiunti lunghi e drammatici scioperi della fame.
Per oltre venti giorni, 28 lavoratori non hanno toccato cibo e dopo le prime
due settimane otto infermiere sono state ricoverate d’urgenza.
La Corea del Sud è uno dei paesi più criticati dall’Organizzazione
internazionale del Lavoro e dall’Ocse per il mancato rispetto di alcuni diritti
fondamentali e per le diffuse pratiche antisindacali. Quest’anno i sindacati
degli ospedalieri hanno anche subito pesanti ammende pecuniarie per gli
scioperi e gran parte delle quote sono state congelate dall’autorità giudiziaria,
su denuncia dei direttori sanitari. Nonostante gli appelli ripetuti
all’Arcivescovo di Seul, Nicolau Jeong Jin-Seok, infatti, la Chiesa coreana non
ha mai dimostrato la minima intenzione di riconoscere il diritto alla
contrattazione ai dipendenti dei suoi ospedali. Alcuni vescovi hanno
addirittura deciso di chiudere una delle cinque strutture, per dare un taglio
drastico al problema. “Tutto ciò – afferma Shin Sung-Cheol – dimostra la
particolare arroganza dei prelati coreani, che non si sentono affatto obbligati
a rispettare gli standard minimi delle leggi del lavoro”.
“A differenza di quanto accade nelle cliniche cattoliche italiane – spiega
Carla Coletti, del Dipartimento internazionale della Cgil – in Corea la
gestione da parte delle diocesi è diretta, e il rapporto con i lavoratori viene
inteso come estraneo alle leggi dello Stato. Ogni rivendicazione, perciò, è
vista come una sfida all’autorità religiosa e non come parte di una normale
trattativa”. Per questo, dopo mesi di lotte e proteste inascoltate, i sindacati
sono stati costretti a richiamare l’attenzione dell’autorità religiosa più
alta. I coreani hanno detto di confidare molto nella sensibilità del Vaticano,
ricordando che proprio di rispetto per il lavoro e per l’esercizio dei diritti
Giovanni Paolo II parlò a lungo nell’enciclica del 1981 “Laborem exercens”.
(Rassegna Sindacale, n. 44, 3 dicembre
2002)