da il manifesto - 11 Agosto 2005
Processo da rifare, vittoria negli Usa per 5 agenti di Fidel
Una
corte d'appello americana ordina che sia riaperto il procedimento contro 5
uomini dei servizi cubani condannati a pene pesantissime. Era stato negato loro
ogni diritto alla difesa. Ora i giudici statunitensi riconoscono che a Miami,
roccaforte della destra anti-castrista, il processo era stato una farsa
Gianni Minà
La risoluzione della Corte d'appello federale di Atlanta
(che ha giurisdizione sulla Florida) e che l'altro ieri ha revocato la sentenza
espressa dal tribunale di Miami nella primavera del 2003 contro i cinque
cubani, prigionieri da sette anni, accusati di spionaggio e condannati in primo
grado a pene tombali, è sicuramente un fatto storico e rivela il disagio morale
di una parte sostanziosa della società civile nordamericana. È un disagio che
nasce dalla preoccupazione per la deriva in cui stanno naufragando i diritti
civili nel paese per le leggi, presuntamente «anti-terrorismo», varate dal presidente
Bush dopo l'11 settembre 2001 e ribadite recentemente. Renè Gonzales, Fernando
Gonzales, Gerardo Hernandez, Ramon Labañino e Antonio Guerrero, cinque agenti
dell'inteligence
cubana infiltrati una decina di anni fa negli Stati uniti per individuare e denunciare
le centrali terroristiche che dalla Florida organizzavano attentati nell'isola
(oltre tremila le vittime in trent'anni, tra cui l'italiano Fabio Di Celmo)
sono usciti infatti da un incubo e da una trappola che aveva annientato le loro
vite e ogni loro diritto alla difesa.
E questo anche se la loro odissea non è finita, perché
dovranno affrontare un nuovo processo. I tre giudici della Corte d'appello di
Atlanta che potevano intervenire solo se avessero accertato (come è avvenuto)
errori legali e di diritto commessi nel primo giudizio, hanno voluto
sottolineare il fatto che non si poteva svolgere un processo per spionaggio a
imputati cubani, oltretutto fedeli alla rivoluzione, in una città come Miami
dove c'erano pressioni esplicite della comunità anti-castrista nei riguardi dei
giudici e anche minacce di rappresaglie. Il lavoro di indagine degli imputati
sul terrorismo pianificato in Florida verso Cuba dai vari Luis Posada Carriles,
Orlando Bosh, Rodolfo Frometa, o dai Fratelli del
riscatto di José Basulto, tesi ad atterrare
l'ultima risorsa economica dell'isola, il turismo, aveva scoperchiato infatti
una realtà inquietante per il paese ritenuto leader della democrazia ed aveva
evidenziato responsabilità negli attentati anche ai più alti livelli dell'apparato
dello stato.
Era il mondo che proteggeva, per esempio, i Fratelli del
riscatto, il cui leader Basulto, si vantava di
atti di aggressione verso Cuba e di violare con piccoli aerei Cessna lo spazio
aereo dell'isola lanciando manifestini di propaganda controrivoluzionaria.
Finché un giorno, dopo 23 note diplomatiche di protesta senza risposta, a Cuba,
disgraziatamente avevano deciso di abbattere due di quegli aerei, «come
avrebbero fatto sicuramente negli Stati uniti». Era stato questo contesto a costringere
il presidente Clinton a non insistere sulle sanzioni verso il governo di Fidel
Castro.
Una diplomazia sotterranea allora attiva fra i governi de
l'Avana e di Washington (tramite anche personalità prestigiose come Gabriel
Garcia Marquez) spinse infatti, dopo quell'episodio a intraprendere un'azione
comune contro il terrorismo. E Cuba decise che forse era arrivato il momento di
collaborare con i funzionari più responsabili dell'amministrazione Clinton e di
segnalare al di fuori dei canali ufficiali i risultati ai quali erano giunti i
propri agenti di sicurezza che rinunciando a una vita familiare e
costituendosene una speciale, anche se amara, avevano raccolto le prove
tangibili dell'attività sovversiva di alcune organizzazioni terroristiche attive
dalla Florida contro la rivoluzione.
Il presidente Clinton, attraverso l'Fbi, aveva accettato la
proposta di collaborare per eliminare questi focolai, questi imbarazzanti
centri eversivi, però in seguito la logica politica degli Stati uniti gli aveva
fatto cambiare idea (non a caso la Fondazione nazionale cubana-americana aveva
finanziato, con una cifra pesante, la sua seconda campagna elettorale).
Così il governo di Washington, al momento di agire, invece
di catturare i terroristi aveva autorizzato l'arresto dei cinque cubani che ne
avevano denunciato la presenza e l'attività. I cinque cubani che dopo aver
passato diciassette mesi in cella d'isolamento senza alcuna ragione avevano poi
dovuto aspettare tre anni per un processo surrealista e incorretto, nel quale
furono accusati perfino di essere gli indiretti responsabili dell'abbattimento
dei due aerei Cessna dei Fratelli del
riscatto.
Adesso questi superstiti di una persecuzione inaudita
sperano di poter capire nel nuovo processo in base a quali ragionamenti logici
sono stati considerati colpevoli e quali argomenti sono stati utilizzati per
stabilire le loro pene (alcuni dovrebbero scontare due ergastoli).
Insomma stanno tentando di uscire indenni da una delle
pagine più oscure della giustizia nordamericana. Una storia nella quale
l'avvocato Leonard Weinglass, difensore di Antonio Guerrero - vecchio
combattente per i diritti civili che è stato il difensore dei Cinque di Chicago,
di Mumia e di Angela Davis - afferma perfino siano stati violati il V e VI emendamento
della Costituzione del paese che impone un giudizio rapido e una giuria
imparziale. E denuncia anche offese, privazioni e torture carcerarie agli
imputati ingiustificate e indegne della parola democrazia.
In tutta questa storia il ruolo più avvilente, in questi
anni, lo ha recitato l'informazione che ha praticamente ignorato i fatti. Nel
2003, per esempio, dopo aver aspettato il giudizio per 33 mesi, 17 dei quali in
isolamento e quattro settimane nell'hueco
(il buco, una cella di due metri per due dove la luce è sempre accesa) il
ritorno dei cinque cubani a una cella normale fu possibile solo grazie a una
campagna internazionale alla quale parteciparono molti liberals
nordamericani, più di cento deputati laburisti inglesi e Nadine Gordimer, scrittrice
sudafricana premio Nobel per la letteratura. Non hanno invece mosso un dito i
famosi reporter sans frontier, sempre assenti nelle battaglie per le violazioni
dei diritti umani negli Stati uniti, e nemmeno purtroppo i rappresentanti dei
partiti progressisti italiani.
Una storia imbarazzante, una storia che conferma l'orgoglio
sopito dei mezzi d'informazione dei grandi paesi liberi, come il New York Times
che ha offerto uno spazio a Renè Gonzales, Fernando Gonzales, Gerardo
Hernandez, Ramon Labañino e Antonio Guerrero, solo dopo che un comitato di
solidarietà ha comprato una pagina del giornale per segnalare un caso così
indecente e scabroso.
E in questi giorni l'informazione sull'argomento è stata
ancora una volta ambigua. La Repubblica,
per esempio, ha dato notizia degli sviluppi del caso senza mai citare che i
cinque cubani si erano infiltrati nella società nordamericana per individuare e
neutralizzare le organizzazioni terroristiche che dagli Stati uniti
organizzavano attentati a Cuba. Eppure l'Onu solo un mese fa aveva ribadito che
la sentenza verso i cinque cubani era «arbitraria» ma che conta più l'Onu
nell'era in cui Bush e Blair vogliono conculcare, in nome della guerra al
terrorismo, i diritti civili più elementari?