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ESTONIA: Tra integrazione europea e “apartheid”

a cura di Mauro Gemma

Con un territorio di 45.000 Kmq e una popolazione di solo 1,3 milioni di abitanti (che per oltre il 60% parlano una lingua simile al finlandese), l’Estonia è la più piccola delle repubbliche baltiche ex sovietiche.

Essa ha fatto parte dell’impero zarista fino al 1917, anno in cui venne coinvolta nel processo rivoluzionario che portò alla temporanea presa del potere da parte del movimento comunista. Ma già agli inizi del 1918, l’avanzata tedesca ebbe la meglio sul potere sovietico e, sebbene formalmente all’Estonia fosse garantita l’indipendenza, venne instaurato un regime di occupazione che mirava alla “germanizzazione” del paese e alla restituzione degli antichi privilegi alla nobiltà feudale.
In seguito all’armistizio sovietico-tedesco, il paese venne rioccupato da truppe bolsceviche. Ma, con l’aiuto di contingenti stranieri e russi “bianchi” e della flotta britannica, il governo provvisorio estone, nel febbraio del 1919, riuscì a sgomberare tutto il territorio e a riaffermare l’indipendenza del paese, che durò fino al 1940.

I governi che si succedettero furono tutti caratterizzati da tendenze conservatrici. Nel 1932 fu varata una riforma che trasformava il parlamento in senso “corporativo” e fino al 1938 il paese fu sottoposto ad un regime autoritario. Sul piano internazionale, l’Estonia, dopo aver siglato, insieme a Lituania e Lettonia la cosiddetta “intesa baltica”, nel 1939, stretta tra URSS e Germania, strinse un patto di mutua assistenza con l’Unione Sovietica. Nel giugno del 1940, i sovietici entrarono nel paese. Il 22 luglio dello stesso anno, l’Estonia diventava parte integrante dell’URSS. Dal 1941 al 1944, in seguito all’occupazione nazista, l’Estonia fu teatro di una sanguinosa guerra civile che vide contrapposti i sostenitori della resistenza antifascista  e i soldati dell’ “Armata Rossa” ai nuclei di collaborazionisti, inquadrati direttamente nelle SS, che si resero responsabili, come nelle altre repubbliche baltiche, di massacri e rappresaglie in particolare contro comunisti ed ebrei.

Tali avvenimenti segnarono duramente i primi anni del dopoguerra, dopo la sconfitta del nazismo. Ripreso il controllo, il potere sovietico adottò una politica di dura repressione contro gli esponenti del fascismo estone e quei settori della società che li avevano sostenuti (a cominciare dalla grande proprietà terriera), che fu accompagnata da deportazioni e dall’esodo di molti estoni, sospettati di avere collaborato con i nazisti. Contemporaneamente, attraverso una massiccia immigrazione dalle repubbliche slave dell’URSS, veniva avviato un processo di “russificazione” del paese, che, inevitabilmente doveva alimentare, tra gli estoni, fermenti nazionalistici e un forte risentimento verso Mosca.

Così, quando, con l’avvento della “perestrojka” di Gorbaciov, fu lasciato spazio al pieno manifestarsi delle tendenze nazionaliste, le spinte più radicali verso la riconquista dell’indipendenza ben presto si manifestarono prepotentemente. Nel marzo del 1991, dopo che anche le componenti maggioritarie del partito comunista e della repubblica si erano schierate apertamente per l’opzione secessionista, nel corso del cosiddetto “referendum sull’Unione” il 78% della popolazione si pronunciava a favore dell’indipendenza. La definitiva separazione da Mosca avveniva il 20 agosto 1991, in seguito al fallito golpe che avrebbe aperto la strada allo smantellamento dell’URSS.

Il partito comunista veniva dichiarato fuorilegge e non sarebbe stato più riammesso. L’Estonia indipendente otteneva in breve tempo il riconoscimento della comunità internazionale e della stessa Russia, le cui truppe avrebbero definitivamente lasciato il paese nell’agosto del 1994. Sul piano economico la scelta dell’Estonia si concretizzò nell’abbandono delle forme sovietiche di proprietà, nel ripristino della proprietà privata dei mezzi di produzione e in una politica di liberalizzazione dei prezzi e di progressivo inserimento nei meccanismi di mercato capitalistico.

Nonostante il paese avesse rappresentato una delle più prospere repubbliche dell’ex URSS (e fosse stata protagonista di innovativi tentativi di “riforma economica” già negli anni ’70), la brusca interruzione dei rapporti con il mercato sovietico, tradizionale sbocco delle sue produzioni e da cui l’Estonia dipendeva per gli approvvigionamenti energetici, ha comportato in pratica il collasso del sistema industriale, la costosa scelta di dipendenza economica dall’occidente e pesanti conseguenze sul piano sociale, che si fanno tuttora sentire, e che potrebbero venire addirittura acutizzati dall’avanzare dei processi di integrazione nella costruzione europea.

A farne le spese è stata in particolare la componente russa della popolazione (600.000), che rappresentava parte significativa della classe operaia presente nel paese. I russi e i “russofoni”, che sono venuti a trovarsi improvvisamente nella condizione di “occupanti”, non solo hanno pagato le conseguenze più serie della ristrutturazione economica, ma si sono visti privare di tutti i diritti di cittadinanza, compreso il diritto al lavoro a pari dignità con la popolazione autoctona e persino il diritto di voto.

Tale comportamento dell’Estonia ha suscitato le proteste di numerose organizzazioni per i “diritti umani” e delle stesse autorità russe, ma non sembra avere intaccato il giudizio positivo dell’UE, che sta alla base dell’accettazione di questo paese baltico nel consesso europeo. In tal modo, la pratica assenza di un elettorato russo di una certa consistenza (l’unico partito della minoranza russa presente alle elezioni, il conservatore “Partito Unitario del Popolo Estone”, non supera il 2% dei voti), spiega in parte perché sia le elezioni presidenziali che quelle parlamentari abbiano visto un sostanziale equilibrio tra forze di centro-sinistra e centro-destra etnicamente estoni e sostanzialmente allineate nell’accettazione del nuovo corso economico e nella ricerca di interlocutori internazionali a occidente, nella NATO e nell’Unione Europea.
Tale processo di avvicinamento all’occidente ha avuto il suo completamento nell’adesione dell’Estonia alla NATO (fortemente osteggiata dalla Russia, per la pericolosissima vicinanza delle future installazioni dell’Alleanza Atlantica ai centri nevralgici del paese), formalizzata al vertice NATO di Praga del novembre 2002, e nell’ingresso nell’Unione Europea, ratificato dal referendum svoltosi nel settembre del 2003.

Al termine di un ciclo politico che ha visto alternarsi forze borghesi più o meno moderate, che vede alla presidenza della repubblica il “leader” dell’indipendenza Arnold Ruutel (già segretario del locale Partito Comunista!), solo il 58,2% dei cittadini chiamati al voto ha eletto nel marzo del 2003 un parlamento largamente dominato da partiti centristi e di destra moderata (“Partito di centro estone”, “Res Publica”, “Partito delle riforme estone” e “Unione del popolo estone”).

Da aprile 2003, capo del governo (espresso dalla coalizione tra “Res Publica” e il “Partito delle riforme”), è stato eletto il trentaseienne Juhan Parts, uomo particolarmente legato agli interessi degli Stati Uniti nella regione baltica. L’unico partito che si definisca di sinistra alternativa, operante in Estonia, è il “Partito Social Democratico del Lavoro Estone” (ESDTP), che conta 1.250 iscritti ed è presieduto attualmente da Tiit Toomsalu.  L’ESDTP ha ottenuto solo lo 0,4% dei voti nelle elezioni parlamentari. Il piccolo partito, che si è opposto all’ingresso dell’Estonia nella NATO e nell’UE e che si è battuto per i diritti civili della minoranza russa, ha aderito sia al “Forum della nuova sinistra europea” che al “Partito della Sinistra Europea” costituitosi l’11 gennaio 2004 a Berlino.