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Haiti… verso una nuova occupazione militare

ULPC * (a cura di)

Febbraio 2024

Il 2 ottobre 2023 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato, con tredici voti favorevoli e due astensioni (Russia e Cina), una risoluzione con cui l'ONU dà il via libera all'invio di una forza multinazionale di polizia ad Haiti.

La discussione a New York in merito alla costituzione di un contingente internazionale armato da distaccare nell'isola caraibica era iniziata, dietro le pressioni di USA e Canada - appoggiati, di volta in volta, da altri paesi del continente americano (come Ecuador e Messico) - circa un anno fa ma diversi ostacoli di natura politica ed organizzativa avevano causato il continuo rinvio della decisione finale.

La motivazione che ha spinto il Consiglio di Sicurezza a promuovere questa operazione di polizia internazionale - che però non agirà, paradossalmente, sotto le insegne dell'ONU - è stata quella di ripristinare l'ordine pubblico e la sicurezza nell'isola ma soprattutto nella capitale Port au Prince, dove imperversano bande criminali che hanno assunto di fatto il controllo delle principali vie d'accesso, di interi quartieri, di zone strategiche come il porto ed il terminal petrolifero di Varreux.

Ma prima di entrare nel merito della difficile situazione che sta attualmente attraversando l'isola caraibica, può essere forse utile ripercorrere, sia pure a grandi linee, alcuni passaggi della sua complessa storia.

Dalla colonizzazione spagnola al dominio francese

La "tranquillità" di Haiti ebbe fine nel dicembre del 1492 quando il genovese Cristoforo Colombo, al servizio del Re di Spagna, approdò sulle coste di questa isola che i conquistatori spagnoli "battezzeranno" con il nome di "Hispaniola", cioè "Spagnola".

La popolazione indigena, stimata, secondo fonti dell'epoca, intorno ai due milioni di individui - ma il dato non è certo ed è stato in diversi studi considerato eccessivo - guardò ai nuovi arrivati con curiosità mista a sospetto. Ed in effetti essa conobbe assai presto le violenze e le angherie di ogni genere che questi "strani" uomini portati dal mare cominciarono a perpetrare nei suoi confronti.

Nonostante diverse sollevazioni, represse dagli invasori con inaudita ferocia e con la benedizione dei missionari cattolici giunti al seguito delle milizie spagnole, la popolazione indigena venne completamente sottomessa.

Ridotti ad una condizione di totale schiavitù, costretti a lavorare senza sosta - compresi i bambini - nelle piantagioni e nelle miniere, flagellati dalla diffusione di malattie importate dagli spagnoli e sconosciute al sistema immunitario degli indios, la popolazione locale scese nel 1506 a non più di 60000 sopravvissuti, fino alla sua definitiva estinzione datata intorno al 1540.

La mancanza di "manodopera" - l'afflusso di schiavi africani verso le colonie spagnole dell'area caraibica procedeva a rilento -; la colonizzazione di nuove e ricche terre (Messico e Perù in particolare) che attirarono maggiormente l'attenzione dei conquistadores spagnoli; l'aggressività manifestata sulle coste occidentali di Hispaniola da una pirateria che agiva sotto la protezione della rivale Francia, indussero la Spagna a ritirarsi sempre più verso la zona orientale dell'isola (la futura Repubblica Dominicana). Infine, nel 1697, il paese iberico cedette definitivamente la contesa parte occidentale alla Francia.

L'avvento della Francia quale potenza dominante segnò, relativamente a quella porzione di isola che solo nel 1801 acquisirà la denominazione di "Haiti" ("Montuosa"), un deciso salto di qualità nello sfruttamento coloniale.

I nuovi padroni dell'isola rilanciarono tanto l'attività mineraria quanto e soprattutto la produzione agricola -in particolare le piantagioni di caffè, di zucchero, di tabacco e di altri prodotti alimentari richiesti sui mercati europei- anche attraverso una massiccia "importazione" di schiavi africani che, vivendo e lavorando in condizioni disumane, morivano in gran numero, imponendo la necessità di un continuo ricambio.

Inoltre è con il dominio francese che si afferma nell'isola una più rigorosa stratificazione sociale, basata sull'appartenenza razziale e sul potere economico.

La società "haitiana" venne strutturata, di fatto, sulla base di quattro diversi gruppi:

1) i grandi bianchi ("grand blanc"), che raggruppava i funzionari del governo francese e i grandi proprietari terrieri. Di fatto essi costituivano la ricca borghesia schiavista, la cima della piramide della società coloniale;

2) i piccoli bianchi ("petit blanc"), cioè i bianchi europei non latifondisti ma attivi nel commercio e nell'artigianato. Era questo un gruppo spesso schiacciato tra i soprusi commessi a loro danno dai grandi bianchi e le spinte provenienti dal basso, soprattutto dai mulatti;

3) i mulatti e i neri liberi, quindi i nati da genitori di origini etniche diverse o ex schiavi i cui padroni avevano, per vari motivi, concesso loro la libertà. Si trattava di un gruppo molto conflittuale al proprio interno, sia dal punto di vista della ricchezza di cui molti di loro (soprattutto tanti mulatti) potevano disporre, sia dal punto di vista della maggiore o minore quantità di sangue nero che scorreva nelle loro vene (più chiaro era il colore della loro pelle, maggiore era la possibilità di vivere e di emulare i lussuosi usi e costumi dei dominatori francesi;

4) gli schiavi, decisamente la componente più numerosa nella società coloniale dell'isola caraibica. La proporzione -probabilmente per difetto- con i due gruppi assommati di bianchi era di 20 a 1; l'80% degli schiavi, provenienti da diverse zone dell'Africa, lavorava nelle piantagioni. Proprio l'incontro e la fusione di differenti idiomi africani, portarono alla nascita del creolo haitiano, la lingua ancor oggi parlata, oltre al francese, dalla popolazione di Haiti.

A questi quattro gruppi ne va aggiunto un quinto, i cimarroni, che raggruppava gli schiavi fuggiti dai loro padroni e che trovavano rifugio nelle zone montuose all'interno del paese. Questi schiavi ribelli erano soliti organizzarsi in libere comunità, da dove partivano attacchi armati ai latifondisti bianchi ed alle loro proprietà ed appelli alla ribellione rivolti agli schiavi ancora in catene.

Questa rigida organizzazione sociale entrò infine in crisi a seguito di quanto accadde nella madrepatria alla fine del '700: la Rivoluzione Francese del 1789.

La Rivoluzione francese ad… Haiti

Sebbene le notizie su quanto stesse avvenendo in Francia giungessero inevitabilmente in ritardo nei territori francesi d'oltreoceano, le diverse e convulse fasi della rivoluzione finirono comunque per scardinare in profondità le basi della società razzista e schiavista della colonia.

Il primo a subirne gli effetti fu il gruppo dei grandi bianchi che non solo riprodusse al proprio interno la contrapposizione tra fautori della monarchia e sostenitori delle varie fazioni della borghesia rivoluzionaria, ma si spaccò anche sulla richiesta di indipendenza della colonia dalla Francia. Mentre i grandi latifondisti ed i ricchi commercianti invocavano la secessione, sperando in tal modo di ampliare la rete internazionale delle loro relazioni commerciali - sottraendole al monopolio francese - e di assumere il controllo totale del commercio degli schiavi, i funzionari statali e le gerarchie militari si opponevano alla separazione dalla madrepatria.

Ma, in una sorta di effetto a cascata, le conseguenze degli eventi francesi si manifestarono ben presto in tutti gli altri gruppi sociali: dai piccoli bianchi - che assunsero la denominazione di "patrioti" - ostili sia ai grandi bianchi che ai mulatti e ai neri liberi - che reclamavano entrambi, a loro volta, uguali diritti a quelli dei cittadini francesi - fino agli schiavi neri che, chiedendo invano l'abolizione della schiavitù, infine si ribellano in armi nell'agosto del 1791.

Quindi, mentre la lontana colonia era attraversata da tensioni e violenze sia a sfondo politico che sociale, lo scoppio della guerra in Europa tra la Francia rivoluzionaria e l'Inghilterra complicò ulteriormente la situazione nell'isola caraibica che fu invasa dagli inglesi e, contemporaneamente, dovette fronteggiare il pericoloso ritorno degli spagnoli.

A questo punto si aprì per Haiti una fase particolarmente caotica della sua storia, in cui i vari gruppi - o, spesso, solo segmenti di questi - che avevano caratterizzato la vita politica e sociale haitiana fino a quel momento, si resero protagonisti, anche d'intesa con le varie potenze coloniali in lotta tra loro nel territorio haitiano, di un susseguirsi di spregiudicate alleanze o di fragili accordi (dall'autogoverno dell'isola all'abolizione totale o parziale della schiavitù), sistematicamente violati a favore di nuove "combinazioni" politico-militari o di ambizioni personali di leader locali.

Infine, un esercito haitiano guidato da ufficiali prevalentemente di origine mulatta ma composto anche da soldati neri e da gruppi di bianchi costrinse al ritiro da Haiti gli invasori inglesi e spagnoli ma dovette poi far fronte nel 1802 ad una spedizione militare francese con cui la madrepatria cercò di recuperare il controllo totale della colonia e di ripristinare la schiavitù.

Dopo alterne vicende gli haitiani ebbero finalmente la meglio sui francesi nel dicembre del 1803. Il 1° gennaio 1804 venne proclamata l'indipendenza di Haiti, il primo Stato indipendente dell'America Latina ed il primo Stato governato da politici neri, il generale Jean Jacques Dessalines, ex schiavo nero nelle piantagioni di proprietà dei latifondisti bianchi, divenne il primo presidente della Repubblica haitiana.

La travagliata indipendenza

Nei decenni che seguirono la dichiarazione d'indipendenza, il Paese fu percorso da violente lotte intestine che portarono addirittura, per diversi anni, ad una divisione del territorio haitiano tra un "impero" nel nord ed una repubblica filo-bolivariana nel sud dell'isola.

Ricostituitasi nel 1820 l'integrità territoriale sotto la bandiera della Repubblica, Haiti dovette fare i conti sul piano internazionale con una condizione di blocco diplomatico e commerciale. D'altronde uno Stato costituitosi da una ex colonia, governata da ex schiavi, sostenitore - tramite l'invio di armi, denaro e volontari - delle lotte di liberazione condotte in America Latina da Simòn Bolivar, non poteva non essere inviso a stati schiavisti e coloniali come gli Stati Uniti, la Spagna, il Portogallo, ovviamente la Francia e, in relazione alle proprie convenienze, l'Inghilterra.

La Francia riconobbe l'indipendenza di Haiti - senza peraltro sottoscrivere alcun trattato ufficiale di pace - solo nel 1862 e solo dopo aver imposto all'isola un esoso risarcimento per le piantagioni espropriate o distrutte dagli schiavi nel corso della lotta per l'indipendenza e l'abolizione della schiavitù. Per ottemperare a questo impegno i governi haitiani furono costretti ad indebitarsi pesantemente con diverse banche statunitensi, francesi e, soprattutto, tedesche. (Ancor oggi si ritiene che i problemi di sottosviluppo di Haiti derivino innanzitutto da quel "debito", estinto negli anni a venire ma a prezzo di grandi sacrifici per la popolazione haitiana).

Seguì quindi il riconoscimento ufficiale della Gran Bretagna. Nel 1864 ci fu quello dello Stato della Chiesa che aveva subito anch'esso espropriazioni, distruzioni e perdita di potere nell'isola ribelle. Il riconoscimento degli Stati Uniti avvenne nel 1862, sotto la presidenza Lincoln e nel corso della guerra civile americana, che si concluse con l'abolizione della schiavitù anche in quel paese. Contrastati - talvolta dati e poi ritirati - furono invece i riconoscimenti di altri paesi dell'area latino-americana, molto influenzati nelle loro decisioni dalle pressioni esercitate dalla Chiesa cattolica.

I mancati riconoscimenti internazionali ebbero come immediata conseguenza quella di isolare Haiti sul piano commerciale, privandola dei tradizionali sbocchi di mercato per la sua produzione agricola, in faticosa ripresa dopo le vicende belliche ed il terremoto sociale che avevano sconvolto la vita dell'isola negli ultimi decenni.

Inoltre il ricavato dall'esportazione delle merci - che avveniva più grazie al contrabbando che non a regolari transazioni commerciali - veniva convogliato dalle autorità haitiane, che temevano possibili aggressioni da parte della Francia o di altre potenze coloniali e schiaviste, al rafforzamento militare del Paese.

Alla fine del 1821 una sollevazione antispagnola nella parte orientale di "Hispaniola" consentì al nuovo presidente di Haiti, il nero Boyer, di intervenire vittoriosamente a sostegno degli insorti. L'isola fu quindi riunificata. Ma gli haitiani, comportandosi più da invasori che da liberatori, finirono per ridare fiato al sentimento nazionalista dei domenicani i quali, dopo 22 anni di occupazione militare, riuscirono a cacciare via l'esercito haitiano e a proclamare l'indipendenza della Repubblica Domenicana.

La ventennale presenza haitiana nella zona domenicana consentì il raggiungimento di importanti risultati - tra cui una estesa riforma agraria e la definitiva abolizione della schiavitù - ma concorse anche ad inasprire fortemente i rapporti tra le due diverse popolazioni. Tanto che ancor oggi, a distanza di oltre 180 anni da quegli eventi, le relazioni tra i due paesi confinanti sono segnate da ricorrenti scontri diplomatici e da tensioni anche sul piano militare.

Tra il 1844 ed il 1915 Haiti sprofondò in una situazione di permanente instabilità istituzionale e di dilagante violenza politica. Si succedettero alla guida della Repubblica - salvo una parentesi monarchica nel decennio 1849-1859 - numerosi presidenti - solo tra il 1908 ed il 1915 ben nove - per la gran parte rovesciati, anche a poche settimane dal loro insediamento, da sommosse popolari ma soprattutto da colpi di stato militari.

Ben pochi di questi presidenti si avviarono sulla via di riforme politiche ed economiche che apportassero sensibili miglioramenti alle condizioni di vita dei vari strati della popolazione, preoccupati piuttosto - ma quasi sempre inutilmente - di non inimicarsi l'esercito che si presentava sempre più come il baricentro della vita politica haitiana.

Il neocolonialismo statunitense

Il 1915 costituisce per Haiti un nuovo punto di svolta nella sua storia.

In un contesto, quindi, di continue turbolenze istituzionali e politiche, la struttura sociale del paese caraibico si era intanto riassestata - pur con una rigidità relativamente minore rispetto al passato - intorno a quattro gruppi fondamentali:

1) i bianchi, eredi dei "grand blanc" della società coloniale schiavista. Sopravvissuti - pochi - alle durissime lotte dei decenni precedenti, alcuni di loro detenevano ancora la proprietà di estese piantagioni e mantenevano un forte potere economico;

2) una influente borghesia mulatta - cui si affiancavano gruppi di discendenti di ex neri liberi e di ex schiavi - particolarmente radicata nella capitale Port-au-Prince e nei più importanti centri costieri dell'isola e dedita al commercio ed alle libere professioni (soprattutto legali);

3) una élite nera, proveniente dalle famiglie già schiave, che aveva trovato la sua rivalsa sociale entrando nelle scuole militari e contribuendo alla formazione dei quadri dell'ufficialità dell'esercito haitiano. Questi militari neri esercitavano una forte presa su una buona parte della popolazione di colore che veniva talvolta manipolata e indotta a ribellioni che avevano come obbiettivo la rimozione di un presidente sgradito alle forze armate;

4) la stragrande maggioranza della popolazione nera che, già schiava, si trovava ora in uno stato di formale libertà ma di sostanziale schiavitù salariata. Alcuni gruppi di lavoratori neri, al fine di sfuggire a questa condizione di sfruttamento, cercarono, unendo le forze, di formare autonome comunità contadine, scontrandosi con l'ostilità degli altri gruppi sociali e spesso con la repressione governativa.

In questo quadro politico e sociale si inserirono le politiche neocoloniali di diverse potenze straniere

Indebolitasi la presenza francese, fu innanzitutto la Germania a cercare di prendere il suo posto nell'area caraibica. Approfittando di alcuni incidenti diplomatici, navi da guerra tedesche presero a stazionare già nel 1897 nel porto di Port-au-Prince mentre compagnie commerciali del paese europeo, dopo aver stretto accordi con la locale borghesia mulatta, assunsero di fatto il controllo del traffico marittimo haitiano.

Ciò pose in allarme gli Stati Uniti che, dopo aver subito nel 1891 un rifiuto alla richiesta di concessione di uno scalo marittimo nel paese caraibico, tornarono alla carica, riuscendo nel 1908 alcune compagnie statunitensi ad ottenere l'appalto per la costruzione di ferrovie e, soprattutto, l'ampliamento delle piantagioni di banane attraverso l'espropriazione di terre alle locali comunità contadine (un provvedimento governativo che fu appoggiato anche dai latifondisti haitiani che speravano di trarvi a loro volta dei vantaggi).

Nel 1910 la National City Bank acquisì una quota significativa della Banca centrale di Haiti, fino a quel momento interamente controllata dal Ministero del Tesoro.

Ma il controllo tedesco sull'intermediazione commerciale continuò a rappresentare un grosso limite per i profitti statunitensi almeno fino al 1915, quando, approfittando delle difficoltà della Germania a seguito dello scoppio in Europa del Primo Conflitto Mondiale, gli Usa non esitarono ad invadere Haiti.

Nel giro di poche settimane i marines assunsero il controllo dell'intera isola. Gli Stati Uniti fecero eleggere, da un riluttante Parlamento haitiano, un nuovo presidente a loro gradito, Philippe Dartiguenave, che non esitò a sottoscrivere un trattato con cui l'amministrazione del Paese veniva condivisa con gli occupanti, che potevano anche esercitare un diritto di veto sulle decisioni governative, mentre il 40% circa delle entrate finanziarie dello stato passavano sotto il controllo diretto degli Usa. L'esercito venne sciolto e fu istituita una forza di polizia comandata da ufficiali statunitensi.

Nel 1917 il Presidente Dartiguenave sciolse, "manu militari" statunitense, la Camera haitiana che aveva rifiutato di approvare una Costituzione ispirata da Washington e che comunque venne promulgata l'anno successivo dopo un referendum cui partecipò solo il 5% degli aventi diritto al voto. In essa, tra l'altro, si sanciva la trasformazione delle concessioni di terre date in precedenza ad aziende straniere in loro proprietà a pieno titolo.

Gli atteggiamenti razzistici degli invasori statunitensi, le loro pretese di costruire infrastrutture stradali e portuali ricorrendo al sistema gratuito delle corvée, le loro politiche a favore di una modernizzazione (istruzione pubblica, servizio sanitario, sistema telefonico) che andava, però, esclusivamente a vantaggio degli occupanti e delle locali élite filostatunitensi, esacerbarono il risentimento della popolazione haitiana, tanto che alla fine del 1918 il Paese caraibico sprofondò in uno stato insurrezionale.

Mentre diversi intellettuali, generalmente di origine mulatta e francofoni (tra cui Jacques Roumain, uno dei fondatori nel 1934 del Partito Comunista Haitiano), manifestavano attraverso la letteratura e l'arte la loro opposizione all'arroganza straniera, si costituì nel paese un movimento armato di circa 40000 contadini - i cosiddetti "Cacos" - che arrivò, nell'ottobre del 1919, ad attaccare la capitale Port-au-Prince. Ci vollero due anni prima che i soldati statunitensi riuscissero a sedare la ribellione e la repressione dei marines fu talmente brutale che lo stesso Congresso USA decise di istituire una commissione d'inchiesta che indagasse sulle violenze commesse dai suoi militari.

Il risultato dell'indagine fu l'elezione nel 1922 di un nuovo presidente, Louis Borno, ancora più fedele del precedente agli interessi statunitensi.

Gli Stati Uniti assunsero il controllo totale - mantenuto fino al 1946 - della politica doganale haitiana; parificarono, con gravi conseguenze sulla vita dei ceti più poveri, la moneta locale al dollaro; trasportarono le riserve auree e monetarie del Paese a New York, presso la National City Bank, rifiutandosi poi quest'ultima di pagare i dovuti interessi ad Haiti (con un danno per lo Stato haitiano stimato intorno al milione di dollari). Furono potenziate le forze di polizia e venne ricostituito l'esercito al fine di reprimere eventuali ribellioni popolari.

Ed è ciò che effettivamente accadde nel 1929, quando, a seguito del crollo della Borsa di Wall Street e della contrazione delle esportazioni agricole, il governo fantoccio haitiano impose, al fine di rifarsi dei profitti perduti, nuove e pesanti imposte ai contadini dell'isola, che nel dicembre di quell'anno ripresero le armi.

Nella primavera del 1930 gli Stati Uniti cominciarono a preparare il loro ritiro da una sempre più ostile Haiti, non prima però di aver commesso nuove efferatezze nei confronti della popolazione contadina e di aver insediato alla guida della repubblica caraibica altri presidenti a loro "devoti". Gli USA lasciarono infine Haiti nell'agosto del 1934.

La dittatura dei Duvalier: "Papà Doc" e "Baby Doc"

Con la ritirata statunitense, l'esercito haitiano tornò ad essere protagonista indiscusso della vita politica del Paese. Fino al 1957 vari presidenti si succedettero alla guida dell'isola, regolarmente deposti da golpe militari organizzati dalle diverse e rivali fazioni che si agitavano all'interno delle forze armate. Senza che mai, comunque, fosse messa in dubbio da alcuno la dipendenza politica ed economica del Paese dagli Stati Uniti d'America.

Ma nel settembre del 1957, con l'affermazione alle elezioni presidenziali, sali al potere il medico Francois Duvalier, detto "Papà Doc". Egli poté contare, grazie a promesse demagogiche e credenze popolari, sull'appoggio della maggioranza della popolazione nera.
Papà Doc impose da subito una politica di tipo dittatoriale: sciolse i partiti d'opposizione, epurò gli ufficiali inaffidabili dell'esercito, esautorò - fino a decretarne lo scioglimento - il Parlamento, governò esclusivamente tramite decreti presidenziali.
Il dittatore disponeva di una milizia paramilitare - i Volontari per la Sicurezza Nazionale, tristemente conosciuti come i "Tonton Macoutes" - con la quale seminava il terrore e la morte in tutto il paese e nelle stesse forze armate (solo nel 1967 si contano almeno 2000 esecuzioni capitali, tra cui molte quelle che riguardarono i militari).
Il 1° aprile 1964 Francois Duvalier si proclamò "presidente a vita" della Repubblica di Haiti, godendo del sostegno incondizionato degli USA -ai quali si presentava come l'unico baluardo contro la diffusione del comunismo nell'area caraibica, soprattutto dopo il trionfo della rivoluzione a Cuba - e del ritrovato appoggio della Chiesa cattolica - dopo alcuni anni di raffreddamento nelle loro relazioni a seguito della persecuzione di alcuni rappresentanti del clero haitiano.
Nel febbraio 1971, a poche settimane dalla morte (aprile di quell'anno), Papà Doc organizzò un plebiscito popolare con cui "ottenne" la designazione del figlio, il diciannovenne Jean-Claude Duvalier (poi detto "Baby Doc"), quale suo successore.
Nonostante il dilagare della corruzione, dell'incompetenza, del malcontento della popolazione nera (diversamente dal padre, il giovane Duvalier cercò l'appoggio della componente mulatta della società haitiana) e le nuove tensioni con le gerarchie cattoliche romane, Baby Doc riuscì a governare il Paese per altri 15 anni, fino al gennaio 1986, quando una sollevazione popolare lo costrinse all'esilio in Francia.
La fine della quasi trentennale dittatura della famiglia Duvalier non significò però per il popolo haitiano l'inizio di una storia di libertà, di democrazia, di giustizia sociale.

La parabola di Jean-Bertrand Aristide. L'illusione di un cambiamento

Dopo la fuga di Jean-Claude Duvalier, l'esercito - insieme, questa volta, con i Tonton Macoutes - represse nel sangue le manifestazioni popolari che avevano portato alla caduta di Baby Doc, mentre, tra i vari leader della sollevazione, emerse la figura di un ex prete salesiano ed esponente della Teologia della Liberazione, Jean Bertrand Aristide.

E quando, solo nel dicembre 1990, si poterono tenere nuove e partecipate elezioni presidenziali la vittoria, con il 67% dei voti, arrise proprio ad Aristide, che si presentò promettendo più democrazia ed una maggiore giustizia sociale ed uguaglianza razziale.

Ma le speranze di una rinascita per il popolo haitiano cozzarono, solo nove mesi dopo, con il golpe militare, sostenuto dal presidente USA Bush e dalla Cia, del generale Cedras. Paradossalmente Aristide ed altri suoi sostenitori ripararono proprio negli Stati Uniti, protetti da ambienti del partito democratico ostili all'amministrazione repubblicana. (E ciò mentre l'OSA e l'ONU imponevano al nuovo regime pesanti sanzioni economiche che finirono solo per aggravare le già dure condizioni di vita della popolazione mentre le élite politiche e militari del Paese si sostenevano favorendo il traffico internazionale di droga attraverso i porti haitiani). Sotto la protezione del nuovo presidente degli USA, il democratico Bill Clinton, Aristide fece ritorno ad Haiti nell'ottobre 1994 per essere reintegrato nelle sue funzioni di presidente fino al 1996, quando gli fu negata dalla vigente Costituzione la possibilità di esercitare un secondo mandato presidenziale (e ciò nonostante che potesse contare ancora sull'appoggio di gran parte della popolazione povera haitiana).
In un contesto segnato da una crescente violenza politica e criminale, Aristide, a capo di un nuovo movimento nazional-populista, venne di nuovo rieletto presidente di Haiti nelle elezioni del 2000 (ma, in questa occasione, con un'affluenza complessiva alle urne di appena il 50% degli elettori).
La sua storia politica si interruppe definitivamente nel 2004, quando, abbandonato dagli Stati Uniti e da buona parte dei suoi stessi sostenitori, un nuovo colpo di stato lo costrinse a lasciare la carica presidenziale e ad imboccare la via dell'esilio (questa volta in Sudafrica).
Ma la parabola discendente del "prete dei poveri" era in realtà iniziata quando, nell'autunno del '94, egli aveva rimesso piede nel palazzo presidenziale di Port-au-Prince scortato dai marines statunitensi.
La tutela yankee su Aristide significò per la popolazione haitiana la fine di ogni speranza riformistica e progressista. La "riconoscenza" verso gli USA e la necessità di non perdere gli aiuti finanziari promessi da alcuni istituti internazionali - in primis il FMI - costrinsero Aristide ad accettare molti compromessi: dalla privatizzazione - a vantaggio soprattutto di aziende nordamericane e francesi - di svariate imprese statali alla riorganizzazione della polizia e dell'esercito sotto la supervisione di addestratori statunitensi, fino all'esproprio di altre terre e all'imposizione di nuove imposte a danno delle comunità contadine e delle classi medie; non ultimo il blocco forzato dell'emigrazione haitiana verso la Florida.
Aristide cercò poi di rientrare in patria nel 2011 ma, completamente isolato ed anzi sottoposto ad accuse di malversazione e di altri crimini, riprese la via dell'esilio.

Gli ultimi venti anni di Haiti

Dunque Haiti non è nuova dall'accogliere sul suo territorio una presenza militare straniera.
A seguito del ricordato golpe militare del 1991, l'isola caraibica aveva già "ospitato" tra il 1993 ed il 2001 diversi interventi ONU, aventi come obbiettivo la "stabilizzazione democratica" del Paese e l'addestramento di nuove forze di polizia. Quindi gli haitiani si guadagnarono nuovamente l'attenzione della "Comunità Internazionale" all'indomani della ribellione armata che costrinse nel 2004 il presidente Aristide alla fuga in Sudafrica. A quel punto le Nazioni Unite decisero - soprattutto per volontà degli USA - di colmare il conseguente vuoto di potere inviando una consistente missione, sotto bandiera ONU ed affidata al comando di ufficiali brasiliani, composta da militari provenienti da più di 35 paesi. Questa spedizione (denominata Minustah) rimase nel Paese fino al 2017, attirandosi l'odio di gran parte della popolazione locale a causa dei gravissimi abusi, soprattutto sessuali, commessi nei confronti di minori e di tante giovani donne haitiane.
Poi nel 2010, con il devastante terremoto che sconvolse la parte haitiana dell'isola Hispaniola - circa 300.000 i morti - vi fu una ulteriore spedizione Onu, questa volta sotto comando USA, che agli occhi degli haitiani parve più che un intervento a fini umanitari una vera e propria occupazione militare delle aree strategiche (la capitale, i porti, le miniere di rame, bauxite, nichel, oro ed argento) dello stato caraibico. Inoltre la nuova missione ONU fu ritenuta responsabile dalla già martoriata popolazione haitiana dell'esplosione di una drammatica epidemia di colera che provocò nel tempo la morte di almeno altre 10.000 persone e durante la quale si distinsero per la loro abnegazione i medici inviati da Cuba.

Solo nel 2016, dopoché l'ONU considerò ristabilite le condizioni di legalità necessarie per la ripresa di una vita "democratica" ad Haiti, furono indette nuove elezioni presidenziali, vinte dal giovane imprenditore Jovenel Moise.

Il neo presidente operò scelte sia di politica interna che internazionale caratterizzate da ambiguità ed oscillazioni: dagli appelli a difesa della sovranità nazionale (evocando le lotte anticoloniali ed antischiaviste sostenute dagli haitiani alla fine del '700) al dover fare i conti con le pressioni esercitate dall'"invadente" vicino statunitense (da qui il conseguente raffreddamento nel luglio 2018 delle relazioni diplomatiche e commerciali con il Venezuela bolivariano); da riforme economiche di stampo populista in contrasto con i dettami del FMI ai condizionamenti imposti sul piano economico e sociale dai più forti clan familiari presenti nell'isola.
Una controversa gestione della pandemia da Covid 19 ed un crescente accentramento del potere nelle mani del presidente - a scapito dei già ristretti margini di agibilità politica a disposizione dei gruppi di opposizione - generarono proteste popolari, ripetuti ed inutili rimpasti governativi, tentativi di colpi di Stato.
Jovenel Moise è stato infine assassinato, in circostanze mai perfettamente chiarite, nel luglio 2021, quando un commando di sicari, al soldo, sembra, di trafficanti di droga colombiani, assaltò con successo la residenza presidenziale. Jovenel Moise avrebbe così pagato con la vita - secondo quanto affermato dai suoi seguaci - la sua volontà di colpire le vie del narcotraffico tra la Colombia ed Haiti.

Il Primo Ministro Claude Joseph decretò lo stato d'assedio nell'intero territorio nazionale, assumendo di fatto il controllo dei mezzi di comunicazione ed isolando quindi il Paese dal resto del continente americano e del mondo intero.

Solo pochi giorni dopo lo stesso Joseph venne rimpiazzato alla carica di Primo Ministro da Ariel Henry, considerato uno dei possibili mandanti dell'assassinio di Moise ed un fantoccio dell'amministrazione USA. Ma il fedelissimo di Washington, ancora oggi al potere, si è dimostrato incapace di preservare il Paese dal caos e di garantire il "tranquillo" sfruttamento delle sue ricchezze da parte del potente protettore. Sono le gang criminali - ed alcune in particolare, equiparabili a piccoli eserciti - a dettare legge nel Paese e soprattutto nella capitale Port au Prince.

Le bande criminali

Formate e in molti casi guidate da ex poliziotti ed ex militari, le bande criminali, presenti in tutto il Paese ma soprattutto nella capitale (se ne contano più di 100), hanno assunto oramai il controllo di due terzi dell'isola e di circa l'80% di Port au Prince. Dediti a molteplici attività criminose - dal traffico di droga in combutta con i cartelli colombiani e con i cui proventi le gang si riforniscono di armi, ai sequestri di persona con richiesta di riscatto fino ad assassinii su commissione e a violenze di ogni genere e contro chiunque indistintamente - questi gruppi si sono resi protagonisti di azioni degne di veri e propri piccoli eserciti. La famigerata "G9 an fanmi ak alye" ("G9 nella famiglia e negli alleati"), capeggiata dall'ex poliziotto Jimmy Chérizier (conosciuto come "Barbecue"), blocca militarmente il terminal petrolifero di Varreux, collocato nel porto della capitale haitiana e sito dove viene immagazzinato gran parte del carburante destinato allo svolgimento delle attività quotidiane e produttive nell'isola caraibica. È quindi la "G9" che provvede a far uscire il carburante dal terminal, riversandolo sul "mercato nero" a prezzi stratosferici. Un'altra banda - la "5 Seconds" - ha assaltato nel giugno 2022 il Palazzo di Giustizia di Port au Prince, cacciando i funzionari governativi, saccheggiando e devastando l'edificio, mandando completamente in tilt l'intero apparato giudiziario del Paese.

Nella totale impossibilità per i 14.000 poliziotti - un numero di molto inferiore a quello di coloro che fanno parte della criminalità organizzata in bande - che dovrebbero garantire l'ordine pubblico e la sicurezza ad Haiti, di contrastare lo strapotere di queste organizzazioni, si contano nell'isola caraibica tra il gennaio ed il settembre 2023 almeno 3000 omicidi, quasi 1500 sequestri di persona, circa 200.000 persone costrette ad abbandonare le proprie case per sfuggire alla violenza criminale, un numero elevatissimo di stupri - usati come strumento di punizione e di intimidazione.

Nel Paese considerato come uno dei più pericolosi al mondo per l'incolumità fisica delle persone, non va certamente meglio a giornalisti e reporter. Molti sono coloro che sono stati rapiti, torturati, uccisi, soprattutto quando impegnati ad indagare sui rapporti che legano queste bande criminali a quei gruppi paramilitari - eredi dei Tonton Macoutes - che ricorrono anch'essi a violenze ed efferatezze contro attivisti sindacali e dei diritti umani per conto delle élite politiche ed economiche dominanti nell'isola.

Le condizioni della popolazione haitiana

La parte haitiana dell'isola Hispaniola - divisa ad oriente con la Repubblica Domenicana- è abitata da circa 11 milioni di persone, di cui circa 3 milioni concentrate nell'area metropolitana della capitale Port au Prince - alle cui porte sorge la baraccopoli di Cité Soleil (400.000 abitanti), teatro nel 2007 di una vera e propria guerra, durata diverse settimane, tra le gang criminali da un lato e le forze Onu e di polizia locale dall'altro.

Haiti è oggi uno dei cinque paesi più poveri al mondo, con un'inflazione che si attesta attorno ad un +33% annuo, con una popolazione stremata ed affamata che, dopo la decisione presa - su "consiglio" del FMI - dal governo di Ariel Henry di eliminare i sussidi governativi per l'acquisto di carburanti e di viveri, si è resa protagonista di disordini e saccheggi in varie zone del Paese. E ciò mentre per molte famiglie haitiane l'unica speranza di sopravvivenza quotidiana è quella di sacrificare minori e giovani donne ai potenti racket della prostituzione. Inoltre i sempre più frequenti black out elettrici che causano la paralisi delle attività produttive e commerciali, si sommano alla carenza di benzina - la cui distribuzione è oramai prerogativa dei gruppi criminali che ne controllano lo stoccaggio - determinando il blocco dei trasporti e con esso il collasso della già precaria struttura sanitaria: ambulanze ferme, ritardi nella consegna dei medicinali agli ospedali, mancato ritiro dei rifiuti - tanto che si sta riaffacciando nel paese lo spettro del colera. E se questa è la drammatica condizione in cui versa la popolazione urbana, nelle zone rurali e periferiche dell'isola la situazione appare ancor più grave, venendo meno in particolare una regolare fornitura di acqua potabile che alimenta il rischio di insorgenza di altre malattie epidemiche.

La nuova missione internazionale

È in questo contesto di instabilità politico-istituzionale, di paura ed insicurezza, di tensioni sociali, di estrema povertà, che è maturata la volontà del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di inviare ad Haiti una forza armata multinazionale (la MSS, Multinational Security Support) "affinché gli haitiani possano tornare a fare una vita normale" secondo quanto affermato dal portavoce dell'ONU Farhan Haq.

La risoluzione, sollecitata in particolare - come già detto - dagli USA e dal Canada ("impressionati" dalle violenze subite da alcuni cittadini nordamericani residenti nell'isola caraibica), prevede che dal gennaio 2024 un contingente internazionale composto da reparti speciali di polizia e da altre unità di supporto militare venga impiegato sul territorio haitiano in aiuto alla polizia locale e a protezione di porti, aeroporti, siti produttivi e commerciali, scuole, ospedali e di altri luoghi "sensibili" tenuti sotto scacco dalla violenza delle bande criminali.

La missione, che non agirà sotto bandiera ONU e non conterà nelle sue fila agenti di polizia o militari statunitensi e canadesi, avrà intanto la durata di un anno - con una prima valutazione degli effetti dell'intervento dopo nove mesi. Il comando del contingente sarà affidato ad ufficiali kenyani, dopoché il paese africano -tra non poche titubanze e polemiche - ha accettato tale incarico, promettendo anche di mettere a disposizione ben 1000 uomini delle sue forze speciali di polizia.

Alla presenza del Kenya si è poi aggiunta quella di altri paesi: Bahamas, Giamaica, Antigua, Barbuda e probabilmente il Perù. Ancora da definire nei particolari la partecipazione di Mongolia, Senegal, Belize, Suriname, Guatemala. Anche la Spagna e l'Italia hanno dichiarato il loro interesse a far parte della missione. (L'Italia aveva peraltro già partecipato, tra il 2008 ed il 2010, con 120 uomini dei reparti speciali dei carabinieri, alla missione ONU Minustah). Stati Uniti e Canada "si limiteranno" invece a fornire all'intervento internazionale un apporto logistico e finanziario (con uno stanziamento di 100 milioni di dollari).

Ai partecipanti alla missione saranno assegnati poteri molto ampi. Oltre ad addestrare ed affiancare nelle operazioni di polizia gli agenti haitiani, essi potranno adottare misure di emergenza, procedere a perquisizioni, fermi ed arresti, ricorrere all'uso della forza ogni qualvolta necessaria per ripristinare l'ordine pubblico e "liberare" dalla presenza della criminalità organizzata le zone nevralgiche - come l'area portuale - della capitale Port au Prince.

L'obbiettivo finale, si afferma, è quello di creare le condizioni adatte per uno svolgimento "democratico" delle prossime elezioni che ad Haiti non si tengono dal 2016.

La MSS e le critiche ad Haiti…

Al di là dello scontato plauso alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza da parte del Segretario Generale dell'Onu, il portoghese Antonio Guterres, del direttore generale dell'OMS, del governo haitiano di Ariel Henry e dei suoi "protettori" internazionali (in primis gli USA), la nuova missione MSS ha suscitato forti critiche e perplessità all'interno di Haiti.

Infatti l'intervento di stati stranieri non sembra risultare molto gradito a buona parte degli haitiani. Numerose organizzazioni popolari e circoli di attivisti dei diritti umani, di tutela dei minori, di contrasto alla corruzione, hanno dichiarato la loro intenzione di promuovere un vero e proprio "assedio" delle istituzioni pubbliche haitiane e di diverse ambasciate (in particolare quelle di USA, Canada e Francia) al fine di dimostrare la loro ostilità verso la presenza di forze straniere sul territorio haitiano e di ottenere le dimissioni di Ariel Henry e la formazione di un governo di transizione composto da rappresentati di tutti i partiti e della società civile che traghetti autonomamente il paese verso nuove elezioni.

Diverse poi sono le associazioni umanitarie e le comunità religiose di base - eredi della Teologia della Liberazione - che hanno espresso forti timori in merito all'affidamento della guida della missione al Kenya. Le forze speciali di quel paese, infatti, sono state protagoniste di efferate violenze (stupri, torture, uccisioni a sangue freddo) e di gravi violazioni dei diritti umani in occasione di altre - in particolare nel Corno d'Africa - missioni di "pace" o di interposizione tra paesi belligeranti.

Al fine di placare le proteste l'ONU ha previsto l'applicazione di "misure" atte a prevenire - o a punire con fermezza - eventuali abusi sessuali od altre manifestazioni di "cattiva condotta" da parte dei militari stranieri e a garantire una più facile comunicazione tra gli ufficiali africani che parlano inglese e swahili e gli haitiani di lingua francese e creola. Ma l'adozione di questo "codice comportamentale" non ha comunque abbassato il livello di preoccupazione della popolazione locale.

Ma le reazioni più decise all'ingresso di poliziotti e militari stranieri ad Haiti sono state manifestate proprio dai più influenti capi delle varie gang criminali. Il già ricordato "Barbecue" ha lanciato una vera e propria "chiamata alle armi", promettendo guerra aperta per rovesciare il governo attuale e contrastare in armi la forza multinazionale quando questa metterà piede sull'isola. Sembra in tal modo profilarsi un drammatico scenario di guerra urbana che finirebbe per sprofondare definitivamente nel baratro la già tormentata popolazione haitiana.

e sul piano internazionale

Ha destato sorpresa l'astensione, in sede di Consiglio di Sicurezza ONU, di Russia e Cina, da cui ci si attendeva, se non il ricorso al veto, almeno un voto contrario, considerando che nessuno ha potuto dubitare del preponderante ruolo svolto dagli USA nel sostenere questo intervento internazionale. Probabilmente non si è voluto innalzare da parte dei due paesi il livello di scontro geopolitico in atto da tempo tra i 15 membri del Consiglio (si pensi soltanto alle tensioni generate dal conflitto russo-ucraino o dalla questione di Taiwan, aggravate poi, nei giorni seguenti la votazione, dalle drammatiche vicende mediorientali).

In particolare il rappresentante cinese alle Nazioni Unite, Zhang Jun, non ha esitato ad esprimere critiche molto severe verso la nuova missione multinazionale, inviata a sostegno di un governo - quello di Ariel Henry - giudicato dalla Cina privo di legittimità popolare e complice del traffico di armi che dagli Stati Uniti, con l'appoggio della diaspora haitiana in Florida, sbarcano nell'isola caraibica.

Forti proteste verso la decisione presa dal Presidente del Kenya, William Ruto, di assecondare la proposta USA di guidare questa difficile spedizione oltreoceano si sono avute proprio nel paese africano. Gli oppositori di Ruto e buona parte della stampa kenyana si domandano quali siano le motivazioni per cui il paese - alle prese, tra l'altro, con una grave crisi economica e finanziaria che sta pesantemente aggravando le condizioni di vita della popolazione - si debba imbarcare in una missione giudicata molto impegnativa e rischiosa. Alcuni politici e giudici locali hanno anche denunciato come illegale questa scelta la quale, non avendo avuto ancora alcuna approvazione da parte del Parlamento di Nairobi, pone questioni di incostituzionalità circa il mandato affidato allo stato africano.

Le ragioni di questa presa di posizione della dirigenza kenyana sono da ricercare senz'altro nell'accordo di cooperazione politico-militare sancito ufficialmente il 25 settembre 2023 tra gli Stati Uniti ed il Kenya. Si tratta di un'intesa - della durata, al momento, di cinque anni e dal costo per gli Usa di 100 milioni di dollari - che prevede tra l'altro la dotazione di equipaggiamenti e di armamenti più moderni per l'esercito kenyano e l'addestramento di truppe d'élite da parte di istruttori statunitensi. La giustificazione che sta alla base di questo accordo - al di là della preparazione di cui le forze keniane dovrebbero disporre per dirigere la MSS ad Haiti - risiede nella comune volontà dei due stati di contrastare più efficacemente il pericolo di infiltrazione di cellule terroristiche islamiche nel territorio del paese dell'Africa orientale.

Molti analisti ed esperti di politica internazionale ritengono invece che questa stretta cooperazione sia finalizzata al contenimento di quell'ondata di protesta anti-occidentale che sta attraversando molte nazioni africane. Un forte fremito di ribellione che ha portato all'instaurazione, sia pure spesso attraverso golpe militari, di regimi decisamente ostili soprattutto alla Francia e agli stessi USA e viceversa assai benevoli verso la Russia. È il caso del Mali, del Niger, del Burkina Faso mentre sono al momento falliti tentativi simili in Sierra Leone e nel Gabon ed estese manifestazioni di protesta sono state duramente represse in Senegal.

Quindi il Kenya, legato a doppio filo alla politica imperialista degli USA e strozzato da un debito estero cresciuto a dismisura con la presidenza di William Ruto, è stato "chiamato" a fare nella lontana Haiti il "lavoro sporco" - consistente innanzitutto nel ristabilire il pieno controllo sullo sfruttamento delle risorse alimentari e minerarie dell'isola caraibica - per conto di Stati Uniti e Francia.

e in America Latina?

Nell'area centro-sud americana - quella parte di continente che è considerata dagli USA come il proprio "cortile di casa" - il disegno imperialista che soggiace al nuovo intervento armato ad Haiti è stato apertamente denunciato da Cuba.

Il governo dell'Avana si è schierato contro l'invio di una missione militare nell'isola ed il paventato uso della "forza", sostenendo, al contrario, che Haiti necessita semmai di una assistenza umanitaria e di forme di cooperazione economica incentrate sul rispetto della sovranità dell'isola e della dignità della sua popolazione. Il Ministero degli Esteri cubano ha ricordato come il saccheggio coloniale e neocoloniale - concretatosi ora attraverso una costante sudditanza economica agli USA, ora tramite interventi militari esterni - sia all'origine della povertà, del sottosviluppo, dell'instabilità sociale e della mancanza di sicurezza nella vicina isola caraibica.

In un contesto mondiale caratterizzato dall'esplosione di sanguinosi conflitti, dall'acutizzarsi della tensione su scala internazionale, dal manifestarsi di nuovi focolai di guerra, nel giudizio espresso dal governo cubano circa la decisione di procedere di fatto ad una nuova "occupazione" militare di Haiti, non è sfuggita la considerazione che questa mossa, anche facendo salve le buone intenzioni di una parte dell'ONU di prestare aiuto alla popolazione haitiana, non possa infine tradursi in un tentativo di destabilizzazione dell'area centrale e caraibica del continente americano che avrebbe ovviamente nella Cuba socialista il suo primo e principale obbiettivo.

La valutazione fatta dai cubani non ha trovato però particolare sostegno in altri paesi dell'area. A parte il Nicaragua, la Bolivia, in parte il Venezuela, gran parte degli Stati latino americani hanno concordato con la risoluzione ONU del 2 ottobre ed alcuni in particolare hanno anche offerto - come si è visto - la propria disponibilità a far parte della nuova missione internazionale.

Questa frattura nell'area latino-americana sul giudizio da dare alla missione MSS ha costituito, in certo qual modo, una sorta di premessa per il successivo e diverso posizionamento assunto dai vari stati centro-sud americani rispetto alle drammatiche vicende della guerra israelo-palestinese.

I comunisti haitiani

Purtroppo il movimento comunista haitiano non ha la forza, innanzitutto per la sua esiguità, di organizzare e di mobilitare le masse popolari e proletarie del Paese contro i nuovi propositi imperialisti di occupazione dell'isola.

Il New Haitian Communist Party (NHCP), di tendenza maoista, fondato da poche centinaia di attivisti marxisti-leninisti nel 2000, risente ancora delle conseguenze negative dovute alla dissoluzione del Puch (United Party of Haitian Communists) tra il 1989 ed il 1991, quando la dirigenza del partito, a seguito degli eventi verificatisi nella lontana Europa orientale, decretò la fine dell'esperienza comunista, lo scioglimento dell'organizzazione e la confluenza dei suoi militanti in un più ampio Fronte di Resistenza Nazionale.

Le origini del movimento comunista ad Haiti risalgono al 1934, quando venne costituito da un piccolo gruppo di intellettuali, soprattutto storici e scrittori (tra cui la figura più prestigiosa era senz'altro quella del già ricordato Jacques Roumain), il Partito Comunista Haitiano. Il movimento si distinse da subito per la sua opposizione all'occupazione statunitense, per i suoi richiami al sentimento nazionale haitiano e alle lotte antischiaviste di fine '700, ma anche per la riscoperta dei valori comunitari e solidaristici delle originarie popolazioni indigene. Nonostante i contatti stabilitisi tra il HCP e i "Cacos", l'alleanza tra questi esponenti - spesso anche molto apprezzati fuori dei confini nazionali - della cultura francofona in Haiti ed il movimento contadino ribelle - dove, tra l'altro, era dominante la lingua creola - non ebbe successo.

Nel 1936 il giovane partito comunista venne posto fuorilegge e molti dei suoi dirigenti e militanti furono uccisi, incarcerati o costretti all'esilio.
Da quel momento il movimento comunista haitiano, alle prese con una incessante e spietata repressione governativa - che raggiungerà il suo culmine con la dittatura dei Duvalier - sarà obbligato a riorganizzarsi continuamente, assumendo denominazioni diverse o "mascherandosi" all'interno di più generici fronti nazionali o popolari. (Come Partito Socialista Popolare Haitiano, i comunisti riusciranno addirittura a far eleggere due deputati nelle elezioni politiche del 1946. Ma nel 1949 anche questo partito fu posto al bando).

Anche il movimento comunista haitiano è andato incontro nel corso delle sue vicissitudini ora a fusioni ora a successive scissioni tra le sue componenti.

D'altronde in un paese la cui storia è stata profondamente segnata dall'esperienza coloniale e neocoloniale, dal regime schiavistico e dagli odi razziali, la "natura" che era venuta assumendo nel tempo la società haitiana e, di conseguenza, la strada da percorrere per trasformarla in senso socialista, non potevano non costituire, a seconda dell'analisi che se ne faceva, motivo di discussione e di scontro tra i comunisti dell'isola caraibica.

Affermando il carattere semifeudale e semicoloniale della società haitiana, una parte del locale movimento comunista ha sostenuto negli anni la necessità di una rivoluzione nazionale, democratica, antimperialista, come prima ed inevitabile fase verso la costruzione del socialismo, passando quindi anche attraverso esperienze frontiste con altre forze politiche e sociali non necessariamente riconducibili al marxismo-leninismo.

Altre aree invece, pur ammettendo l'esistenza di consistenti sacche di arretratezza culturale e socio-economica nella popolazione haitiana, hanno evidenziato, oltre alla forte propensione alla lotta manifestata da questo popolo in molti passaggi della sua storia e all'essere sempre stato di fatto inserito nelle dinamiche geopolitiche ed economiche mondiali (ancor più oggi con i processi di "modernizzazione" capitalistica e di globalizzazione economico-finanziaria in atto), il progressivo rafforzarsi di un proletariato industriale (dagli operai delle industrie alimentari ed estrattive ai quadri tecnici delle aziende multinazionali dell'elettronica fino ai portuali) molto combattivo sul piano delle rivendicazioni economiche ma debole dal punto di vista delle prospettive politiche, in quanto privo di adeguati ed autonomi strumenti politico-organizzativi. Da qui la necessità di ricostruire, nonostante le difficoltà, un partito indipendente - estraneo ad ipotesi frontiste - dei lavoratori haitiani, quale loro punto di riferimento nella lotta per l'immediata instaurazione della dittatura del proletariato e per l'edificazione del socialismo.

Concludendo

"È una situazione assolutamente da incubo per la popolazione di Haiti. Nelle circostanze attuali è indispensabile un intervento armato", ha affermato il segretario dell'ONU Guterres; "Il popolo di Haiti non sta vivendo, sta sopravvivendo", ha incalzato Jean Victor Geneus, ministro degli Esteri haitiano; "La decisione dell'ONU è un raggio di speranza per il Paese", ha rilanciato il primo ministro Ariel Henry. E così via con altri commenti (dal segretario di Stato USA Blinken al direttore generale dell'OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus) ispirati a drammaticità e fiducia verso l'azione che potrà dispiegare in terra haitiana la missione internazionale MSS.

Indubbiamente se è vero che la popolazione haitiana nel suo complesso e le sue componenti più deboli in particolare non possono non soffrire pesantemente per il clima di paura e di insicurezza creato nel paese dalle bande criminali, non si può dimenticare che queste stesse gang sono state in origine finanziate dai ricchi imprenditori haitiani per colpire - in appoggio ai già ricordati gruppi paramilitari - chi si opponeva - sindacalisti, attivisti dei diritti umani, avvocati, giornalisti - al loro dominio di classe ed utilizzate dalle élite politiche locali per condizionare le scelte sia di politica interna che internazionale del Paese. Oggi, nel vuoto di potere che si è di fatto aperto dopo l'assassinio di Jovenel Moise, queste organizzazioni criminali agiscono autonomamente, scagliandosi anche contro i loro vecchi padroni.

E in un paese dove l'80% della popolazione vive in uno stato di povertà giudicata "degradante" per la dignità dell'essere umano, mentre l'1% controlla pressoché la totalità della ricchezza nazionale e quasi tutte le attività industriali e minerarie sono in mano a grandi aziende straniere - in primis statunitensi - non ci si può stupire come molti adolescenti ed emarginati trovino l'unica forma di ribellione e di sopravvivenza o "arruolandosi" nei ranghi della criminalità organizzata o cercando di fuggire nella vicina Repubblica Domenicana (che sempre più frequentemente chiude i propri confini, schierando anche l'esercito, all'ingresso degli haitiani).

Oggi la "Comunità Internazionale" sbandiera la causa dei poveri di Haiti - "buco nero del mondo", come l'ha definita l'ambasciatore Usa a Port au Prince - schiacciati in realtà tra la efferatezza delle bande criminali e lo sfruttamento - vera causa della povertà e della violenza - cui è sottoposta la popolazione di quel paese dai padroni interni ed internazionali.

L'intervento armato che si va predisponendo si presenta pertanto sia come un puntello per l'illegittimo governo Henry, in quanto garante del mantenimento della condizione di asservimento dei lavoratori haitiani tanto della campagna quanto delle città, sia la trasformazione dell'isola caraibica in un potenziale avamposto militare al servizio degli interessi geopolitici dell'imperialismo statunitense nella prospettiva di una futura - se necessaria - destabilizzazione dell'area centro-caraibica.

*) A cura della Commissione Internazionale di Unione di Lotta per il Partito Comunista (ULPC)
https://unionedilottaperilpartitocomunista.org - unionedilottaperilpartitocomunista@tutanota.com


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