www.resistenze.org - popoli resistenti - iran - 26-06-09 - n. 280

da Oltre Confine n.29 - Newsletter settimanale del Dipartimento Esteri del PdCI - www.comunisti-italiani.it/index.php?module=News&catid=&topic=15

 
Iran, una crisi innanzitutto da studiare e capire
 
di Maurizio Musolino, resp. Medio Oriente PdCI
 
Le notizie che oramai da più di una settimana arrivano dall’Iran meritano estrema attenzione, anche se mai come in questo caso prima di schierarsi e di prendere “parte” è necessario studiare e capire cosa sta succedendo a Teheran.
 
La semplificazione più volte proposta in questi anni delle piazze che rappresentano con le loro manifestazioni e i loro colori – ieri arancioni oggi verdi – un sinonimo di democrazia in contrapposizione con i governi non aiuta a comprendere e risulta spesso un modello forviante. E’ infatti più che mai accertato come in passato dietro a quei movimenti che hanno messo in discussione elezioni o governi, in Ucraina come in Libano, oltre alle speranze e alle legittime aspettative di conquista di più ampi spazi di libertà si nascondevano disegni preparati a tavolino per destabilizzare le leadership invise ai governi statunitensi.
 
Ma tornando a quanto sta accadendo in questi giorni in Iran non si può non iniziare dal cogliere come dietro gli scontri di piazza e le contestazioni verso un risultato elettorale definito “truccato” ci sia un bel più ampio conflitto, tutto interno alle gerarchie religiose della Repubblica islamica. Per essere chiari: non si tratta assolutamente di una lotta fra potere religioso e desideri di maggiore laicità. O almeno non è questo che interessa ai principali protagonisti politici di entrambi gli schieramenti.
 
Se da un lato, infatti, Ahmadinejad può contare sull’appoggio della Guida suprema della rivoluzione islamica (la più alta carica della repubblica iraniana, una sorta di tutore giuridico della rivoluzione sciita), Ali Khamenei, dall’altro Mussawi ha dalla sua quello dell’ex presidente della repubblica, l’ayatollah Rafsanjani, oggi al vertice del Consiglio del discernimento del sistema, organo religioso a cui spetta la possibilità di nomina e di revoca dell’incarico di guida suprema.
 
I due ayatollah lungi dall’appoggiare una scelta laica rappresentano i vertici di due diverse concezioni del potere religioso nello stato sciita. Il primo promuove una visione assolutistica con un uomo in posizione di dominio totale – lui -, mentre il secondo è alla guida del partito che vorrebbe una gestione collegiale della rappresentazione politica dell’Islam. Dietro Rafsanjani c’è infatti buona parte del nucleo storico del clero sciita del paese.
 
Due rappresentazioni quindi di come gestire politicamente l’Islam, una disputa tutta interna al mondo sciita che ricorda quella che oltre sessanta anni fa ha visto contrapporsi nel mondo islamico con la nascita dell’islam politico, la visione sunnita dei Fratelli musulmani a quella sciita della Da’wa, la prima nata in Egitto e progenitrice fra gli altri di Hamas, mentre la seconda originaria dell’Iraq e madre di quelle forze come il partito Hezbollah in Libano. Un discorso a parte meritano le accuse di corruzione lanciate nei mesi scorsi dal presidente iraniano Ahmadinejad verso Rafsajiani e buona parte del clero sciita. Una scelta che ha fatto notevolmente presa sulle classi sociali più povere e che, non priva di fondamenti, ha messo in allarme quanti si riconoscevano nella leaderships di Rafsajiani.
 
Nessuno può dire come finirà questo conflitto, ma una cosa è però certa: oggi la lotta all’interno del clero sciita iraniano è durissima e tutti hanno la consapevolezza che se non si arriverà ad una tregua non ci saranno prigionieri, e chi risulterà sconfitto difficilmente avrà spazzi per restare anche solo fisicamente nel Paese. Quanto appena detto inoltre deve fare i conti con le caratteristiche stesse del mondo sciita, che al di là delle semplificazioni e delle campagne mediatiche che imperano nel nostro Belpaese, risulta di gran lunga più moderno e dinamico di quello sunnita.
 
Le origini stesse della corrente sciita infatti prendono le mossa da un concetto di interpretazione storica del Corano, un elemento di modernità, in contrapposizione con l’immobilismo sunnita che ha da sempre rappresentato la conservazione. Una dimostrazione arriva anche in questi giorni, guardando il protagonismo delle donne e degli universitari. E’ bene a questo proposito ricordare un altro elemento che si scontra con le semplificazioni: in questi quattro anni di potere da parte di Ahmadinejad è aumentata la presenza femminile nelle università, arrivando a superare quella degli uomini. Con questo – voglio essere chiaro - nessuno vuole sottovalutare i problemi delle donne iraniane, sottoposte ad un regime giuridico che le considera “inferiori” all’uomo e che ne impedisce una piena partecipazione alla vita politica, lavorativa e sociale.
 
L’ennesima contraddizione di un Paese che non finisce mai di sorprendere. Anche sul terreno delle aperture all’occidente e soprattutto ad una concezione meno militarista dello scontro nella regione le informazioni che ci giungono sono spesso relative, quando non del tutto sbagliate. Il partito che vede schierati Rafsajiani e Mussawi è infatti lo stesso che ha guidato per lunghi anni lo stato islamico, dalla rivoluzione khomeinista alla fine della guerra con l’Iraq di Saddam. Questi presupposti rendevano probabile in caso di vittoria di Mussawi una continuità con le politiche militari di questi anni, ad iniziare dallo sviluppo del nucleare.
 
Il nucleare del resto è visto da gran parte della società iraniana come uno straordinario strumento per evitare nuovi drammatici conflitti di area sul modello di quello con l’Iraq. Una guerra quella contro Saddam Hussein, non scordiamocene, che a distanza di anni influisce ancora pesantemente sulla società iraniana: i morti furono milioni, come i feriti, e sono poche le famiglie immuni da quella tragedia. Ma questa considerazione ci porta d un altro elemento. Ovvero come noi in Occidente leggiamo e interpretiamo il pensiero del popolo iraniano.
 
Interessante a questo proposito un articolo pubblicato da Gorge Friedman e riportato dal sito Osservatorioiraq. Friedman sottolinea come fin dai giorni della rivoluzione islamica di Khomeini le informazioni che arrivavano dalla Persia erano falsate e inducevano gli analisti anglofoni ad errori di interpretazione. Il problema sottolinea Friedman è che ieri come oggi, all’interno dell’Iran chi parla inglese, e chi parla agli occidentali, è una parte piccola della società Una elites, importante ma esigua.
 
La maggioranza, le classi più umili, i commercianti, i contadini, non si esprimono se non in persiano e non utilizzano internet. E’ a loro che si è rivolto in questi anni Ahmadinejad ed è grazie al loro appoggio che ha potuto radicare il suo potere. Queste voci, che non sono certo state registrate attraverso i vari sondaggi, possono aver indotto a speranze non confermate dal risultato elettorale.
 
Con questo però non si può assolutamente escludere che ci siano stati brogli, anche clamorosi. Anzi le stesse mezze ammissioni fatte nei giorni scorsi dall’organismo delegato da Khamenei ad un parziale riconteggio ne ha messi in evidenza diversi. Prende così corpo l’ipotesi che una parte dei pasdaran abbia voluto influenzare l’esito del voto al fine di riaffermare un ruolo che negli anni sembrava essere via via messo in discussione. La milizia politico-religiosa, guardiana dei principi e della purezza della rivoluzione ha in questi anni perso parte del proprio peso e secondo molti analisti ha cercato in questo mese di campagna elettorale di trovare appoggi in entrambi gli schieramenti.
 
Ma proprio la messa in discussione del voto è forse il maggiore elemento di instabilità seminato da questi giorni di proteste e manifestazioni di piazza. Fino ad oggi anche agli occhi più critici verso la repubblica islamica, l’Iran era visto come una sorta di regime democratico. Un paese islamico, con un peso a volte oppressivo degli ayatollah, ma anche un paese con una dinamica elettorale che innegabilmente rappresentava un forte elemento democratico. Oggi il non riconoscimento del voto mette in crisi proprio questo pilastro e le ripercussioni credo che siano ancora del tutto nascoste.
 
Infine c’è sicuramente l’elemento delle influenze internazionali. Del resto di quello che sono capaci di fare gli uomini del Pentagono ne abbiamo molteplici testimonianze in questa regione ad iniziare dalla martoriata terra di Palestina. A proposito dell’Iran voglio ricordare come proprio Seymour Hersh, il famoso giornalista statunitense vincitore di diversi premi Pulitzer e protagonista delle principali inchieste contro l’establishment americano degli ultimi anni, da mesi va denunciando come il suo Paese già sotto la guida di Bush avesse deciso di inviare in Iran squadre speciali con il compito di destabilizzarne il potere politico in vista di un possibile attacco militare.
 
In una delle sue ultime inchieste Hersh rivelava come il Pentagono da tempo aveva infiltrato uomini nel territorio iraniano, con il compito di identificare obiettivi militari, ma soprattutto essere pronti in caso di possibili crisi politiche. Uomini “wiped clean” “ripuliti”, le cui identità sono completamente nonamericane e non militari. Una nuova strategia, non ancora vincente dentro la nuova amministrazione Usa, ma che trova fra i suoi sostenitori uno dei principali falchi della vecchia presidenza: il neo-conservatori Paul Wolfowitz. Lo stesso che durante i giorni caldi dell’invasione americana dell’Iraq non aveva nascosto al mondo i suoi contatti con il potente ayatollah Rafsanjani, oggi il principale sostenitore di Mussawi.
 
Queste premesse ci dimostrano l’estrema difficoltà ad essere di “parte” in questo conflitto. Un conflitto che al momento è del tutto indecifrabile per le possibili conseguenze interne e internazionali. L’assioma che i nemici dei miei nemici sono automaticamente miei amici è irricevibile, ma nello stesso tempo l’equazione piazza=democrazia non aiuta a capire ciò che accade e risulta una lettura parziale e logorata. Allora resta la strada dello studio, della volontà di capire, di indagare, senza reticenze, senza pregiudizi. Del resto non era Gramsci che scriveva che “la verità è rivoluzionaria”, anche quando scomoda o imprevista?