www.resistenze.org - popoli resistenti - iraq - 23-12-02

A cura del centro culturale italo-arabo di Torino

Da laico a difensore dell’Islam


LA “CONVERSIONE “ DI SADDAM

Sulla bandiera del paese si staglia la scritta “Allah Akbar”. Da tempo il presidente iracheno ha capito che la religione può aiutarlo ed ha così deciso di ergersi a paladino dell’Islam. Stretti tra sanniti e sciiti, i cristiani sono circa il 3% della popolazione, la maggioranza dei quali cattolici caldei, che…

di Luigia Storti (centro culturale italo-arabo), da Baghdad

In Iraq la religione di stato è l’Islam, ma l’articolo 25 della Costituzione riconosce la libertà di culto per le altre religioni. Per questa ragione, in un paese a netta prevalenza islamica (65% sciiti e 32% sunniti) vengono riconosciute dal governo altre 14 professioni di fede tra cattoliche, ortodosse e protestanti. I cristiani in Iraq rappresentano circa il 3% della popolazione, una stima non certa visto che non esistono dati ufficiali recenti. A questa mancanza di precisione si deve aggiungere il fenomeno dell’emigrazione di molti cristiani (specialmente negli Stati Uniti d’America) il cui numero è sconosciuto.
Il 70%dei cristiani iracheni appartiene alla Chiesa Cattolica Caldea, una chiesa uniate, in piena comunione con Roma cioè, di rito orientale, che ha la massima espressione gerarchica nel Patriarca Raphael Bidaweed I, la cui sede patriarcale è a Baghdad, e che conta circa 100 tra chiese e conventi in tutto il paese, di cui 25 parrocchie nella sola capitale.
Capire le condizioni in cui questa comunità vive non è facile. Certo se si pensa alla situazione dei non musulmani nei  vicini, come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti, ci si deve rallegrare della sua stessa sopravvivenza. L’impressione è che, se ci sono dei problemi, questi non riguardano le persone, ma alcune politiche di governo.
L’Iraq, governato dal 1968 dal partito Baath, si distingueva per essere un paese laico, anche se a maggioranza musulmana, in un’area intensamente permeata dallo spirito dell’Islam; da un po’ di tempo a questa parte però sembra che le cose stiano cambiando.
A Saddam Hussein viene comunemente attribuito il desiderio di diventare un nuovo Nasser, un leader capace di riunire sotto di sé tutto il mondo arabo; e la religione, prima relegata alla sola sfera privata, sembra essere un buon mezzo per raccogliere consensi di quel mondo. Saddam Hussein paladino della lotta per la riconquista della Palestina contro l’invasore ebreo; Saddam Hussein eroe dei popoli che percepiscono gli attacchi e le guerre del mondo occidentale non musulmano non in senso di strategie geo-politiche ed economiche, quanto in senso religioso: il mondo contro l’Islam.
Questo avvicinamento all’Islam, legato alla nuova immagine di capo religioso in un paese musulmano, che Saddam Hussein vuole sia percepita sia all’estero che in patria, ben si confà anche agli iracheni che, come tutti i popoli in disgrazia, trovano l’unico conforto nella religione.
Ecco quindi il comparire sulla bandiera irachena la scritta “Allah Akbar,” (Dio è il più grande) ed ecco che ogni anno, in occasione del compleanno del presidente,  si inaugura una nuova moschea, e contestualmente si posa la prima pietra di un’altra. A Baghdad è in costruzione quella che sarà la moschea più grande del mondo, la Saddam Grand Mosque, il cui progetto prevede otto minareti, di cui quattro alti 280 metri. Nel 2000 è stata terminata la Moschea di Um al-Maarik, dedicata alla “Madre di tutte le Battaglie” come viene chiamata in Iraq la Guerra del Golfo, anch’essa con otto minareti, 4 dei quali hanno la forma di canne di mitragliatrice con il colpo in canna, e quattro di rampe di lancio dei missili Scud che nel 1991 caddero su Israele ed Arabia Saudita: un chiaro messaggio del legame religione-potere-guerra che non passa inosservato.
Dal 1997 (anno del nostro primo viaggio in Iraq) al 2001, il numero delle donne che per le strade di Baghdad indossano il velo che copre il capo è aumentato notevolmente, ed a Mosul, in una delle vie principali è praticamente impossibile trovare una donna per strada dal tramonto in poi. L’avvicinamento alla religione, ultima speranza per chi non ne ha più, è favorita dal governo che con un’accorta politica cerca così di deviare l’attenzione verso un campo che non solo può consolare, quanto può anche amalgamare, nel nome dell’Islam, le aspirazioni delle due grandi componenti religiose del paese: i sanniti, minoritari ma al potere, e gli sciiti maggioritari ma con scarsa rilevanza politica ed economica.

QUEL CALDEO DI TAREQ AZIZ

In una tale situazione come vivono i cristiani? La questione deve essere esaminata da due punti di vista: quello delle fonti di informazioni e successivamente quello dell’analisi di tali informazioni.
Le fonti di informazioni sono due: i cristiani che vivono in Iraq e quelli che lo hanno abbandonato e risiedono all’estero. Le fonti interne parlano di convivenza non problematica nella maggioranza dei casi, e  spesso, toccando l’argomento, viene fatto per esempio notare che il Vice Primo Ministro, Tareq Aziz, è cristiano caldeo.
Per quanto riguarda la vita di tutti i giorni, noi stessi abbiamo assistito ad una cerimonia in una chiesa caldea di Baghdad, dove a suonare l’organo era un musulmano, Mohammad, e le stazioni della Via Crucis della chiesa del’Assunzione a Baghdad sono state scolpite dal musulmano Mohammad Hikmat Ghani, uno dei maggiori scultori iracheni viventi. 
Una situazione idilliaca quindi? Secondo le fonti estere non si direbbe. I cristiani residenti per esempio nella ricchissima zona petrolifera di Kirkuk, così come i curdi, i turkmeni e gli yazidi che la abitano, sarebbero sottoposti alla ricollocazione forzata in altre zone, compiuta dal governo che vorrebbe “arabizzare” un’area di interesse economico e strategico, essendo Kirkuk vicinissima, ma fuori dalla no-fly-zone controllata da americani ed inglesi, e di conseguenza importantissima in vista di un’eventuale invasione di truppe dal nord curdo.
Un altro problema riguarda l’identità dei cristiani che, pur dichiarandosi discendenti degli Assiri, sono costretti a “dimenticare” la loro origine per assumere quella dell’etnia maggioritaria della zona in cui abitano: e le etnie riconosciute in Iraq sono solo quella curda o araba.
Sempre a proposito di identità poi, un recente decreto governativo iracheno stabilisce che non è più possibile dare ai nuovi nati nomi che non siano arabi, iracheni o islamici, con un chiaro richiamo alla religione maggioritaria, malgrado che lo stesso decreto, si legge, “debba essere applicato a tutti gli iracheni, a dispetto dell’appartenenza religiosa.” La giustificazione di questo decreto è porre fine all’abitudine dei cristiani di dare ai figli nomi stranieri e pertanto, se è possibile rifarsi ai nomi biblici, essi devono sempre avere la forma araba: non più Maria o Mary, ma sempre Mariam. E’ solo un nazionalismo un po’ esasperato? I cristiani giudicano questo decreto come un tentativo di “arabizzarli” e per questo, pur adeguandovisi “obtorto collo” nella vita privata Mariam continua ad essere Maria.
Ancora più grave è la conferma, dataci da Monsignor Shlemoun Warduni, Patriarca Vicario dei Caldei, dell’inizio dell’applicazione di un altro decreto riguardante la fede.
Tale decreto impone per i documenti di identità l’unica scelta tra il dichiararsi musulmano o non musulmano. E’ ovvio che a parte la questione di appartenenza religiosa tale decreto si pone come potenzialmente pericoloso dal punto di vista legale. L’Iraq è ancora uno stato fondamentalmente laico, ma se le cose dovessero cambiare, i cristiani, ora non-musulmani, potrebbero non godere più della protezione prevista dal Corano nei confronti delle “Genti del Libro” (come erano definiti gli ebrei ed i cristiani perché depositari del messaggio divino) e ricadere nella categoria dei popoli atei, di essa non meritevole.

IL MINISTERO DEGLI AFFARI RELIGIOSI

Molto delicato è  anche il campo della libertà religiosa. In Iraq esiste il reato di apostasia, la conversione, cioè, di un fedele ad un’altra religione. Un cristiano che decidesse di diventare musulmano però non rischierebbe niente, ed anzi trarrebbe probabilmente dalla sua conversione i vantaggi che di solito appartengono alla maggioranza. Il musulmano che volesse invece diventare cristiano non avrebbe vita tanto facile: sebbene fortunatamente non venga più applicata la pena di morte in questi casi, ciò che lo aspetterebbe sarebbe la “morte civile,” la perdita del lavoro, dei beni, del diritto ereditario ed addirittura della moglie e dei figli da cui sarebbe forzatamente separato. 
Il rischio di conversioni di massa dall’Islam al cattolicesimo, comunque, non sembra essere alto. I cristiani non sono autorizzati a fare proselitismo al di fuori degli edifici di culto e studio ad essi pertinenti, ed anche lo stesso insegnamento della religione cristiana nelle scuole va scomparendo. Sembra infatti che, contestualmente all’obbligo dello studio del Corano in tutte le scuole del paese, compresi gli orfanotrofi cattolici frequentati solo da alunni cattolici, (uno dei provvedimenti presi nell’ambito della “Campagna di Fede” lanciata dal Governo qualche anno fa) le scuole dove si insegna il cristianesimo siano sempre meno. Un decreto del 1972 tuttora in vigore stabilisce che l’insegnamento di tale materia sia obbligatorio in quelle scuole in cui il numero degli alunni cristiani raggiunga la percentuale del 25%.  Secondo quanto riferito dalle fonti estere ed interne, però, sarebbero sempre di più i direttori scolastici che per non far gravare sulla scuola la spesa di un altro insegnante, quello di religione cristiana, appunto, rifiuterebbero l'ammissione di alunni cristiani che porterebbero la percentuale della loro presenza al 25%.
Come è chiaro da questi pochi esempi, quindi, le informazioni  provenienti dall’esterno, seppur da molti riconosciute come “esageratamente allarmistiche” poggiano su una base di verità. Resterebbe da capire come mai questa disparità nel tono della denuncia. Nel caso delle prudenti fonti interne, un’ipotesi potrebbe essere il desiderio di non scontentare il governo e quello, comune a molte minoranze nel mondo, di tenere un basso profilo, fatto di eventuale accettazione della discriminazione a favore della certezza della sopravvivenza. Nel caso delle fonti esterne, (quasi tutte nord americane) i giudizi negativi potrebbero essere dovuti ad una volontà di denuncia sincera, rafforzata dall’essere ormai fisicamente lontani da qualsiasi eventuale conseguenza, o alla complicità, diretta od indiretta, più o meno cosciente, di tali fonti con i governi che da 12 anni a questa parte e, con un nuovo impeto dopo i fatti dell’11 settembre, hanno iniziato e continuato la campagna di demonizzazione dell’Iraq, perfetto capro espiatorio della volontà egemonica di quei governi nell’area mediorientale.
L’Iraq è un paese in cui non è facilissimo avere delle informazioni;  ogni aspetto della religiosità, per esempio, musulmana o cristiana, viene filtrato, esaminato e ricondotto al Ministero degli Affari Religiosi, in totale controllo dei musulmani. Per capire la situazione dei cristiani è raccogliere tutte le informazioni possibili, da tutte le fonti, e cercare di ricostruire un quadro globale. Certo ci augureremmo che la situazione fosse effettivamente quella di pacifica convivenza sbandierata sia dai cristiani che dai musulmani che vivono nel paese.
Se così non fosse le speranze di sopravvivenza della comunità cristiana sarebbero veramente ridotte: spinti all’emigrazione da guerre, condizioni minoritarie, tragica situazione economica, i cristiani potrebbero scegliere di abbandonare quei luoghi in cui, con San Tommaso, la cristianità arrivò ben sei secoli prima dell’Islam.

pubblicato anche da M.C. - Dossier Iraq / Dicembre 2002)