A
cura del centro culturale italo-arabo di Torino
Da laico a difensore dell’Islam
LA “CONVERSIONE “ DI SADDAM
Sulla bandiera del paese si staglia la
scritta “Allah Akbar”. Da tempo il presidente iracheno ha capito che la
religione può aiutarlo ed ha così deciso di ergersi a paladino dell’Islam.
Stretti tra sanniti e sciiti, i cristiani sono circa il 3% della popolazione,
la maggioranza dei quali cattolici caldei, che…
di Luigia Storti (centro culturale
italo-arabo), da Baghdad
In Iraq la religione di stato è l’Islam, ma l’articolo 25 della Costituzione
riconosce la libertà di culto per le altre religioni. Per questa ragione, in un
paese a netta prevalenza islamica (65% sciiti e 32% sunniti) vengono
riconosciute dal governo altre 14 professioni di fede tra cattoliche, ortodosse
e protestanti. I cristiani in Iraq rappresentano circa il 3% della popolazione,
una stima non certa visto che non esistono dati ufficiali recenti. A questa
mancanza di precisione si deve aggiungere il fenomeno dell’emigrazione di molti
cristiani (specialmente negli Stati Uniti d’America) il cui numero è sconosciuto.
Il 70%dei cristiani iracheni appartiene alla Chiesa
Cattolica Caldea, una chiesa uniate, in piena comunione con Roma
cioè, di rito orientale, che ha la massima espressione gerarchica nel Patriarca Raphael Bidaweed I, la cui sede
patriarcale è a Baghdad, e che conta circa 100 tra chiese e conventi in tutto
il paese, di cui 25 parrocchie nella sola capitale.
Capire le condizioni in cui questa comunità vive non è facile. Certo se si
pensa alla situazione dei non musulmani nei
vicini, come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti, ci si deve
rallegrare della sua stessa sopravvivenza. L’impressione è che, se ci sono dei
problemi, questi non riguardano le persone, ma alcune politiche di governo.
L’Iraq, governato dal 1968 dal partito Baath,
si distingueva per essere un paese laico, anche se a maggioranza musulmana, in
un’area intensamente permeata dallo spirito dell’Islam; da un po’ di tempo a
questa parte però sembra che le cose stiano cambiando.
A Saddam Hussein viene comunemente attribuito il desiderio di diventare un
nuovo Nasser, un leader capace di riunire sotto di sé tutto il mondo arabo; e
la religione, prima relegata alla sola sfera privata, sembra essere un buon
mezzo per raccogliere consensi di quel mondo. Saddam Hussein paladino della lotta
per la riconquista della Palestina contro l’invasore ebreo; Saddam Hussein eroe
dei popoli che percepiscono gli attacchi e le guerre del mondo occidentale non
musulmano non in senso di strategie geo-politiche ed economiche, quanto in
senso religioso: il mondo contro l’Islam.
Questo avvicinamento all’Islam, legato alla nuova immagine di capo religioso in
un paese musulmano, che Saddam Hussein vuole sia percepita sia all’estero che
in patria, ben si confà anche agli iracheni che, come tutti i popoli in disgrazia,
trovano l’unico conforto nella religione.
Ecco quindi il comparire sulla bandiera irachena la scritta “Allah Akbar,” (Dio è il più grande) ed
ecco che ogni anno, in occasione del compleanno del presidente, si inaugura una nuova moschea, e contestualmente
si posa la prima pietra di un’altra. A Baghdad è in costruzione quella che sarà
la moschea più grande del mondo, la Saddam
Grand Mosque, il cui progetto prevede otto minareti, di cui quattro alti
280 metri. Nel 2000 è stata terminata la Moschea di Um al-Maarik, dedicata alla
“Madre di tutte le Battaglie” come viene chiamata in Iraq la Guerra del Golfo,
anch’essa con otto minareti, 4 dei quali hanno la forma di canne di
mitragliatrice con il colpo in canna, e quattro di rampe di lancio dei missili Scud che nel 1991 caddero su Israele
ed Arabia Saudita: un chiaro messaggio del legame religione-potere-guerra che
non passa inosservato.
Dal 1997 (anno del nostro primo viaggio in Iraq) al 2001, il numero delle donne
che per le strade di Baghdad indossano il velo che copre il capo è aumentato
notevolmente, ed a Mosul, in una delle vie principali è praticamente
impossibile trovare una donna per strada dal tramonto in poi. L’avvicinamento
alla religione, ultima speranza per chi non ne ha più, è favorita dal governo
che con un’accorta politica cerca così di deviare l’attenzione verso un campo
che non solo può consolare, quanto può anche amalgamare, nel nome dell’Islam,
le aspirazioni delle due grandi componenti religiose del paese: i sanniti,
minoritari ma al potere, e gli sciiti maggioritari ma con scarsa rilevanza
politica ed economica.
QUEL CALDEO DI TAREQ AZIZ
In una tale situazione come vivono i cristiani? La questione deve essere
esaminata da due punti di vista: quello delle fonti di informazioni e successivamente
quello dell’analisi di tali informazioni.
Le fonti di informazioni sono due: i cristiani che vivono in Iraq e quelli che
lo hanno abbandonato e risiedono all’estero. Le fonti interne parlano di
convivenza non problematica nella maggioranza dei casi, e spesso, toccando l’argomento, viene fatto
per esempio notare che il Vice Primo Ministro, Tareq Aziz, è cristiano caldeo.
Per quanto riguarda la vita di tutti i giorni, noi stessi abbiamo assistito ad
una cerimonia in una chiesa caldea di Baghdad, dove a suonare l’organo era un
musulmano, Mohammad, e le stazioni della Via Crucis della chiesa del’Assunzione
a Baghdad sono state scolpite dal musulmano Mohammad Hikmat Ghani, uno dei
maggiori scultori iracheni viventi.
Una situazione idilliaca quindi? Secondo le fonti estere non si direbbe. I
cristiani residenti per esempio nella ricchissima zona petrolifera di Kirkuk,
così come i curdi, i turkmeni e gli yazidi che la abitano, sarebbero sottoposti
alla ricollocazione forzata in altre zone, compiuta dal governo che vorrebbe
“arabizzare” un’area di interesse economico e strategico, essendo Kirkuk
vicinissima, ma fuori dalla no-fly-zone controllata da americani ed inglesi, e
di conseguenza importantissima in vista di un’eventuale invasione di truppe dal
nord curdo.
Un altro problema riguarda l’identità dei cristiani che, pur dichiarandosi
discendenti degli Assiri, sono costretti a “dimenticare” la loro origine per
assumere quella dell’etnia maggioritaria della zona in cui abitano: e le etnie
riconosciute in Iraq sono solo quella curda o araba.
Sempre a proposito di identità poi, un recente decreto governativo iracheno
stabilisce che non è più possibile dare ai nuovi nati nomi che non siano arabi,
iracheni o islamici, con un chiaro richiamo alla religione maggioritaria,
malgrado che lo stesso decreto, si legge, “debba essere applicato a tutti gli
iracheni, a dispetto dell’appartenenza religiosa.” La giustificazione di questo
decreto è porre fine all’abitudine dei cristiani di dare ai figli nomi
stranieri e pertanto, se è possibile rifarsi ai nomi biblici, essi devono
sempre avere la forma araba: non più Maria o Mary, ma sempre Mariam. E’ solo un
nazionalismo un po’ esasperato? I cristiani giudicano questo decreto come un
tentativo di “arabizzarli” e per questo, pur adeguandovisi “obtorto collo”
nella vita privata Mariam continua ad essere Maria.
Ancora più grave è la conferma, dataci da Monsignor Shlemoun Warduni, Patriarca
Vicario dei Caldei, dell’inizio dell’applicazione di un altro decreto
riguardante la fede.
Tale decreto impone per i documenti di identità l’unica scelta tra il
dichiararsi musulmano o non musulmano. E’ ovvio che a parte la questione di
appartenenza religiosa tale decreto si pone come potenzialmente pericoloso dal
punto di vista legale. L’Iraq è ancora uno stato fondamentalmente laico, ma se
le cose dovessero cambiare, i cristiani, ora non-musulmani, potrebbero non
godere più della protezione prevista dal Corano nei confronti delle “Genti del
Libro” (come erano definiti gli ebrei ed i cristiani perché depositari del
messaggio divino) e ricadere nella categoria dei popoli atei, di essa non
meritevole.
IL MINISTERO DEGLI AFFARI RELIGIOSI
Molto delicato è anche il
campo della libertà religiosa. In Iraq esiste il reato di apostasia, la conversione, cioè, di un
fedele ad un’altra religione. Un cristiano che decidesse di diventare musulmano
però non rischierebbe niente, ed anzi trarrebbe probabilmente dalla sua
conversione i vantaggi che di solito appartengono alla maggioranza. Il
musulmano che volesse invece diventare cristiano non avrebbe vita tanto facile:
sebbene fortunatamente non venga più applicata la pena di morte in questi casi,
ciò che lo aspetterebbe sarebbe la “morte civile,” la perdita del lavoro, dei
beni, del diritto ereditario ed addirittura della moglie e dei figli da cui
sarebbe forzatamente separato.
Il rischio di conversioni di massa dall’Islam al cattolicesimo, comunque, non
sembra essere alto. I cristiani non sono autorizzati a fare proselitismo al di
fuori degli edifici di culto e studio ad essi pertinenti, ed anche lo stesso
insegnamento della religione cristiana nelle scuole va scomparendo. Sembra
infatti che, contestualmente all’obbligo dello studio del Corano in tutte le
scuole del paese, compresi gli orfanotrofi cattolici frequentati solo da alunni
cattolici, (uno dei provvedimenti presi nell’ambito della “Campagna di Fede”
lanciata dal Governo qualche anno fa) le scuole dove si insegna il
cristianesimo siano sempre meno. Un decreto del 1972 tuttora in vigore
stabilisce che l’insegnamento di tale materia sia obbligatorio in quelle scuole
in cui il numero degli alunni cristiani raggiunga la percentuale del 25%. Secondo quanto riferito dalle fonti estere
ed interne, però, sarebbero sempre di più i direttori scolastici che per non
far gravare sulla scuola la spesa di un altro insegnante, quello di religione
cristiana, appunto, rifiuterebbero l'ammissione di alunni cristiani che
porterebbero la percentuale della loro presenza al 25%.
Come è chiaro da questi pochi esempi, quindi, le informazioni provenienti dall’esterno, seppur da molti
riconosciute come “esageratamente allarmistiche” poggiano su una base di
verità. Resterebbe da capire come mai questa disparità nel tono della denuncia.
Nel caso delle prudenti fonti interne, un’ipotesi potrebbe essere il desiderio
di non scontentare il governo e quello, comune a molte minoranze nel mondo, di
tenere un basso profilo, fatto di eventuale accettazione della discriminazione
a favore della certezza della sopravvivenza. Nel caso delle fonti esterne,
(quasi tutte nord americane) i giudizi negativi potrebbero essere dovuti ad una
volontà di denuncia sincera, rafforzata dall’essere ormai fisicamente lontani
da qualsiasi eventuale conseguenza, o alla complicità, diretta od indiretta,
più o meno cosciente, di tali fonti con i governi che da 12 anni a questa parte
e, con un nuovo impeto dopo i fatti dell’11 settembre, hanno iniziato e
continuato la campagna di demonizzazione
dell’Iraq, perfetto capro espiatorio della volontà egemonica di quei governi
nell’area mediorientale.
L’Iraq è un paese in cui non è facilissimo avere delle informazioni; ogni aspetto della religiosità, per esempio,
musulmana o cristiana, viene filtrato, esaminato e ricondotto al Ministero degli Affari Religiosi, in totale
controllo dei musulmani. Per capire la situazione dei cristiani è raccogliere
tutte le informazioni possibili, da tutte le fonti, e cercare di ricostruire un
quadro globale. Certo ci augureremmo che la situazione fosse effettivamente
quella di pacifica convivenza sbandierata sia dai cristiani che dai musulmani
che vivono nel paese.
Se così non fosse le speranze di sopravvivenza della comunità cristiana
sarebbero veramente ridotte: spinti all’emigrazione da guerre, condizioni
minoritarie, tragica situazione economica, i cristiani potrebbero scegliere di
abbandonare quei luoghi in cui, con San Tommaso, la cristianità arrivò ben sei
secoli prima dell’Islam.
pubblicato
anche da M.C. - Dossier Iraq / Dicembre 2002)