www.resistenze.org - popoli resistenti - iraq - 03-03-10 - n. 308

da Counterpunch
Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Giorni Violenti in Iraq
 
Campo di battaglia per gli Stati Uniti - Lotta per il Potere in Iran
 
di Nicola Nasser*
 
19-21/02/2010
 
Il 18 febbraio, l'ambasciatore statunitense Christopher Hill ha avvertito che dopo le elezioni irachene, previste il 7 marzo, potrebbero volerci mesi per formare un nuovo governo a Baghdad e che di conseguenza ciò comporterebbe una notevole confusione politica in Iraq; gli avvertimenti di osservatori, esperti e responsabili politici circa lo spettro incombente di una rinnovata guerra settaria nel paese indicano che la sicurezza, la stabilità, per non parlare della democrazia e di un ritiro "vittorioso" delle truppe USA dall'Iraq, sono assai lontane. Un Iraq sicuro, stabile e democratico dovrà attendere la fine della lotta che infuria per il potere sull'Iraq tra Stati Uniti e Iran, all'interno e all'esterno del paese arabo occupato.
 
L'Associated Press ha citato Hill che prevede "giorni difficili, duri e violenti" prima delle votazioni del 7 marzo. Queste considerazioni sollevano seri interrogativi rispetto la dichiarazione del Vice Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che pochi giorni fa ha detto che l'Iraq è il risultato più "importante" dell'Amministrazione Obama. Né Biden, né il Presidente Barak Obama sono in grado di dichiarare che gli Stati Uniti hanno conseguito la vittoria in Iraq. Nel 2007, entrambi caldeggiavano il ritiro delle truppe statunitensi dall'Iraq, ma l'ex presidente George W. Bush optò per un "rincalzo" delle truppe, che ora l'Amministrazione Obama sta ritirando in modo "responsabile". Tuttavia, né il rincalzo, né la riduzione delle truppe hanno prodotto l'obiettivo dichiarato: una democrazia sicura; invece avanza un regime settario filo-iraniano.
 
Nelle prossime elezioni irachene del 7 marzo risultano già coinvolti i due maggiori beneficiari dell'invasione irachena del 2003, statunitensi e iraniani, in una aperta lotta per il potere che nessuna delle due parti si preoccupa più di contenere entro i limiti dei taciti accordi bilaterali in materia di coordinamento della sicurezza, formalizzati in decine di incontri pubblici o privati tra gli ex-ambasciatori degli Stati Uniti a Baghdad, Ryan Crocker e Zalmay Khalilzad, e le controparti iraniane, fino alla fine dell'Amministrazione Bush. Questa lotta aperta per il potere indica anche che la luna di miele del coordinamento della sicurezza in Iraq è finita, o in procinto di chiudersi: un brutto segno per il popolo iracheno.
 
Nonostante il rullio dei tamburi di guerra, il governo di Obama è impegnato in quella politica del "doppio binario" che il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha descritto nella capitale saudita di Riyadh il 15 febbraio: un approccio che contemporaneamente si concentra sulla guerra e sulla diplomazia per costruire un consenso internazionale sulle sanzioni contro l'Iran, sotto l'egida delle Nazioni Unite. Se si aggiunge che Washington sta contenendo un attacco unilaterale di Israele contro l'Iran e rinviando il suo consenso alla richiesta insistente israeliana di una guerra come unica opzione, e il fatto che i militari statunitensi in Iraq sono in grado di affrontare le milizie iraniane e le reti di intelligence in Iraq, ma hanno scelto di non farlo per il momento, abbiamo eloquenti indicatori che Washington è ancora alla ricerca di un accordo con l'Iran riguardo una divisione del potere in Iraq.
 
Tuttavia, Teheran non sarà disposta a rinunciare alla sua influenza anti-americana in Iraq fin tanto che Washington continua la sua strategia attuale di ritorsione nella lotta di potere tra i due paesi all'interno dell'Iraq, spostando lo scontro sul territorio iraniano. Inoltre Teheran sta disperatamente cercando di contrastare la strategia statunitense di costruire un fronte arabo anti-iraniano a cui la Clinton si è riferita a Riyadh dicendo che la sua Amministrazione sta "lavorando attivamente [in tal senso] con i nostri partner regionali e internazionali" e ovunque l'Iran fosse in grado di fare la stessa cosa, dalla Striscia di Gaza palestinese al Libano allo Yemen. Washington sta sfruttando "le azioni sempre più inquietanti e destabilizzanti dell'Iran", secondo Clinton, nella stessa occasione, come un casus belli aggiuntivo per convincere i partner arabi ad unirsi a quel fronte. Gli Stati Uniti e l'Iran stanno trasformando l'intero Medio Oriente con il suo cuore arabo nell'arena di una sanguinosa faida, con l'Iraq come premio finale.
 
L'obbiettivo dell'intero conflitto tra gli Stati Uniti e l'Iran in Medio Oriente è l'Iraq, e non l'Iran. Le questioni israelo-palestinesi vengono strumentalizzate per distrarre l'attenzione e per le manovre propagandistiche di entrambi i protagonisti nella loro guerra psicologica il cui obbiettivo è di vincere i cuori e le menti degli arabi indifesi, i palestinesi in particolare, schiacciati impietosamente sotto la loro macchina da guerra. e con l'unico rifugio nelle tradizioni religiose, mentre i 22 Stati membri della Lega Araba sono stati costretti, spalle al muro, a scegliere tra la padella e la brace.
 
Come c'era d'aspettarsi, quindi, la Clinton non aveva quasi nulla di sostanziale da dire a proposito dell'Iraq durante la conferenza stampa di lunedì tenuta con la sua controparte saudita, il Principe Saud Al Faisal, che però, per esplicite ragioni geopolitiche, non poteva trascurare la questione irachena. "Speriamo che le prossime elezioni realizzeranno le aspirazioni del popolo iracheno a raggiungere la sicurezza, la stabilità e l'integrità territoriale e di consolidare la sua unità nazionale, sulla base dell'uguaglianza tra tutti gli iracheni, indipendentemente dalle loro credenze e differenze settarie, in modo che possano proteggere il loro paese contro qualsiasi intervento straniero nella loro affari", ha detto Al Faisal ai giornalisti.
 
Ma un "intervento straniero", o meglio, un'occupazione paramilitare da parte degli statunitensi e iraniani, è esattamente ciò che renderebbe vane le speranze del Principe Al Faisal. L'articolo di fondo apparso il 20 gennaio sul Washington Post con il titolo, "L'Amministrazione di Obama deve intervenire nella crisi elettorale irachena", era in realtà fuorviante, perché l'intervento degli Stati Uniti nel "sovrano" Iraq non è mai cessato. Militarmente, lo statunitense Tenente colonnello Robert Fruehwald e l'iracheno Generale di stato maggiore Shakir, per esempio, lavorano assieme da nove mesi per preparare le prossime elezioni nel distretto di Kadhimiya di Baghdad; lo stesso vale per ogni distretto, in ogni governatorato dell'Iraq. In base al SOFA (l'Accordo sullo Stato Giuridico delle Forze Armate), le truppe americane dovrebbero rimanere al di fuori dei centri urbani e tutte le operazioni militari dovrebbero essere condotte con l'approvazione del governo iracheno. Invece i "consulenti" militari statunitensi "sono" parte delle forze di sicurezza irachene, e sta a loro selezionare obbiettivi e dirigere le operazioni per farne, ad esempio, bersaglio di massicci bombardamenti aerei.
 
Politicamente, tutti i "segretari" e gli alti funzionari dell'amministrazione che hanno a che fare con l'Iraq hanno suggerito chi "dovrebbe" oppure "deve" essere incluso o escluso dalle elezioni. Ad esempio, l'Ambasciatore statunitense in Iraq, Christopher Hill ha dichiarato che "Nessun baathista dovrebbe mai essere ammesso come candidato". In contraddizione con Hill, Clinton aveva detto in precedenza che "gli Stati Uniti si sarebbero opposti" a qualsiasi esclusione. Il 10 febbraio, il Vice Presidente Joe Biden, intervistato da Larry King per la CNN, era fiero del numero dei suoi interventi in Iraq: "Ci sono stato 17 volte fino ad ora. Ci vado ogni due, tre mesi. Conosco tutti i protagonisti in tutti i segmenti di quella società". Il 4 febbraio, il New York Times, in un articolo di fondo, ha detto che Biden era stato a Baghdad "per esercitare pressioni sul governo" sulla scelta dei candidati alle elezioni; il Presidente iracheno, Jalal Talabani, ha confermato che Biden aveva proposto "di aspettare fino dopo la votazione per squalificare i [candidati]". Il Presidente Obama, che ha recentemente dichiarato che "stiamo responsabilmente lasciando l'Iraq nelle mani del suo popolo", dovrebbe salvaguardare la sua credibilità messa a repentaglio dalle dichiarazioni contraddittorie di chi lavora con lui.
 
Parallelamente, l'Iran si è auto-imposto come arbitro della politica irachena. Il Tehran Times, organo ufficiale del governo, in un articolo di fondo firmato "dalla redazione", ha difeso l'esclusione di alcuni candidati perché sono "in gran parte i resti del regime baathista", appoggiati da "alcuni paesi arabi". Il "contestato" Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in occasione del 31° anniversario della rivoluzione islamica, ha accusato gli Stati Uniti (che secondo Biden stanno ancora pagando "un prezzo tremendo" per aver destituito il partito baathista) di tentare di portare il partito baathista di nuovo al potere. In una conferenza stampa del 14 febbraio, Ahmed Chalabi, il portavoce di Ahmadinejad in Iraq (beniamino dei neo-conservatori statunitensi dell'Amministrazione Bush, che citavano le sue relazioni per stabilire il casus belli dell'invasione dell'Iraq e che si rivelò poi un doppio agente per l'Iran e ora sta cercando di mettere al bando i politici iracheni più contrari alla crescente influenza iraniana in Iraq, per promuoversi come prossimo leader alla guida del suo Paese) "ha condannato l'intervento degli Stati Uniti negli affari iracheni", citando Biden e Hill come esempi di tali interferenze.
 
Il "prezzo tremendo" dell'invasione irachena, al quale Biden si riferiva nel suo intervento al programma televisivo "Meet the Press" il 15 febbraio, è ancora da pagare. Chalabi non rappresenta una voce isolata filoiraniana in Iraq che osa sfidare la strategia degli Stati Uniti. Il Primo Ministro Noori Al Maliki ha dichiarato, "Non permetteremo che l'ambasciatore americano Christopher Hill possa esorbitare dalla sua missione diplomatica", mentre i suoi collaboratori sono arrivati a chiedere l'espulsione di Hill. Questi politici di professione potrebbero contare su risorse per sfidare gli Stati Uniti, su soldati che li proteggono, su danari di chissà quali contribuenti che li finanziano, se non vantassero credenziali iraniane?
 
"Nonostante la presenza di oltre 100.000 soldati statunitensi, l'influenza statunitense in Iraq si sta indebolendo rapidamente e quella dell'Iran sta crescendo", ha scritto Robert Dreyfuss in un articolo intitolato "Dal male in peggio in Iraq" apparso su The Nation l'8 febbraio, aggiungendo, "Il dado è stato tratto quando George W. Bush prese la fatale decisione di spazzare via il governo iracheno e installare esuli filoiraniani a Baghdad. Al Presidente Obama non resta altra scelta che fare le valigie e andarsene".
 
Sedicenti nazionalisti laici, che sono stati e sono tuttora parte integrante del cosiddetto "processo politico" iracheno ideato e messo in atto dagli Stati Uniti, stanno ormai perdendo la loro battaglia in questo processo. La de-baathificazione, che era inizialmente un programma chiave dello statunitense Paul Bremer, il primo governatore civile dell'Iraq dopo l'invasione capeggiata dagli Stati Uniti nel 2003, è diventata un mero pretesto per escludere chi si oppone all'Iran o alla sua agenda settaria in Iraq. Di fatto si sta sviluppando un regime filo-iranino settario in Iraq che non solo escluderà la laicità e la democrazia, ma anche consoliderà una base di potere iraniano in Iraq, in grado prima o poi di diffondere il settarismo in tutta la regione, invece di trasformare l'Iraq in trampolino di lancio per la democrazia in tutto il Medio Oriente, come promesso dai neoconservatori statunitensi per giustificare la loro invasione del Paese sette anni fa. Il giornalista Thomas Ricks (corrispondente militare ed ex-corrispondente sul Pentagono del Washington Post) al quale è stato conferito il Premio Pulitzer per i suoi reportage, ha recentemente sostenuto che "l'aumento delle truppe militari avevano lasciato intatti i problemi politici fondamentali dell'Iraq. Il rinforzo era basato sulla teoria che una maggiore sicurezza avrebbe portato a una svolta politica. Non è successo. Il miglioramento della sicurezza ha aperto una finestra, ma non ha portato a una svolta politica. In questo senso, il rinforzo è stato un fallimento".
 
Ricks però si astiene dal rilevare che l'immediato ritiro delle truppe statunitensi dall'Iraq sta per iniziare sullo sfondo di quel "fallimento", e che il ritiro, come il rincalzo che lo aveva preceduto, sia destinato a fallire per la stessa ragione, vale a dire il regime confessionale che entrambe le parti [USA e Iran] fecero del loro meglio per sostenere come loro agente in Iraq.
 
* Nicola Nasser è un giornalista arabo. E' attualmente stabilito a Birzeit (Cisgiordania), nei Territori occupati da Israele.
 
 

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