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aprile 2005
La Kirghizia come parte della Teoria del Domino
Rodolfo Humpierre Alvarez
Centro di Studi Europei di Cuba
Due turni di elezioni parlamentari, che hanno ricevuto dagli
osservatori dell’OSCE la qualifica di “accettabili” – sebbene si siano
riconosciute alcune irregolarità in cinque circoscrizioni – sono bastati per
scatenare un’ondata di disordini, culminati lo scorso 24 marzo nell’assalto e
nel saccheggio dei principali palazzi governativi della capitale e delle città
dell’interno e nel rovesciamento del presidente Askar Akayev.
A prima vista, gli avvenimenti della Kirghizia hanno riprodotto lo scenario già
sperimentato con successo recentemente in Georgia e in Ucraina: il
rovesciamento, attraverso massicce manifestazioni popolari, di regimi
“autoritari” e “corrotti” e la loro sostituzione con nuovi leader di evidente
vocazione filo-occidentale che si richiamerebbero ai “valori democratici” di
moda nell’era della globalizzazione.
Allo stesso modo di come è accaduto in quelle due nazioni, il paese
centro-asiatico si è visto invaso da rappresentanze di numerose organizzazioni
– in maggioranza nordamericane – e da centinaia di consiglieri (compresi serbi,
georgiani e ucraini). Tutto ciò aveva lo scopo di incanalare i cospicui fondi
statunitensi finalizzati ad “aiutare” l’opposizione locale nella sua lotta per
rovesciare l’ordine imperante.
Perché non si nutrano dubbi sul coinvolgimento nordamericano negli avvenimenti,
vale la pena citare le dichiarazioni di Condoleeza Rice, il giorno dei
disordini, diffuse da un’agenzia russa: “Stiamo
seguendo gli avvenimenti in Kirghizia e cerchiamo di aiutare l’avanzata di un
processo che trasformi i fatti che attualmente là si stanno svolgendo in un
processo democratico. Ciò, a sua volta, assicurerà al popolo kirghizo un
governo stabile e un’avanzata verso un futuro democratico migliore (…) L’OSCE è
l’organizzazione internazionale leader in tale processo, e noi cerchiamo di
aiutarla in questo sforzo”.
Senza dubbio, esistono ragioni per pensare che tale strategia questa volta ha
presentato serie lacune, in ragione delle quali i risultati non sono stati gli
stessi degli esperimenti precedenti, né sembrano indicare un futuro di
“democrazia” e “stabilità” funzionali agli interessi egemonici di Washington,
come invece era accaduto nei due casi precedenti.
Non esistono i presupposti politico-ideologici, né tanto meno religiosi, ma
piuttosto una rivalità tra i cinque clan in cui è ripartita la popolazione
kirghiza da tempi ancestrali. Non si pone, pertanto, il dilemma “a favore della Russia oppure
dell’Occidente”. Per il popolo e le elites kirghize la discriminante è
molto più elementarmente materiale: si
sostiene chi dà di più.
I due principali leader emersi da questa rivolta rappresentano,
rispettivamente, le due zone in cui convenzionalmente viene diviso il paese. Il
presidente ad interim e primo ministro Kumambek Bakiev appartiene al Sud, la
regione più povera e arretrata, che appoggiava il vecchio parlamento e che, di
conseguenza, aveva dei motivi per rifiutare la nuova assemblea legislativa
eletta nelle recenti consultazioni. E’, inoltre, la zona popolata da più di
ottocentomila uzbechi, musulmani più radicali dei kirghizi e componente importante
dei gravi scontri armati che qui si registrarono agli inizi degli anni ’90.
Il secondo personaggio di spicco dell’opposizione, che appartiene al Nord – da
dove proviene anche il deposto Akayev – è Felix Kulov, vecchio alleato dell’ex
presidente, ma che è finito in prigione negli ultimi anni per presunti abusi di
potere (corruzione), quando Askar Akayev, abbandonando le pratiche democratiche
adottate precedentemente, ha cominciato a perseguitare i suoi rivali. Kulov è
stato liberato dal carcere lo scorso 24 marzo, nel corso della rivolta. Ha
assunto il controllo della situazione – era stato ministro della sicurezza
prima di venire chiamato in giudizio – e ha dichiarato di non avere ambizioni
di potere, cedendo la presidenza ad interim e la guida del governo a Bakiev.
Entrambi i dirigenti hanno immediatamente dichiarato la loro fedeltà al
proseguimento delle relazioni con la Russia, il rispetto dei trattati
internazionali sottoscritti dal precedente governo, così come hanno ribadito il
loro interesse a mantenere gli impegni presi con gli USA in relazione alla
presenza di una base aerea – ufficialmente considerata provvisoria – sul
proprio territorio in funzione di supporto alle operazioni antiterroristiche in
Afghanistan.
Bakiev, in un colloquio telefonico con il presidente russo Vladimir Putin, ha
confermato il proposito non solo di mantenere, ma anche di sviluppare le buone
relazioni con la Russia, e ha sollecitato aiuto materiale per far fronte alla
difficile situazione economica, originata sia dai disordini e dai saccheggi,
che dalla disorganizzazione del paese che deve affrontare la fase delle semine
primaverili. La Russia ha promesso ed ha iniziato immediatamente ad inviare
aiuti in generi alimentari, attrezzature, sementi e fertilizzanti.
Nel mezzo della complessa situazione creatasi, il vecchio parlamento che
all’inizio sembrava voler non riconoscere i risultati elettorali – convalidati
dalla Commissione Elettorale Centrale, ma non dalla Corte Suprema del paese -,
ha poi preso la decisione di recedere da tale intenzione e di riconoscere la
legittimità della nuova assemblea legislativa, per lo più composta in
maggioranza da rappresentanti del Nord e, per questa ragione, favorevoli al
deposto presidente Akayev. In seguito, ha convocato le elezioni presidenziali
per il 26 giugno dell’anno in corso, passo questo che dovrebbe teoricamente
portare alla stabilizzazione più o meno definitiva della situazione del paese.
L’evoluzione futura degli avvenimenti in Kirghizia potrebbe presentare più di
uno scenario.
In primo luogo, è necessario tener conto dei diversi fattori che, in un modo o
nell’altro, potrebbero influenzare la vita del paese. Da una parte si presenta
il fattore della popolazione uzbeca al sud, con la convulsa città di Osh come
centro, che è a sua volta il principale punto di smistamento dell’oppio
proveniente dall’Afghanistan e avente come destinazione l’Europa e gli USA.
In secondo luogo, ci sono gli interessi delle potenze esterne: Russia, USA e
Cina, che convergono in Kirghizia, paese ricco di risorse minerarie e con la
seconda maggiore riserva d’acqua dell’Asia Centrale. E’, allo stesso tempo, in
prospettiva lo spazio di transito per gli idrocarburi centro-asiatici di cui ha
bisogno la robusta economia cinese.
In terzo luogo, c’è il fattore destabilizzazione della zona, per cui sarebbe
sufficiente una gestione inadeguata della problematica etnica e religiosa,
tanto nella stessa Kirghizia, come nei vicini Uzbekistan, Tagikistan e
Kazakhstan, a determinare ripercussioni sulla stabilità delle zone di frontiera
cinesi, pure esse abitate da musulmani. In tal caso, l’estensione
dell’influenza delle forze dell’islamismo radicale presenti nell’area potrebbe
mettere in pericolo non solo gli interessi di questi paesi, ma anche quelli
della Cina, della Russia e degli USA.
In conclusione, possiamo affermare che le incertezze derivanti dalla futura
evoluzione degli avvenimenti in Kirghizia, sommate alle reiterate assicurazioni
date dalle nuove autorità circa il mantenimento e lo sviluppo dei legami con la
Russia, fanno registrare al momento differenze sostanziali rispetto a quanto è
avvenuto nelle altre “rivoluzioni dei colori” attuate nello spazio
postsovietico (…).
Traduzione a cura del Centro di Cultura e
Documentazione Popolare