www.resistenze.org - popoli resistenti - lettonia - 16-01-04

LETTONIA: Tra integrazione europea e “apartheid”

a cura di Mauro Gemma

La Lettonia, con i suoi circa 65.000 Kmq e 2,3 milioni di abitanti, rappresenta lo stato intermedio tra i tre già facenti parte dell’URSS, che si affacciano sul Mar Baltico. Solo il 57% della popolazione è costituito da lettoni, che parlano una lingua appartenente al gruppo baltico. Oltre il  33%  è rappresentato da russi e “russofoni”, e circa l’8% da altre componenti slave (bielorussi, ucraini) che, nel periodo sovietico, in generale hanno sempre considerato il russo come loro prima lingua.

La Lettonia, costituitasi stato indipendente nel 1918 alla caduta dell’impero zarista, alla vigilia dell’invasione nazista dell’URSS, nel 1940, venne occupata dall’ “Armata Rossa” e proclamata repubblica sovietica. Dal 1941 al 1944 il paese fu sottoposto all’occupazione nazista, che si manifestò con particolare ferocia nei confronti della resistenza e nelle operazioni di sterminio degli ebrei, che portarono all’eliminazione fisica di oltre 90.000 persone di religione israelita. Nelle loro azioni, i nazisti erano affiancati da consistenti gruppi di collaborazionisti lettoni, inquadrati nei reparti delle SS, che, al momento dell’arruolamento, dovevano prestare giuramento direttamente a Hitler. Queste formazioni, note agli storici della resistenza per la loro ferocia, si resero protagoniste di massacri inenarrabili, che avevano come obiettivo, oltre agli ebrei, i militanti comunisti e gli appartenenti alle minoranze.

In seguito alla liberazione del paese da parte dell’ “Armata Rossa”, molti fascisti cercarono rifugio nelle folte foreste che coprono il territorio della Lettonia, proclamandosi “fratelli dei boschi”, e, con l’aiuto dei proprietari terrieri e di settori della popolazione contadina (una vera e propria “Vandea”), cercarono di opporre una disperata resistenza, che si manifestava in attentati terroristici e in uccisioni individuali: centinaia di comunisti, impegnati nella costruzione del potere sovietico, vennero così massacrati nei primi anni del dopoguerra, fino a quando il movimento terroristico fascista (a cui non sono certo attribuibili le caratteristiche di “movimento di liberazione nazionale” sbandierate dalle attuali autorità, impegnate in una preoccupante operazione di riabilitazione storica del collaborazionismo lettone) venne definitivamente represso.

Seguirono, in epoca staliniana, una serie di misure particolarmente severe che comportarono la deportazione in altre repubbliche di circa 200.000 persone e l’immigrazione massiccia in Lettonia di russi, bielorussi e ucraini, che andarono a costituire il nerbo del locale proletariato industriale. Anche se, a partire dagli anni ’60, la situazione parve normalizzarsi, attraverso un deciso rilancio dell’economia e del settore industriale ed un significativo innalzamento del livello di vita e delle prestazioni sociali, le tensioni postbelliche non arrivarono mai ad una definitiva composizione. Così quando, con la “perestrojka”, i fermenti nazionalisti e anticomunisti affiorarono in superficie, le tendenze “revansciste” e separatiste, guidate dal cosiddetto “Fronte popolare”, ripresero vigore, fino ad invocare l’indipendenza, attraverso la proclamazione della sovranità nel maggio del 1989 e la definitiva divisione dall’URSS, avvenuta nell’agosto del 1991.

Da quel momento, la Lettonia, subito riconosciuta dall’Occidente, e guidata allora dal movimento moderato nazionalista “Via Lettone”, si incamminò sulla strada delle riforme capitalistiche, rompendo i legami con il mercato sovietico, che le avevano permesso di diventare, insieme all’Estonia, la più prospera repubblica dell’Unione Sovietica, e ad avviare trasformazioni strutturali in senso liberista, che dovevano portare in breve tempo all’esplodere di una crisi economica di vaste proporzioni.
A pagarne le conseguenze è stata in primo luogo la classe operaia, che ha assistito allo smantellamento di un apparato produttivo, che aveva perso i tradizionali mercati di sbocco. E, dal momento che il proletariato è rappresentato in larga parte da cittadini russi o “russofoni”, la “questione sociale” è venuta così mescolandosi con la “questione nazionale”.

Fin dal 1991, i governi che si sono succeduti hanno praticato una politica che, non solo ha teso ad impedire la riorganizzazione di un forte movimento operaio (attraverso, innanzitutto, la messa al bando del Partito Comunista e l’incarcerazione dei suoi massimi dirigenti, costretti a lunghi anni di detenzione e spesso condannati retroattivamente per la loro partecipazione alla repressione del collaborazionismo locale nell’immediato dopoguerra: tanto da sollevare l’indignazione dello stesso presidente russo Putin, che  ha definito questi anziani partigiani “valorosi combattenti della Grande Guerra Patriottica”), ma che ha puntato (tra le proteste di alcune organizzazioni umanitarie, ma nella sostanziale indifferenza delle istituzioni internazionali) alla realizzazione di una vera e propria “pulizia etnica”.

Dopo il 1991, in Lettonia oltre mezzo milione di cittadini appartenenti alle minoranze nazionali  è stato privato dei diritti civili. Costoro non beneficiano né del diritto di voto, né del diritto di impiego nella funzione pubblica. Non godono della pensione e vengono discriminati nelle richieste di affitto e di lavoro. Sul loro passaporto figura addirittura la dicitura “non cittadino”. Il governo è arrivato al punto di adottare una legge che viola il diritto fondamentale all’insegnamento nella propria lingua madre. Secondo la nuova legislazione, solamente le scuole che insegnano in lingua lettone verranno sovvenzionate.

Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio regime di “apartheid”, a cui l’Unione Europea (ma, dispiace affermarlo, la stessa sinistra del continente, con l’eccezione dei comunisti greci e di alcune componenti comuniste italiane e belghe) non hanno saputo rispondere se non con qualche timida reprimenda.

Tutto ciò non ha impedito che la Lettonia venisse accolta nel “salotto buono” del mondo occidentale, attraverso il suo inserimento nelle strutture sia della NATO che dell’Unione Europea. Così, tra il novembre del 2002 e la fine del 2003, la Lettonia, che ha pagato il suo ingresso nel consesso occidentale con costi sociali inauditi (ad esempio, il sistema agricolo rischia il collasso con l’entrata in vigore dei vincoli europei), si è ritrovata tra i paesi legati al carro delle avventure americane nel mondo, con l’obbligo di destinare cifre ingenti del suo bilancio alle spese militari e ad inviare truppe in giro per il mondo, in caso di richiesta (un piccolo contingente lettone è presente in Iraq).

Né il presidente della repubblica Vaira Vike-Freiberga, né i governi che si sono succeduti in questi 12 anni non si sono mai opposti a tale corso della politica nazionale. E, più di tutti, l’ultimo di centro-destra che, dopo le elezioni dell’ottobre 2002, è diretto da Einars Repse ed esprime una coalizione formata al Saeima (parlamento) da “Nuova Era” ( con il 23,9%, partito di maggioranza relativa), dal “Primo partito di Lettonia” (9,6%) e da altre formazioni minori di orientamento conservatore. Anche in occasione del referendum per l’adesione all’Unione Europea, salutato dalla retorica “europeista” come espressione della volontà popolare lettone, è stato impedito ad oltre il 20% degli abitanti di votare.

Al contrario delle altre repubbliche baltiche, in Lettonia i comunisti (fuorilegge, anche dopo l’ingresso nell’UE) hanno cercato di riorganizzarsi, attraverso nuove coperture legali. Nel gennaio del 1994 è stato così fondato il Partito Socialista di Lettonia (LSP), alla cui guida, dopo una lunga detenzione, è stato eletto Alfred Rubiks, leader del Partito Comunista di Lettonia fino all’agosto 1991. Il Partito Socialista, decisamente contrario all’integrazione nel sistema occidentale di alleanze, si pronuncia per la creazione di un sistema “protetto socialmente sulla base della teoria marxista” e intende difendere “gli interessi politici e sociali del popolo lavoratore”. Il Partito Socialista è particolarmente attivo nella lotta in difesa dei valori antifascisti e contro il regime di “apartheid”, attraverso l’organizzazione di incisive lotte, che hanno mobilitato decine di migliaia di persone, ottenendo anche qualche parziale risultato.

Il Partito Socialista è la più importante tra le forze di sinistra ( le altre sono il “Partito della concordia del popolo”, difensore dei diritti civili, e il “Movimento per l’uguaglianza”, in rappresentanza della minoranza russa) che hanno dato vita alla coalizione “Per i diritti dell’uomo in una Lettonia unita”, che, nelle ultime elezioni, è diventata la seconda forza politica con il 19,1% dei voti (rispetto al 14,2% della precedente consultazione). La coalizione ha preso parte, in veste di osservatore, alla riunione di Berlino in cui è nato il “Partito della Sinistra Europea”, decidendo di non aderirvi.