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- popoli resistenti - libano - 17-10-09 - n. 291
Libano: crocevia di lotta e resistenza
di Marco Benevento, Comitato Palestina nel Cuore
Il viaggio di settembre organizzato dal Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila nato nel 2001 per una felice intuizione di Stefano Chiarini, è stato come sempre fonte di forti emozioni e di importanti elementi di riflessione . Una carovana di persone di diverse associazioni, tra cui il Comitato Palestina nel cuore tornano ogni anno in Libano con tre scopi precisi: mantenere vivo il ricordo del massacro di Sabra e Chatila perpetrato dai falangisti libanesi sotto la regia dell’esercito israeliano, battersi per il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e sostenere il diritto dei popoli a resistere con ogni mezzo al colonialismo.
Il Libano è una striscia di terra estesa quanto l’Abruzzo con una popolazione di circa 3 milioni e 600 mila abitanti a cui si aggiungono circa 400mila palestinesi privi dei fondamentali diritti civili. La situazione economica vede una marcata divaricazione sociale, caratterizzata dalla speculazione finanziaria testimoniata dall’offerta di fondi di investimento con tassi del 6,5% , dalla fortissima speculazione edilizia, tra cui spicca il programma solidaire che insieme al patrocinio saudita ha contribuito alla fortuna politica della famiglia Hariri che oggi guida la coalizione filo occidentale 14 marzo.
Dall’altro capo della società libanese si colloca l’oltre 28% della popolazione che è povera, qui l’economia informale quella del liberismo economico ha polverizzato il mondo del lavoro e fatto schizzare il tasso di disoccupazione oltre il 15%. La manodopera è assorbita per il 76% dai servizi (banche e turismo) con rapporti di lavoro di tipo precario e intermittente, mentre il settore industriale costituito da piccole imprese impegna il 20% della forza lavoro.
L’Italia è il primo partner commerciale libanese. Il paese dei cedri importa merci per più del 10%. In questo modo si riconferma come la tutela degli nteressi economici non sia estranea alle missioni militari italiane all’estero, sia per tutelare commesse vedi il caso dell’ENI in Iraq e sia per partecipare alla ricostruzione come è accaduto nei balcani, a questi si aggiunge il risultato politico di vedere aumentare l’ influenza dell’Italia nel contesto internazionale. La fascia di sicurezza oggi presidiata dalle truppe Unifil, profonda circa 10 km, riprende quelli che erano i confini del territorio occupato dello stato fantoccio filoisraeliano guidato dai falangisti libanesi.
La divisione confessionale cristallizza il Libano; mantiene il paese in un stallo politico rotto di volta in volta dagli interventi delle potenze straniere USA, UE, dagli equilibri regionali e più drammaticamente dall’aggressiva politica israeliana .
Il sistema elettorale e di governo infatti si basano sulla ripartizione confessionale, i 128 seggi sono assegnati secondo un meccanismo che divide il paese in collegi e all’interno di questi le quote spettanti ad ogni confessione in relazione al suo peso demografico e sociale.
Le principali figure statali secondo il "patto nazionale" (al-mithaq al-watani) del 1943, sono suddivise tra i tre gruppi principali: il Presidente della repubblica è maronita, il Primo ministro deve essere sunnita, mentre il Presidente del parlamento spetta alla comunità sciita. Il Presidente della repubblica, che viene eletto a maggioranza dai parlamentari, condivide il potere esecutivo con il primo ministro, partecipando alle sedute del Consiglio dei ministri, nominando e revocando il primo ministro. Questo sistema crea non poche contraddizioni e conflitti, innanzitutto pregiudica la presenza di partiti laici e interconfessionali come il Partito Comunista Libanese, in secondo luogo si basa su un censimento del 1932 secondo cui il 63% della cittadinanza è maronita mentre oggi le stime parlano di una popolazione al 70% mussulmana. A questi elementi va aggiunto il precario equilibrio tra le cariche dello stato . La storia del Libano, come quella della Palestina, è segnata dalle guerre preventive che il vicino Israele scatena appellandosi al suo diritto alla difesa un pretesto che consente a Tel Aviv di mantenere l’intera area mediorientale sotto la minaccia delle armi. La fascia di sicurezza oggi presidiata dalle truppe Unifil, profonda circa 10 km, riprende quelli che erano i confini del territorio occupato dello stato fantoccio filoisraeliano guidato dai falangisti libanesi.
Nel 2006 Israele ha scatenato una guerra che ha provocato più di 1000 morti in 33 giorni di bombardamenti bruciando infrastrutture per circa 4 mila miliardi di dollari equivalente al 10 % del PIL libanese . La questione della riorganizzazione dell’esercito e della smobilitazione della resistenza è una pietra angolare per comprendere la natura dello scontro in corso in Libano.
Il Daily Star, quotidiano libanese in lingua inglese, riportava dell’aumento delle spese militari costituite per lo più da aiuti in mezzi pesanti forniti dagli Stati Uniti al governo Hariri. La notizia era commentata da un esperto militare che riconfermava la strumentalità e l’inutilità di quel tipo di armi. Il commentatore in questione, un liberale, faceva sua la tesi della resistenza libanese, ovverosia che di fronte all’esercito israeliano tra i meglio armati del mondo l’unica forma di difesa e dissuasione è costituita dalla guerriglia e dall’esercito “popolare”. Tesi questa sostenuta da Hezbollah e dal PCL e che durante l’aggressione israeliana di giugno 2006 ha ampiamente dimostrato la sua efficacia . Con orgoglio gli abitanti di Khiam ci hanno fatto vedere la valle dove la resistenza ha respinto la manovra a tenaglia di due colonne di carri israeliani danneggiandone 15 e distruggendone oltre 25.
Ci ha colpito particolarmente una frase di un esponente della resistenza libanese “siamo attaccati come terroristi ed estremisti, ma non abbiamo questo complesso, siamo combattenti, abbiamo difeso il nostro paese combattiamo per le nostre famiglie, per le nostre donne, per lo sguardo dei nostri figli, per l’onore del nostro popolo”. Dialogando con il responsabile esteri Hezbollah Ammar Al Mussawi, questi giustamente riprendeva il ragionamento che in altra sede ci aveva fatto un altro membro del suo partito l’ex ministro del lavoro Trad Hamade , ragionamento in base al quale le possibilità di crescita e sviluppo dei paesi dell’area sono posti sotto costante minaccia di distruzione da parte israeliana e come definire questo se non terrorismo di stato?
L’occupazione israeliana della Palestina e l’affermazione dell’ideologia sionista ci raccontano la storia di un moderno colonialismo che si è affermato attraverso la pratica sistematica e metodica del terrorismo. A partire dalla cacciata dei palestinesi dai loro villaggi nel 1948 per arrivare ai nostri giorni lo stato di Israele ha tenuto fede a quanto dichiarava Teodoro Erzl fondatore del movimento sionista :”Per l’Europa noi costituiremo là una parte del bastione contro l’Asia saremo la sentinella avanzata della civiltà contro la barbarie”. Lo ha fatto a mezzo di guerre , attentati terroristici e incursioni che hanno contraddistinto la storia di un paese, Israele dove è difficile separare sentimento civile, dal fanatismo religioso, dal concetto di supremazia messianica e laica della propria “stirpe” e dal militarismo .
Ci sono delle caratteristiche che ricorrono nella storia del terrorismo di stato Israeliano, l’uso estremo della violenza in maniera ben superiore alle necessità militari, la scelta della popolazione civile come obiettivo, l’esibizione dell’efferatezza di fronte ai media e alle istituzioni internazionali. L’acuirsi della crisi economica e la riconferma, nella sostanza, da parte della presidenza Obama della strategia militare del suo predecessore, non fanno che riconfermare la tendenza alla guerra in medio oriente. Le continue dichiarazioni contro l’Iran sono nei fatti un escalation dell’embargo economico e politico, un crescendo che abbiamo già avuto modo di vedere in Jugoslavia e in Iraq. Un elemento di pericolo in più viene proprio da Israele in cerca di rivalsa dopo che è uscita sconfitto dal Libano e con un immagine ulteriormente deteriorata dopo la carneficina di Gaza. Israele è battuta dai venti di una profonda crisi morale della sua classe politica , è priva di una leadership in grado di fare sintesi degli interessi del paese ed è un paese coinvolto nella crisi economica e che non riesce più a garantire standard di vita “occidentali” ai suoi cittadini.
All’interno del regime Israeliano, peraltro cresce il malcontento della popolazione “arabo-palestinese” discriminata e relegata in una condizione subalterna, una vera bomba ad orologeria. Sono elementi che possono vedere da parte del revanscismo sionista la necessità di imboccare la strada di una nuova e drammatica avventura militare. In questo senso le preoccupazioni di Marie Debs vicesegretaria del PCL in merito alla proposta di Sarkozy di includere lo stato sionista nell’ombrello NATO sono anche le nostre preoccupazioni . Se questo accadesse vedrebbe l’UE portare i popoli europei a stringere un alleanza militare con la potenza occupante e aggressiva israeliana, cosa che non potrebbe rimanere senza risposte da parte del movimento contro la guerra. Il ribaltamento dei rapporti di forza tra le classi, a livello mondiale, ha visto riaffermare l’aggressività dell’imperialismo e ha portato il mondo all’interno di un ciclo di guerre che sembrano senza fine. L’assenza di una forza di contrasto reale e di pari peso rispetto all’imperialismo, non ha messo però fine alla resistenza dei popoli e alla loro lotta per l’indipendenza e lo sviluppo
Questo tendenza oggi avviene in maniera dialettica e vede al suo interno forze tra loro diverse per storia, contesto e caratteristiche ma ugualmente contrapposte al capitalismo globalizzato. Anche in Libano il fenomeno è spurio, ma allo stesso modo attesta la presenza di organizzazioni che si pongono oggettivamente sul terreno della resistenza e dialogano con forze che a livello internazionale fanno parte di un fronte antimperialista, non parliamo della stima che il Venezuela di Chavez riscuote tra il PCL come potrebbe essere ovvio ma del credito che riscuote tra la dirigenza di Hezbollah.
Siamo tornati dal Libano ancora più convinti che la battaglia dei palestinesi non merita semplicemente solidarietà per la tremenda oppressione ma sia più giusto riconoscerla come un pezzo di un movimento più grande e generale di uomini e donne in lotta contro l’imperialismo un sistema ingiusto e inumano .