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Intervista speciale a Omar El Deeb del Partito Comunista Libanese

International Communist Press-ICP | sol.org.tr

23/10/2019

«Sappiamo che è stata la più grande manifestazione della storia del Libano»

La sollevazione iniziata la settimana scorsa e tuttora in corso in Libano si è verificata durante il 21° Incontro Internazionale dei Partiti Comunisti e Operai. ICP ha realizzato un'intervista a Omar El Deeb, membro dell'Ufficio Politico per i Rapporti con l'Estero del Partito Comunista Libanese (PCL) sugli eventi e le valutazioni politiche del PCL. L'intervista si è svolta durante l'ultima giornata dell'incontro, il 20 ottobre, poche ore prima che il PCL si pronunciasse per lo sciopero generale e per una presentazione di richieste.

Come si è sviluppata la sollevazione, e qual è la situazione attuale?

La sollevazione attualmente in corso in Libano non si è verificata solo a causa degli sviluppi più recenti. Vi è stata una successione di eventi che hanno condotto a un'esplosione sociale della società libanese. Subiamo da trent'anni le violente politiche neoliberali imposte dal nostro governo - politiche che si basano sulla crescita e sul debito, per esempio il prestito di denaro dalle banche e da istituzioni internazionali finalizzato alla realizzazione di infrastrutture e altri investimenti. Tutte le politiche del governo sono orientate al sostegno dei settori bancario, immobiliare e turistico. Ma i nostri settori produttivi - industria, agricoltura - sono stati fortemente trascurati dal nostro governo. Perciò, in sostanza il governo ha creato un sistema basato sul consumo, sui prestiti dall'estero, senza alcuna produzione reale all'interno del Paese.

Quali sono state le conseguenze di queste politiche nella società libanese?

All'inizio, naturalmente, si ha la sensazione che l'economia cresca e che tutto vada bene. Ma quando si cominciano a pagare gli interessi e il deficit di bilancio aumenta, la situazione cambia. A causa di queste politiche abbiamo toccato il record del debito, che si aggira intorno al 160% del PIL. Il 52% della nostra spesa di bilancio è assorbito dai soli interessi sul debito. Praticamente, metà di ciò che spendiamo se ne va solo con gli interessi. E per tutto il resto - salari, Stato sociale, infrastrutture - deve bastare l'altra metà.

Questi interessi vanno soprattutto alle banche libanesi, di proprietà della classe capitalista dominante in Libano che è coalizzata con i principali partiti confessionali che governano il nostro Paese sin dalla fine della guerra civile. In sostanza, quindi la gente paga le tasse e viene sfruttata attraverso queste tasse che vengono trasferite ai proprietari delle banche. Abbiamo uno dei livelli di diseguaglianza più elevati al mondo, il che significa che i ricchi sono ricchissimi e tutti gli altri sono poveri.

Il Libano è un Paese a reddito medio. Le risorse sono quelle che sono, e con risorse del genere come si potrebbe far funzionare l'economia? Il problema è che il livello di sfruttamento di classe è altissimo. L'1% più ricco in Libano è proprietario del 51% dei depositi bancari. Il che significa che buona parte della ricchezza è controllata da quell'1%. E se per esempio si considera il 10% più ricco, possiede ben il 78% dei depositi bancari. Innumerevoli dati statistici confermano quanta diseguaglianza ci sia da noi. Abbiamo un 35% di povertà e un'elevatissima emigrazione. Quasi un quarto dei libanesi risiede fuori dal Libano. Emigrano in Europa, Canada, Australia, Arabia Saudita, per guadagnare qualcosa e inviarlo alle famiglie. In ogni famiglia c'è in media un emigrato. È molto dura. E tutte queste situazioni si sono accumulate...

Quando la gente ha iniziato a percepire la crisi?

Due anni fa il nostro governo voleva ottenere ulteriori prestiti. Ma le banche non intendevano concederli, dato che per il governo sarebbe diventato difficile restituirli. Così hanno organizzato una conferenza internazionale a Parigi - la Conferenza dei Cedri, con le banche libanesi, il FMI e alcuni governi europei e arabi. La conferenza è stata organizzata per ottenere ulteriori prestiti, e i prestatori hanno detto: «Siamo pronti a fornire prestiti per 12 miliardi di dollari in cinque anni, a condizione che copriate metà del vostro deficit di bilancio. E per farlo dovrete imporre tasse sulla benzina, sull'elettricitàe sulle comunicazioni, in modo da ridurre la spesa per i servizi pubblici».

Così, il governo ha iniziato a tentare di attuare queste condizioni per ottenere il denaro dalla conferenza. L'anno scorso, nel bilancio 2019, ha tentato di introdurre alcune di queste tasse. Ma il nostro partito e i sindacati hanno organizzato manifestazioni contro il progetto. Vi hanno partecipato 10-15 mila persone a Beirut, e anche i dipendenti pubblici hanno fatto alcuni scioperi. Alla fine il governo non ha potuto introdurre molte tasse, ma soltanto alcune. Così hanno cercato di limitare la collera popolare.

Che cosa ha innescato la sollevazione contro la legge finanziaria?

A quel tempo sostenevamo che stavamo arrivando progressivamente al collasso finanziario. Abbiamo messo in guardia sulla necessità di introdurre politiche nuove. Il mese scorso, mentre preparava la legge di bilancio per il 2020, il governo ha iniziato nuovamente a discutere l'introduzione di tasse e le discussioni si sono protratte per circa un mese. Il governo ha tenuto segrete tutte le tasse nelle previsioni di bilancio iniziali. Solo l'ultimo giorno ha svelato ciò che aveva in mente. Il bilancio è stato votato e rinviato al Parlamento il giorno stesso. Questo è accaduto giovedì scorso. La gente si è sentita disperata, furiosa, senza più speranza o fiducia e sempre più in difficoltà, così ha iniziato a dire: «scendiamo in piazza, no alle tasse!».

Anche noi abbiamo esortato la popolazione a opporsi e a manifestare. Giovedì sera sono scese in piazza alcune migliaia di persone in diverse località. Venerdì le manifestazioni si sono fatte più grandi e la gente ha cominciato a esortare alla partecipazione. Non c'era nessun altro partito - soltanto noi e l'opinione pubblica in generale, il popolo furibondo. Venerdì c'erano già decine di migliaia di persone, che hanno cominciato a sentirsi più sicure di sé nelle loro rivendicazioni. Venerdì sera le manifestazioni si sono estese a molte città - da Tripoli nel nord a Sidone nel sud. Nel sud, quando le manifestazioni si sono intensificate, le milizie hanno tentato di reprimere la popolazione. I miliziani sono usciti con i loro fucili, minacciando le persone di lasciare le strade, altrimenti sarebbero state arrestate...

Chi sono questi miliziani?

Le milizie confessionali del sud. Il sud è la base di Hezbollah e di Amal. Amal è l'organizzazione che ha cercato di reprimere le manifestazioni. Questo però ha soltanto fatto aumentare la rabbia; è stata una sorpresa che la gente non si sia lasciata intimidire dalle milizie. Non ha avuto paura e non ha lasciato le strade. C'erano civili che discutevano con miliziani armati. Ci sono molti video in cui li si vede dire «Dovreste vergognarvi; se volete spararci, sparateci, noi non ce ne andiamo!». Così, anche i miliziani armati sono stati colti di sorpresa. Si sono radunati in forze e hanno aggredito la gente, non con le armi da fuoco ma picchiandola e costringendola a disperdersi.

Sabato mattina la gente è scesa in strada di nuovo e ha bloccato l'autostrada nel sud per bloccare tutti i movimenti nella regione. Poi sono arrivati i miliziani in macchina, hanno tirato fuori i fucili e hanno minacciato di uccidere chiunque dicesse una parola contro il presidente del Parlamento, che appartiene al terzo partito, Amal. Ma è arrivata ancora più gente e così sono stati costretti ad andarsene.

Poche ore dopo, intorno a mezzogiorno, il presidente del Parlamento ha rilasciato una dichiarazione. Ha definito le manifestazioni «episodi isolati», le ha condannate e ha chiesto alla gente di lasciare le strade. Ma quando la dichiarazione è stata diffusa, ancora più persone si sono riversate nelle strade del sud - erano decine di migliaia. La gente delle altre regioni, vedendo che cosa stava succedendo - oggi infatti tutti quanti usano i social media - ha visto che la gente del sud ha avuto il coraggio di affrontare le milizie, e la popolazione di tutto il Libano è divenuta ancor più motivata. Quel pomeriggio a Beirut sono scese in piazza circa cinquantamila persone. Insomma, la gente ha preso più fiducia.

Sappiamo che Hezbollah è popolare tra la gente del sud. Qual è stato il suo atteggiamento?

Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, ha tenuto un discorso in televisione ieri. In Libano molti apprezzano Nasrallah come protagonista della resistenza, anche se non condividono la sua linea politica. E queste persone si aspettavano che dicesse «Ora cambieremo il governo, faremo riforme». Invece ha detto: «OK, cancelliamo le tasse ma il governo deve rimanere, altrimenti ci sarà il caos». Perciò la gente è rimasta delusa; perfino la sua base non era soddisfatta. L'atteggiamento era: teniamoci il governo, teniamoci il presidente. E questo ha fatto arrabbiare ancora di più la gente e ha fatto sì che molti altri si unissero alle manifestazioni - perfino sostenitori di Hezbollah.

Sembra essere un punto di svolta. Come si è sviluppata successivamente la situazione e qual è stato il ruolo del Partito Comunista Libanese in questi sviluppi?

Ieri sera non siamo stati in grado di calcolare il numero di persone, ma sappiamo che è stata la più grande manifestazione della storia del Libano. Dato che l'intera Beirut era piena di gente, le stime più prudenti calcolano che in città vi fossero 300.000 persone. E c'erano almeno 100.000 persone in tutto il resto del Paese, nel sud e nel nord. Tutto il popolo libanese ha sostenuto le manifestazioni.

Il nostro partito è stato molto presente, il nostro segretario generale ha preso parte alla manifestazione e la gente si complimentava con noi. Abbiamo avuto una parte attiva, specie nei luoghi dove ci sono stati scontri - bloccare strade, chiudere un'autostrada, organizzare gli abitanti di un villaggio... Quasi tutto ciò che è avvenuto fuori Beirut è avvenuto con l'aiuto dei nostri quadri. A Beirut è stata una manifestazione molto partecipata, c'erano anche tutti gli altri oltre a noi. Ma il nostro è il solo partito ad aver esortato la popolazione a partecipare.

Puoi parlarci dell'appello del PCL e della strategia che seguirà il partito?

Ora chiediamo la rimozione del governo, riforme radicali del sistema politico e un governo provvisorio con l'autorità di attuare riforme economiche. Proponiamo un piano con tasse alternative ai capitalisti, alle banche, agli usurai titolari di depositi bancari. Chiediamo al popolo di appoggiare queste richieste. Chiediamo una riforma politica, una legge elettorale rappresentativa e nuove elezioni indette secondo questa legge.

Ma servono altri passi per poter organizzare tutto questo; per prima cosa dobbiamo costringere il governo a dimettersi. Il governo rifiuta ancora di dimettersi. A nostro avviso, se riusciremo a continuare anche la prossima settimana, manifestando nei giorni feriali, organizzando uno sciopero generale e chiudendo tutte le strade e le autostrade, riusciremo a costringerli a dimettersi. Le grandi manifestazioni sono avvenute nel fine settimana ed è più difficile per noi radunare la gente nei giorni lavorativi, ma è molto importante.

Cominceremo la mattina presto, verso le sei del mattino, bloccando le strade principali e cercando di imporre lo sciopero. E potremo chiamare la gente a partecipare durante la giornata. Siamo l'unico gruppo organizzato all'interno delle manifestazioni, perciò la gente avrà bisogno di noi. Se riusciremo a farlo domani mattina e a fare sì che la gente continui a partecipare nel pomeriggio e durante la serata, siamo convinti che nel giro di pochi giorni il governo si dimetterà. Non durerà a lungo. Le sue dimissioni creeranno maggiore speranza. Potremo fare leva su questo.

Quali ritenete siano i rischi di questa strategia?

Quando il governo capirà di non avere vie d'uscita avrà due possibilità. O si dimetterà, oppure tenterà la via della repressione violenta... Permetteranno all'esercito di sparare sulla folla e questo provocherà il caos totale. Non lo riteniamo improbabile. OK, è più probabile che si dimettano, oppure potrebbero tentare di resistere pacificamente, ma esiste la possibilità che tentino un contrattacco. Questo è in parte rischioso, perciò chiediamo il sostegno internazionale, quello dei partiti affini e dei libanesi che vivono all'estero, affinché manifestino davanti alle ambasciate libanesi, sollevino la questione dappertutto, tengano d'occhio la situazione, facciano pressioni e rendano più difficile per il governo reagire in modo irresponsabile.

Oggi ci sono state grosse manifestazioni in località dove vivono comunità libanesi - Londra, Parigi, Sydney, città in cui vivono quattro o cinquemila libanesi. Ci sono state manifestazioni più piccole ad Atene e a Ottawa. Inoltre, almeno dieci partiti di Paesi arabi hanno inviato messaggi di solidarietà.

Se il governo si dimetterà, quale sarà la strategia dei grandi capitalisti, i principali responsabili di queste politiche?

Credo che siano con le spalle al muro. Tutti, infatti dicono «Siete voi quelli che devono pagare». Perfino il primo ministro ha proposto un piano alternativo sulle tasse, che prevede non l'innalzamento delle tasse alla popolazione, ma quello delle tasse alle banche. Sta tentando di placare la rabbia. Ma il sentimento generale nella popolazione è molto più avanzato. Non ascoltano, non si fidano più dei politici.

Tutti i manifestanti vogliono le dimissioni del governo, ma quando si parla di alternative la situazione non è chiara. In primo luogo, molte persone non sono politicizzate. Il secondo problema è: come realizzare le alternative? C'è la costituzione, c'è il Parlamento: come realizzare un cambiamento politico? Perciò si tratta di una sollevazione, ma non di una rivoluzione.

Avete un piano alternativo?

Sì, abbiamo un piano alternativo. Oggi rilasceremo una dichiarazione con cui affermiamo di essere pronti a partecipare a una fase di transizione, a gestire la crisi con un piano economico e politico. Sul breve termine si tratta di imporre tasse alle grandi banche, e sul lungo termine di sostenere i settori produttivi dell'economia, migliorare le risorse sociali della popolazione, e in particolare di sostenere l'industria e l'agricoltura allo scopo di rafforzare le nostre energie produttive e di avere un movimento operaio più forte. Come si può fare questo in un'economia basata sui soli servizi?

Inoltre stiamo conducendo una battaglia per il ruolo del settore pubblico. Nel piano di Hariri ci sono sì le tasse per le banche, ma al tempo stesso lui intende privatizzare molti settori per fare cassa. Perciò, una delle nostre alternative consiste in primo luogo nel tutelare il settore pubblico, e in secondo luogo nel nazionalizzare - senza utilizzare questo termine - le imprese più importanti, per esempio le telecomunicazioni, reintegrandole nel settore pubblico, restituendole alla proprietà pubblica.

Questa è una delle principali differenze ideologiche tra noi e gli altri: come controllare la proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Ma per andare oltre occorrono rapporti di forza molto diversi, non solo in Libano. Questo è il progetto più ambizioso di cui possiamo parlare al momento.


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