www.resistenze.org - popoli resistenti - mongolia - 06-07-08 - n. 235

da Rebelión - www.rebelion.org/noticia.php?id=69812&titular=las-agitadas-aguas-del-océano-verde-
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org di FR
 
Le agitate acque dell’oceano verde
 
di Txente Rekondo - Uff. Basco di Analisi Internazionali (GAIN)
 
04/07/08
 
I recenti incidenti avvenuti in Mongolia, hanno acceso i riflettori dei media su un paese che per anni gli stessi media avevano dimenticato. Le notizie relative alla Mongolia sono sempre state collegate a fatti storici, quasi mitici, circa il passato e il ruolo giocato dall’eroe locale, Chinggis Khaan (in Occidente noto come Gengis Khan), quando i mongoli riuscirono a creare un enorme impero.
 
Si è anche cercato di presentare una serie di luoghi comuni come l’unica realtà del paese. I riferimenti alle sue immense steppe, che qualcuno ha definito un vero “oceano verde”, o le immagini quasi bucoliche della sua gente nomade che vive per steppe e deserto, sono un esempio. Pure se queste immagini sono parte della realtà della Mongolia, lo sono anche il continuo sviluppo della popolazione urbana, soprattutto intorno a Ulaanbaatar (Ulan Bator), la capitale del paese, o i dati forniti dall’ONU che indicano che più del 10% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno.
 
Dopo la caduta dell’impero mongolo è venuta la dominazione cinese, fino a quando, con l’aiuto dell’esercito rosso, la Mongolia è diventata la Repubblica Popolare, il secondo stato comunista del mondo dopo la creazione dell’URSS. In quell’epoca nacque il detto che fino a pochi anni fa si poteva ancora leggere in un mosaico: “Dal giallo suolo feudale, il cavallo salta sui neri terreni del capitalismo verso il meraviglioso suolo rosso del comunismo”.
 
Alcuni analisti segnalano che già allora “i dirigenti mongoli seppero far uso di una politica pragmatica per sfuggire alla pressione cinese e non finire nelle fauci del dragone”. La scomparsa dello spazio sovietico in Mongolia portò una nuova realtà. La trasformazione del sistema politico, la legalizzazione dei partiti e lo svolgimento d’elezioni fecero sì che il nuovo stato ricevesse l’avallo democratico, interessato, della comunità occidentale.
 
L’arrivo della “democrazia e del libero mercato” portò con sé la fine dell’aiuto sovietico e politiche privatizzatrici, procurando una transizione al mercato in cui la scomparsa dei risultati raggiunti in sanità e istruzione andranno di pari passo con l’aumento della povertà, corruzione, degrado ambientale, declino culturale ed una maggiore dipendenza economica dall’estero.
 
Se fino a pochi anni fa, la metà dei quasi tre milioni di abitanti mantenevano una vita legata al nomadismo, negli ultimi tempi questa situazione è rapidamente cambiata. La grave situazione creata dalla scomparsa dell’URSS insieme ad un susseguirsi di inverni molto freddi, hanno spinto il nomadismo verso il declino. La migrazione della popolazione verso la capitale ha avuto delle conseguenze negative, perché molti non ne hanno tratto alcun beneficio.
 
Alcuni reportage sensazionalistici occidentali ci hanno mostrato la dura vita dei bambini di strada di Ulaanbaatar, ma gli stessi media non fanno lo stesso, per esempio, con gli homeless a Londra o altre grandi città europee. Attualmente, sono tanti quelli che cercano di arricchirsi rapidamente, e se è vero che ci riescono in pochi, la stragrande maggioranza della popolazione non ricava nulla di buono dalla nuova situazione. Di fatto, i dati che riportano alcune agenzie internazionali segnalano con preoccupazione che in Mongolia oggi vive in povertà “tra un terzo e la metà della popolazione”.
 
Il cosiddetto “libero mercato” ha fatto bene a pochi e male a tutti gli altri. Quelli che difendono a spada tratta le bontà (?) di questo sistema e ne godono i frutti, sono gli stessi che in tempi di vacche magre reclamano l’intervento della stato per salvare i loro benefici. La distanza fra ricchi e poveri è ogni giorno più grande, e nella capitale ciò è abbastanza visibile. Come dice una donna che vive nei sobborghi capitolini: “la nostra vita durante il comunismo era buona, ma il capitalismo ci ha lasciato senza niente. Il governo non fa nulla per aiutarci”.
 
I fatti recenti, definiti “le maggiori proteste politiche in Mongolia dal 1990”, e la dichiarazione del primo stato di emergenza da quella data, sono il riflesso della frustrazione di buona parte della popolazione, e soprattutto la dimostrazione del fatto che le due formazioni politiche più importanti del paese, il Partito Popolare Rivoluzionario Mongolo (PPRM) e il Partito Democratico Mongolo (PDM) non hanno il polso della situazione.
 
Le votazioni legislative dello scorso 29 giugno, definite “libere e pulite” da osservatori internazionali, hanno confermato la vittoria del PPRM e le denunce di manipolazioni da parte dell’opposizione (PDM). Questi ultimi hanno fallito a causa di divisioni interne e della presenza di partiti minoritari e indipendenti, ottenendo una dispersione di voti che invece non ha subito il PPRM.
 
Il PPRM, erede o continuatore del partito che si formò su base sovietica, si è evoluto parallelamente ai cambiamenti avvenuti nel paese ed ha trasformano la sua ideologia; ora si definisce socialdemocratico e dal 2003 fa parte dell’Internazionale Socialista. Ma mentre dice di identificarsi con l’ideologia di Tony Blair, continua ad avere gli stessi dirigenti di decenni fa.
 
Il PDM pretende di presentarsi come la “alternativa democratica”, ma senza dubbio, i programmi d’entrambi i partiti non differiscono molto dai pilastri di base. La differenza maggiore, sebbene sfumata, si trova a proposito della partecipazione dello stato allo sfruttamento delle risorse naturali del paese. La scoperta di giacimenti d’oro, rame e carbone, soprattutto nelle zone centrali e del sud del deserto del Gobi, hanno attirato l’attenzione di interessi stranieri.
 
Il settore minerario è la maggiore industria mongola, e la decisione che si prenderà in merito condizionerà il futuro della popolazione. In questo conteso, certi politici cercano una maggior partecipazione dello stato nella concessione delle licenze, mentre altri (in cambio di succulenti assegni) preferiscono dare via libera all’intervento dei giganti del settore minerario. Al momento sono interessati alla Mongolia importanti imprese minerarie straniere, come le canadesi Ivanhoe Mines e Rio Tinto, che stanno manovrando per ottenere lo sfruttamento del rame di Oyu Tolgoi.
 
La cosiddetta transizione in Mongolia può confermare in futuro i pronostici più pessimisti. Dopo la “liberalizzazione” sono state aperte le porte agli interventi stranieri, alla “deregulation” del mercato del lavoro, alle privatizzazioni su piccola e grande scala, allo smantellamento dello stato di benessere in materia di sanità, istruzione e pensioni, ed anche ai politici e oligarchi corrotti, e sopra ogni cosa, all’influenza di aziende statali e imprenditoriali straniere.
 
E tutto a costo della disoccupazione e impoverimento della popolazione, insieme a un insensato sfruttamento delle ricchezze naturali del paese. Al momento sembra che le acque si siano tranquillizzate, ma sarà questione di tempo, e nuove ondate faranno saltare l’equilibrio di questa zone asiatica.