CARTOLINE
DALL'INFERNO: testimonianze dalla Palestina
Da cooperanti italiani
testimoni oculari della tragedia. 9 aprile 2002 carissimi
tutti, sono le 17 e sono appena rientrata da Nablus. Siamo partiti alle
5 di questa mattina, 12 ONG internazionali di aiuti umanitari (tra cui
tre italiane, il CISS di Palermo, il GVC di Bologna e Movimondo di Roma)
con tre camion di alimenti e medicinali. Un funzionario del consolato
francese ci ha accompagnato garantendoci una parziale copertura
diplomatica. Da ieri l'esercito israeliano era stato informato che
avremmo tentato di far valere le convenzioni internazionali e di
accedere alla zona di Nablus per soccorrere la popolazione civile. Con
noi sono partiti anche molti giornalisti. Alle 8 siamo riusciti a
superare il primo posto di blocco, appena fuori Gerusalemme. Lungo la
strada per Nablus (quella che fanno i coloni ovviamente, di passare per
i villaggi palestinesi neanche a parlarne perche' sono tutti sigillati)
non si vede neanche una macchina, solo veicoli dell'esercito e autobus
blindati dei coloni. Di palestinesi neanche l'ombra. Alle 10 siamo sotto
Nablus. La trattativa per entrare e' estenuante. A renderla ancora piu'
drammatica le urla dei coloni dell'insediamento vicino al posto di
blocco che ci gridano "assassini". Una signora anziana, colona, si
avvicina urlandoci di andare via. "Scusi ma lei dove e' nata?" "In
Russia". Le obietto: "E i palestinesi di Nablus dove sono nati?" Esula
eci dice: "Studiate la storia, dovete studiare la storia, questa terra
e' nostra, da sempre, ce l'ha data Dio". Il rapporto tra storia e Dio
sarebbe da approfondire ma la signora e' stata allontanata dai soldati.
Finalmente ci hanno dato l'autorizzazione ad entrare; pero' da soli,
senza giornalisti. Ad esser sinceri non ci sembrava vero, davvero
possiamo entrare? Prima solo i camion e due macchine, noi insistiamo che
vogliamo andare tutti. Ci lasciano entrare tutti, tranne i giornalisti.
L'ingresso a Nablus e' l'ingresso all'inferno. Le strade sono state
divelte dai bulldozer e dai carri armati. Al centro grandi buche per
raggiungere le condotte dell'acqua e e i cavi elettrici e tagliar tutto.
Tutte le macchine parcheggiate lungo i marciapiedi sono state
schiacciate contro i muri; le saracinesche dei negozi sono state in gran
parte fatte saltare. Passiamo una moschea rasa al suolo. Le tapparelle
abbassate delle case cominciano ad alzarsi, le persone si sporgono e ci
salutano. Siamo i primi civili ad entrare da quando e' iniziata
l'occupazione. Il coprifuoco e' totale, da 5 giorni. Ci salutano,
qualcuno ai piani bassi osa uscire e correrci incontro. Le donne
chiedono cibo piangendo. Dopo aver passato il cimitero, neanche quello
risparmiato dai carri armati, arriviamo all'ospedale della Red Crescent
che e' il nostro obiettivo. Ci accolgono prima con sorpresa poi con
gioia. Raccontano che il vero problema e' il coprifuoco. Ad oggi hanno
raccolto 51 morti per le strade ma tutte le volte che escono gli sparano
addosso. Anche quando hanno l'autorizzazione dell'esercito israeliano.
Non sanno quanti morti ci sono ancora soprattutto nelle case, per non
parlare dei feriti. Ma anche i malati non possono muoversi. Sono
preoccupati per quelli che hanno bisogno di dialisi. Ci raccontano che
hanno trasformato la moschea centrale della citta' in ospedale da campo,
ma il problema ora e' raggiungerla, e rifornirla. Nel frattempo in
citta' vecchia riprendono gli scontri. Noi siamo a circa un chilometro
di distanza, si vede il fumo, si sente l'artiglieria. Non si ha idea di
cosa succeda davvero li' dentro, di quanta gente stia combattendo, di
cosa succeda nelle case. Non possiamo aspettare oltre. La situazione sta
peggiorando . Gli elicotteri cominciano a sorvolare la citta', si teme
un bombardamento. Cominciamo a scaricare i camion, a mano. In tutto
siamo una trentina di persone e ci vuole piu' di un'ora. Siamo qui noi
delle ONG, senza giubbotti anti proiettile, senza passaporto
diplomatico, con le nostre jeep con targa israeliana. Abbiamo portato
briciole ad una citta' di 200 mila abitanti assediata. Sento tutto il
peso della nostra inutilita', eppure, dopo giorni di frustrazione, sono
felice di scaricare riso e zucchero. All'uscita si ripassano i luoghi
sconvolti, i ricordi della bella citta' adagiata sui due fianchi della
valle, della antica Neapolis dal meraviglioso centro storico, si
confrontano con la devastazione di oggi. Rispondiamo ai saluti dei bimbi
dalle finestre. I soldati israeliani del primo blocco neanche ci
fermano. Al secondo ci chiedono se abbiamo avuto problemi. Nessuno, a
parte la nostra coscienza. All'arrivo a Gerusalemme siamo comunque
soddisfatti, e ci lasciamo con una promessa, si rifa' appena possibile,
a Betlemme e Jenin. Carla Benelli (Ong CISS- Palermo)
==================================== 9 aprile 2002 Voglio rendervi
partecipi. Oggi sono entrato a Nablus con un convoglio di ONG
internazionali ed il Consolato Francese (gli italiani non sono voluti
venire) per fare una distribuzione di cibo e medicine ai civili chiusi
nella citta'. L'operazione e' riuscita perfettamente senza problemi:
siamo entrati con 15 macchine piu' quella del consolato francese
(grandi!) ed abbiamo scaricato il tutto all'ospedale della Croce rossa
Locale. Vi prego non ascoltate i telegiornali ed i media, dove si dice
che gli israeliani si stanno difendendo dai "terroristi" .Tutte balle!
Quello che ho visto e' una citta' completamente distrutta e la gente e'
chiusa in casa spesso in una sola stanza con feriti e/o cadaveri da 5 gg
almeno ed i soldati israeleiani, in barba ad ogni convenzione
internazionale violando tutti i diritti umani possibili, non ne
consentono il recupero. Le ambulanze vengono quasi sempre fermate. La
Croce rossa internazionale e quella palestinese che ha fatto base nella
citta' non puo' lavorare e muoversi per andare a prendere i feriti,
costretti a morire per le strade. Spesso gli sparano addosso. La strada
di ingresso della citta' e' tutta distrutta dai carri che per "dispetto"
hanno abbattuto tutti i pali della luce e distrutto tutte le macchine.
Il palazzo governativo a Nablus e' stato distrutto dalle bombe e ci sono
4 carrarmati fermi davanti. Mentre noi stavamo all'ospedale ci sono
stati scontri violenti nella citta' e abbiamo sentito spari e espolsioni
nel centro della citta'. Se questro e' quello che bisogna fare per
prendere qualche "terrorista" come lo chiamano loro (gente in realta'
che non ha altri modi di difendersi da una vita di occupazione, soprusi
umiliazioni e quant'altro!) credo proprio che il fine non giustifichi i
mezzi. E' come se il nostro governo decidesse di radere al suolo le
citta' del sud per arrestare i mafiosi! Quindi occhio alla penna con le
notizie e cercate tutti di avere un poco di sale in zucca
nell'interpretarle, smepre che vogliate credere alla mia testimonianza.
Con il nostro convoglio comunque c'erano anche giornalisti e speriamo
documentino realmente quanto visto. Dopo di noi e' passato un gruppo di
giornalisti, non so se autorizzati o meno, a cui gli israeliani hanno
sparato ed uno e' stato ferito gravemente. Un saluto a tutti ed a
presto. E chi volesse venire a documentare il tutto personalmente e' il
benvenuto. Leo (Ong Movimondo-Roma)
====================================== 13 aprile 2002 carissimi tutti,
il messaggio che ho inviato qualche giorno fa ha avuto un impatto ben al
di la' di quanto mi aspettassi. Ho ricevuto numerosissimi messaggi da
amici che non sentivo da tanto tempo, grazie a quelli di voi che lo
hanno fatto circolare in modo tanto diffuso e a testimonianza di quanta
voglia ci sia di sapere che cosa succede in questo brutto posto. Ve ne
invio un altro, scritto con molta tristezza a chiusura di un giorno a
Jenin. Come ci eravamo ripromessi siamo riusciti di nuovo ad organizzare
un convoglio di aiuti umanitari, questa volta in direzione di Jenin. Le
notizie che arrivano dalla citta' e in particolare dal campo profughi
nel suo interno, sono sotto l'attenzione di tutti, o almeno di coloro
che seguono con sincerita' l'aggravarsi quotidiano del conflitto. Jenin
e' sotto il tiro dell'esercito israeliano e del coprifuoco ormai da 10
giorni. Le agenzie internazionali parlano di gravissima crisi
umanitaria, non si conoscono le condizioni di vita della popolazione e
quelle rarissime immagini che sono riuscite a filtrare la cortina di
ferro imposta dagli israeliani ci fa pensare al peggio. Anche questa
volta si parte alle 5 di mattina. Jenin e' all'estremo nord della
Cisgiordania, un viaggio che in un periodo normale avremmo percorso in
due ore. Questa volta siamo costretti a fare continue deviazioni e
procedendo lentamente dietro ai camion prevediamo di impiegare almeno 5
ore. Le organizzazioni non governative umanitarie coinvolte sono piu' o
meno le stesse della volta scorsa, quello che e' aumentato sono gli
aiuti, partiamo con 5 camion e 26 jeep. Questa volta ad accompagnarci il
Consolato italiano e l'Unione europea. Non partecipano alle trattative
con l'esercito israeliano, restano indietro, pronti ad intervenire in
caso di bisogno di assistenza diplomatica (anche se da queste parti
molto spesso anche questa e' ininfluente). Lungo la strada della valle
del Giordano veniamo bloccati tre volte. Ma sempre riusciamo a passare.
Finalmente raggiungiamo il posto di blocco di Jenin dal nord. Jenin e'
proprio sul confine. Le prime case della citta' si vedono perfettamente
dai villaggi arabi all'interno di Israele, divisi da Jenin solo da due
piccole colonie ebraiche che impediscono la contiguita' territoriale.
Malgrado i tanti blocchi che abbiamo trovato lungo la strada, l'attesa
al posto di blocco principale prima di rientrare in Cisgiordania e'
relativamente breve; sara' per le notizie drammatiche che si stanno
diffondendo sulla condizione della popolazione civile o meglio per
l'incontro che proprio in queste ore il sottosegretario di stato
americano Colin Powell sta tenendo con i responsabili delle agenzie
umanitarie a Gerusalemme. L'attesa e' molto diversa dalla volta scorsa,
quando al posto di blocco di Nablus i coloni israeliani ci gridavano
"assassini". Qui incontriamo un gruppo di rappresentanti delle comunita'
palestinesi che vivono all'interno di Israele (gli arabi del 1948 come
si dice qui). Sono giorni che manifestano al posto di blocco. Hanno
raccolto una incredibile quantita' di aiuti, alcuni sono riusciti anche
a farli passare anche se gli israeliani glieli fanno lasciare appena al
di la' del posto di blocco e non si sa se e come avvenga la
distribuzione. Ci chiedono aiuto per trasportare le merci all'interno,
si scambiano numeri di telefono e suggerimenti. Una persona si avvicina
alla nostra macchina "avete tutto il nostro rispetto" ci dice, e si
allontana piangendo. Non riusciamo neanche a rispondergli, per dirgli
cosa poi? Siamo passati, come sempre senza giornalisti e, a differenza
della volta scorsa, senza macchine fotografiche o telecamere che ci
vengono confiscate. Subito dentro vediamo sulla sinistra i camion di
aiuti di cui ci hanno parlato i palestinesi dell'interno di Israele.
Sono tutti carichi, saranno rimasti cosi' da quando sono entrati o sono
altri? Ci resta il dubbio. Dobbiamo passare un ulteriore posto di
blocco, a fianco al campo militare. Numerosi carri armati sono in
deposito, i cannoni puntati verso di noi. In lontananza, vediamo altri
carri armati che escono dalla citta' dirigendosi verso ovest. Dalla
radio abbiamo la notizia che l'esercito israeliano, in risposta agli
appelli al ritiro che stanno arrivando da tutto il mondo, sta occupando
una serie di villaggi nei dintorni. L'ingresso alla citta' e molto
diverso da quanto ci aspettavamo, e da quanto abbiamo visto a Nablus.
Non ci sono segni maggiori di distruzione, solo qua e la' i segni dei
cingoli dei carri armati sulla strada, del resto gia' sterrata. Ai lati
le case sembrano deserte, nessuno questa volta ci osserva dalle
finestre, non c'e' segno di vita, il silenzio e' totale, un silenzio che
sa di paura. Tutta la citta' e' senza luce e senza acqua dal giorno
dell'occupazione. Il posto dove dobbiamo depositare le merci e'
all'ingresso della citta', dal nostro lato, e arriviamo velocemente. Il
campo profughi si intravede sulla collina di fronte ma e' troppo lontano
per distinguere qualcosa con esattezza. Come da accordi presi con gli
organizzatori del convoglio non ci allontaniamo. Qui pero' le persone
escono dalle case, il coprifuoco non sembra rigido e percorriamo
tranquillamente a piedi la distanza tra il centro di accoglienza dove
portare gli aiuti e i magazzini che sono a qualche centinaio di metri.
Il centro di accoglienza e' in effetti una scuola. Vi sono stipati nei
tre piani piu' di 800 persone. Senza luce e senza acqua, senza nessun
sostegno. Qualche coperta buttata per terra. I nostri sono i primi
materassi che arrivano. Ma la sproporzione tra il bisogno e quello che
e' disponibile e' tale che c'e' la corsa a farlo proprio, e non c'e'
nessuno in grado di occuparsi della distribuzione. Ci sono donne,
bambini e uomini molto anziani. Ci raccontano di essere tutti sfollati
dal campo profughi. Nel campo non c'e' piu' nessuno dei suoi 15 mila
abitanti. Sono rimasti solo i morti, ci dicono, ma gli sporadici spari
che si sentono ci fanno pensare che esiste ancora una resistenza,
seppure debolissima. Dove sono andati gli abitanti? Qui, in altre
scuole, negli edifici del comune, presso le famiglie che ancora hanno
una casa. I dati ufficiali delle Nazioni Unite (responsabili del campo
profughi) dicono che sono 3 mila gli abitanti di case distrutte nel
campo. E gli uomini? Uccisi, arrestati, evacuati nei villaggi limitrofi.
Sappiamo da fonti giornalistiche che nel villaggio di Rumana sono
arrivati 500 palestinesi da Jenin, in mutande e scalzi, rilasciati in
questo stato dopo essere stati arrestati nel campo profughi. Nella
scuola sono molte le donne e i bambini che ci parlano di mariti, padri,
fratelli, uccisi sotto i loro occhi. Una donna mi avvicina, lo sguardo
duro. Mi dice di andare nel campo a vedere se suo marito e' ancora vivo.
Lei e' stata evacuata quattro giorni fa, suo marito e' stato legato, in
ginocchio per terra davanti casa, insieme ad altri 40 uomini. Una sua
vicina arrivata ieri alla scuola le ha detto che era ancora li', nella
stessa posizione, senza cibo ne' acqua. Le dico che non posso andare,
che il campo e' chiuso a tutti, anche alla Croce rossa e alle Nazioni
Unite, che ci sono i cecchini che sparano verso chiunque tenti di
avvicinarsi. Mi risponde: "e allora che sei venuta a fare?. Non ho
bisogno della tua acqua". Anche un gruppo di tre ragazze giovanissime mi
rimprovera. Una ha perso il padre, le altre non so, non ho il coraggio
di chiedere. Tutte sono senza casa. Mi dice anche lei "non voglio aiuti,
mi puoi ridare mio padre? mi puoi dare giustizia? Ma non ho risposte,
anzi per quello che posso immaginare pensando a come sono andate le cose
per i palestinesi da piu' di cinquanta anni ad oggi, non ci sara'
giustizia per questa gente. Deir Yassin con i suoi "solo" 230 morti
scateno' la paura e l'esodo dei palestinesi. La storia si ripete. Ora
c'e' un filo rosso che lega il massacro di Jenin ai massacri nei campi
profughi di Sabra e Chatila. Si tratta di un uomo, oggi ancora piu'
potente di allora. Nessuno sembra avere il coraggio o la voglia di
fermarlo. E allora suggeritemi voi cosa dire a quelle ragazze, come
convincerle che esiste ancora la speranza di un percorso di pace. Io
l'ho persa. Carla Benelli (Ong CISS- Palermo)