Ugo Giannangeli *
L’udienza
Rischiamo di arrivare tardi al processo contro Marwan Barghouti,
tanto è intenso il traffico da Gerusalemme, ove alloggiamo, a Tel Aviv, sede
del Tribunale.
Ci accompagna un giovane collaboratore dell’avv. Boulous che parla bene la
lingua italiana avendo studiato, come moltissimi palestinesi, in Italia. Si
rivelerà utilissimo in aula per la traduzione dall’ebraico che ci consentirà di
seguire con una certa consapevolezza oltre quattro ore di udienza.
All’ingresso del Tribunale troviamo una situazione da check-point: tutti
bloccati a un unico metal detector, con un ragazzino della Sicurezza che dà
disposizioni.
Mostriamo i passaporti, i tesserini di avvocato e la lettera di Boulous che ci
accredita come “osservatori”: non gliene frega niente, tutti in fila. Poi
arriva un altro ragazzino e con lui passiamo.
Non ci stupiamo perché conosciamo da anni l’arbitrarietà che governa in Israele
e in Palestina la vita dei palestinesi e l’attività di coloro che collaborano
con loro.[1]
Entriamo in aula. Oggi sono previste due udienze nella stessa mattina: la
prima, avanti al Tribunale composto da tre giudici, tratta il merito (cioè la
fondatezza o meno delle accuse); la seconda, avanti a un Tribunale monocratico
(un solo giudice) tratta quelle che noi chiamiamo le questioni preliminari,
prima fra tutte la giurisdizione di Israele su Barghouti, membro del Consiglio
legislativo palestinese. A me sembra assurdo che si tratti il merito senza
avere ancora risolto le questioni preliminari: è vero che è un processo in cui
tutto è già scritto, come in tutti i processi politici, ma, vivaddio, almeno le
apparenze!
Entra in aula Barghouti, le manette lo legano a un poliziotto. Apparentemente
sta bene: piccolo, vivace, molto dimagrito rispetto alle immagini dell’arresto
del 14-4-02. Due occhi neri che seguono tutto e ben presto ci individuano tra
il pubblico. Fa tutto da solo perché nel processo di merito non vuole difensori
(è consentita l’autodifesa, diversamente che in Italia).
Barghouti parla e comprende l’ebraico, imparato nelle carceri israeliane.
L’aula è piccola e contiene circa 70 persone; noi siamo 7 francesi, 5 italiani,
1 spagnola e due statunitensi. Nelle file avanti a noi alcuni familiari di
vittime israeliane. Barghouti interviene più volte, talvolta anche
interrompendo il rappresentante della pubblica accusa (il nostro P.M.). Il
clima però è rilassato, si capisce che non è una udienza importante; il
processo viene rinviato al 19-1-03.
Uscendo, Barghouti in inglese ci ringrazia per la nostra presenza e la nostra
solidarietà.
Tutto cambia nella seconda udienza che inizia poco dopo; si capisce subito che
qui lo scontro è aspro perché le questioni giuridiche nascondono tutte
questioni politiche: se abbia Israele il potere di giudicare un membro del
Consiglio legislativo palestinese; se sia legale l’arresto di Barghouti a
Ramallah, in piena zona A (e cioè sotto l’esclusivo controllo palestinese); se
sia legale la sua traduzione e la detenzione in Israele; la sua libertà in
corso di processo. La detenzione in un carcere sito in Israele, tra l’altro, fa
sì che la moglie e i figli non possano andare a fargli visita perché non
possono entrare in Israele.
Si schiera il collegio difensivo: Boulous, Shkeirat e il giovane ebreo
ortodosso Leibowitz nipote del noto filosofo, (non interverrà spesso ma già
solo la sua presenza nel collegio di difesa è significativa ed importante; non
a caso frequenti sono state le aggressioni da lui subite ad opera di israeliani
all’uscita dal Tribunale). Sono presenti fuori dall’aula TV e giornalisti.
Barghouti fa un intervento lungo ed appassionato sul concetto di terrorismo:
purtroppo la polizia presente numerosa in aula impedisce al pubblico di parlare
e quindi anche la traduzione dall’ebraico del collega di Boulous mi arriva
molto lacunosa. Ricorre spesso una parola che poi scopriremo significare
occupazione.
Discutono a lungo avvocati e accusa. Il processo viene rinviato al 12/12 per le
decisioni del Tribunale sulle varie questioni trattate. La sera la TV dirà che
Barghouti ha avuto molto spazio a disposizione. Ci piace pensare che forse è
anche un po’ merito della nostra presenza.
Si ripropone, però, l’antico dilemma: non contribuiamo, con la nostra presenza,
ad accreditare la legalità formale di un rito che è invece, e ben lo sappiamo,
mera finzione?
La sera saremo tutti ospiti di Boulous a cena ed avremo una risposta che ci
tranquillizza: a lungo hanno valutato le strategie processuali, inclusa la
presenza in aula di Barghouti, quella dei suoi difensori ed anche quella di
eventuali osservatori internazionali, ben soppesando i pro e i contro, e infine
hanno deciso a favore della presenza degli osservatori.
Chi meglio di loro può valutare? Cadono i nostri dubbi e ci rilassiamo con un
narghilè dopo una giornata di grande tensione.
L’
“imputato”
Marwan
Barghouti è nato nel 1959 in un villaggio del distretto di Ramallah; è sposato
con Fatwa (intenso e applauditissimo il suo intervento il 7.11.02 al Social
Forum Europeo di Firenze) e ha quattro figli (Marwan non vede la famiglia dal
giorno dell’arresto: si è detto della impossibilità di visite in carcere ma
anche in Tribunale è impossibile giungere perché Fatwa viene bloccata al check
point di Kalandia).
Laureatosi all’Università di Bir Zeit, è membro del Consiglio legislativo
Palestinese; membro della Commissione legislativa e di quella politica; membro
del Consiglio rivoluzionario del Movimento Al Fatah dalla Conferenza del 1989 e
segretario generale di Al Fatah in Cisgiordania.[2]
Ha sempre creduto in una soluzione politica del conflitto
Palestinese-Israeliano basato sulla cessazione dell’occupazione israeliana e
sulla costituzione di uno Stato indipendente palestinese a fianco dello Stato
di Israele.
E’ stato uno dei politici più attivi nell’iniziare e nel proseguire il dialogo
con Israele; frequenti sono stati i suoi incontri con membri della Knesset, il
parlamento israeliano, alcuni dei quali sono stati ministri nel governo Sharon.
E’ stato catturato il 14.4.02 durante la rioccupazione di Ramallah. Accreditate
voci sostengono che, in realtà, egli doveva essere ucciso in quella occasione
(sono oltre 90 gli omicidi mirati di dirigenti politici palestinesi dall’inizio
della seconda Intifada); la sua reazione quando ha compreso che stavano minando
la sua casa per farla esplodere con lui dentro ha costretto l’esercito a
limitarsi alla cattura.
E’ detenuto attualmente nella sezione di isolamento del carcere di Al-Ramleh,
dopo essere transitato in vari carceri di massima sicurezza. Nei primi mesi di
detenzione (per circa 100 giorni) è stato interrogato anche 18 ore al giorno e
ha subito varie forme di tortura, in particolare lo shabeh (il detenuto è
costretto a sedere su una piccola sedia inclinata in posizioni contorte per
lunghi periodi).[3]
Considerati il comportamento in udienza e la sua linea processuale (tramutare
il processo in un attacco all’occupazione israeliana [4])
non sembra che questi metodi abbiamo dato risultati. Peraltro Marwan ben
conosceva già le prigioni israeliane per avervi trascorso molti anni; è stato
anche espulso per oltre 7 anni dalla sua terra.
Marwan è sempre stato a favore del negoziato ma anche per il diritto alla
resistenza di fronte all’occupazione e alla continua annessione di terre, con
il solo limite del rifiuto per le azioni contro civili compiute in Israele.[5] Marwan, per la sua storia limpida e coerente di dirigente
politico, riscuote grande consenso ed è molto popolare in Palestina.
Sicuramente sarà ripresentato alle prossime elezioni politiche palestinesi
(ammesso e non concesso che si riuscirà mai a farle: dovevano svolgersi a
gennaio, ora sono state rinviate a maggio ma finché permangono l’occupazione
militare, il blocco della circolazione e il coprifuoco è impensabile che
possano svolgersi. Però Israele continua a proclamare di volere il rinnovo
della dirigenza politica dell’ANP!).
Dall’8.1.03 Barghouti è stato rimesso in isolamento. Contro questa misura il
24/1 tutti i prigionieri palestinesi hanno protestato con lo sciopero della
fame.[6]
Il processo sta procedendo come da facili previsioni: tutte le eccezioni sono
state respinte; Israele può quindi giudicare Barghouti che resta in stato di
detenzione; il suo arresto a Ramallah e la sua prigionia nello Stato occupante
sono legali.
Il 6 aprile 2003 inizierà la fase dibattimentale del processo: 14 udienze
nell’arco di un mese in cui saranno ascoltati più di cento testimoni. In gran
parte saranno agenti dei servizi segreti e ufficiali delle Forze di sicurezza
israeliane. Riferiranno quanto appreso da fonti confidenziali segrete, di cui
non potrà essere rivelata l’identità per ragioni di sicurezza nazionale.
Forse l’accusa porterà a testimoniare anche qualche prigioniero palestinese: la
miseria in qualche caso, la tortura in qualche altro possono avere indotto a
rendere determinate dichiarazioni. Alla farsa che si andrà a celebrare
giustamente Marwan ha detto che non intende partecipare né si farà assistere da
difensori.
Le questioni poste da questo processo
Non si può che condividere quanto ha detto Marwan al termine dell’ultima
udienza: “Le accuse non mi interessano affatto; questa Corte rappresenta il
potere dell’occupazione; l’Intifada vincerà”.
Ciononostante, per replicare preventivamente a quella che sarà sbandierata come
una ulteriore dimostrazione della democraticità di Israele – una equa sentenza
al termine di un processo giusto – è bene soffermarsi su alcuni aspetti
veramente singolari di questo processo.
a) Intanto, l’accusa
Barghouti è accusato dell’organizzazione di vari atti di terrorismo nella sua
qualità di segretario generale di Al Fatah e di responsabile dell’organizzazione
di autodifesa militante Tanzim. L’atto di accusa, formulato dal Procuratore
dello Stato il 14.8.02, non opera alcuna distinzione tra attentati suicidi e
conflitti a fuoco né tantomeno tra azioni dirette contro l’esercito israeliano
o quelle verso civili.
L’accusa è assolutamente generica e la responsabilità di Barghouti viene
individuata nella sua funzione politica: un caso lampante di teorema
accusatorio politicizzato. Quando l’accusa passa a contestare fatti specifici,
ne individua solo due: l’attacco al ristorante “Sea food market” di Tel Aviv
del 5.3.02 e quello all’Università ebraica Mont Scopus di Gerusalemme del
giugno 2001; nel primo sono morti il palestinese e tre israeliani da lui
pugnalati; nel secondo è morto un monaco greco-ortodosso.
Non solamente gli episodi specifici sono appena due e di relativa gravità, ma
lo stesso ruolo attribuito a Barghouti è irrilevante. Per l’attentato di Tel
Aviv, Barghouti avrebbe parlato telefonicamente con uno degli ideatori
dell’azione, dicendogli di avere appreso dell’attentato dalla televisione e gli
chiederebbe di consultarsi con lui prima di redigere la rivendicazione (punto 8
dell’atto di accusa).
Per l’attentato di Gerusalemme, uno degli esecutori, arrestato, avrebbe
riferito che Barghouti si era dichiarato pronto a procurargli armi per
l’esecuzione di attacchi contro soldati e coloni (punto 9 atto di accusa). E’
facile osservare che, in ordine al primo episodio, nessun ordinamento penale
vigente riuscirebbe ad individuare alcun tipo di responsabilità. In ordine al
secondo episodio, quanto riferito dall’attentatore non ha nulla a che vedere
con un concorso di Barghouti nel reato.
Peraltro, il diritto di resistenza tramite azioni anche armate, purchè non su
territorio israeliano, è sempre stato rivendicato da Barghouti ed è, come si è
detto, sancito dalle Convenzioni internazionali.
b) Quindi, l’arresto di Barghouti e il suo trasferimento nello Stato occupante
L’art. 49 della IV Convenzione di Ginevra pone un divieto imperativo e
inderogabile dei trasferimenti forzati collettivi o individuali dal territorio
occupato in quello della Potenza occupante.
E’ noto che Israele, pur avendo firmato le Convenzioni di Ginevra, ha sempre
negato l’applicabilità della IV Convenzione ai Territori occupati sostenendo
che sono una sorta di terra nullius, non risultando attribuibili ad alcun altro
Stato. Per contrastare questa tesi, è sufficiente ricordare la risoluzione
dell’ONU n. 641 del 30.8.1989 che espressamente ribadisce l’applicabilità delle
Convenzioni di Ginevra “ai territori palestinesi occupati da Israele dopo il
1967, compresa Gerusalemme”.
Recentemente, ha ribadito l’applicabilità anche la Conferenza delle Alte Parti
contraenti della IV Convenzione, svoltasi a Ginevra il 5.12.01. L’illegittimità
dell’arresto e il difetto di giurisdizione di Israele trovano invece sostegno
negli accordi di Oslo del 1993. Da un lato l’OLP riconosceva il diritto dello
Stato di Israele a vivere in pace e sicurezza, rinunciando al terrorismo e ad
altri atti di violenza; dall’altro, Israele riconosceva l’OLP come
rappresentante del popolo palestinese.
L’OLP non costituiva uno Stato ma era un soggetto internazionale di diversa
natura, tipo “movimento di liberazione”; l’Autorità nazionale palestinese ha
successivamente esercitato veri e propri poteri di governo nei Territori
occupati, rappresentando quantomeno uno Stato in formazione.
Ne deriva l’obbligo di Israele di rispettare l’organizzazione di governo
dell’ANP, della quale fa parte indubbiamente, e con un ruolo di primo piano,
Marwan Barghouti. L’arresto (o meglio il rapimento) di quest’ultimo, la sua
detenzione e la sua sottoposizione a processo costituiscono una violazione di
tale obbligo (così conclude anche Fabio Marcelli, primo ricercatore
dell’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR in un suo studio sul
processo Barghouti).
Quando, nel 1995, fu firmato a Washington l’Accordo ad interim destinato a
disciplinare il trasferimento dei poteri dalle autorità israeliane a quelle
palestinesi, la questione della giurisdizione è stata ancor meglio definita: la
giurisdizione palestinese è sancita per tutte le attività compiute nei
Territori occupati, quella israeliana per i crimini commessi fuori dai
Territori o da israeliani nei Territori.
Per la prevista cooperazione fra le due Parti negli affari penali è fatto
obbligo a Israele di richiedere all’Autorità palestinese l’estradizione di un
soggetto ritenuto colpevole di crimini se presente nel Territorio occupato. Nel
caso di Marwan questa disposizione è stata violata nei fatti.
Nel caso delle migliaia di prigionieri la violazione è sancita dall’ordinanza
militare n. 1500 del 29.3.2002 (inizio operazione “Muraglia difensiva”) che dà
ai soldati e poliziotti israeliani il potere di arrestare qualunque palestinese
per ragioni di sicurezza.
Conclusioni
E’ avvertita come sempre più urgente la necessità di distinguere, con criteri
rigorosi, tra resistenza e terrorismo. In mancanza di una siffatta definizione,
il “terrorismo” si rivela un pretesto buono per tutti gli usi, in particolare
per colpire oppositori politici o per piegare la resistenza di interi popoli di
fronte all’oppressione.
Non a caso gli USA si sono sempre opposti a una definizione puntuale
tecnico-giuridica di atto terroristico. Nel caso che ci occupa (la lotta del
popolo palestinese e dei suoi dirigenti come Marwan Barghouti) nessun dubbio
può sussistere: è lotta legittima sia perché guerra di liberazione nazionale
sia perché esercizio di legittima difesa ex art. 51 Carta delle Nazioni Unite.
Dall’altra parte si ha un uomo, Sharon, e un partito, il Likud, che hanno
stravinto le recenti elezioni con un risultato significativo
dell’imbarbarimento della società israeliana, che hanno ufficialmente
dichiarato che l’azione denominata “Muraglia difensiva” è la prosecuzione della
guerra del 1948; che Camp David e Oslo sono morti.
Molti in Palestina temono che si voglia realizzare il “transfer”, la
deportazione in massa, magari in occasione della prossima aggressione contro
l’Iraq.
In questo contesto si porta a giudizio Marwan Barghouti. Marwan è uomo della
resistenza palestinese e del dialogo con Israele: due buone ragioni per
eliminarlo.
Non a caso il processo nasce da una esecuzione mancata.
*Ugo Giannangeli, membro dell’associazione “Avvocati contro la
guerra”, ha fatto parte, in più occasioni dal 1989 in poi, di delegazioni di
giuristi (e non solo) che hanno svolto la loro attività in Palestina ed in
Israele.
[1] E’ frequente sentir dire che ormai la Palestina è un grande
carcere, tra coprifuoco, occupazione militare e check-points che la dividono in
oltre 220 aree isolate. In realtà è peggio: nelle carceri vi sono delle norme,
per quanto assurde ed inique, che regolamentano e scandiscono la vita
quotidiana. Qui no: i check points sono anche mobili (bastano due o tre carri
armati messi di traverso) e quindi ti può capitare di prevederne due e di
trovarne cinque così che la meta diventa irrangiungibile; oppure sai alle 9 di
mattina che il coprifuoco è revocato sino alle 12: esci di casa per fare
acquisti o per una visita medica o per vedere un amico o per riparare l’auto,
salvo scoprire alle 10 che le tre ore sono diventate due e alle 11 le strade
debbono essere deserte (vittime palestinesi si sono avute anche in queste
situazioni e a luglio a Ramallah ci hanno sparato contro perché eravamo ancora
in strada nell’ora non più concessa).
[2] L’atto di accusa così lo descrive: “Capo delle
organizzazioni terroristiche Fatah, Tanzim e Brigate Martiri di Al Aqsa nella
regione di Giudea e Samaria”
[3] Per tutto questo periodo non sono stati consentiti incontri
con i difensori. Nel settembre 1999 l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha
stabilito che la tortura e i maltrattamenti, utilizzati normalmente dal GSS,
Servizi di sicurezza generale, durante gli interrogatori erano illegali.
Secondo Amnesty International il GSS dopo questa decisione ha cessato il
ricorso a tecniche quale il tiltull (violento scuotimento), lo shabeh, il
gambraz (il detenuto è costretto ad accoccolarsi per lunghi periodi), la
privazione del sonno. Non se ne sono ancora accorti Marwan e gli altri 8000
detenuti palestinesi tuttora sottoposti a questi trattamenti.
[4] Marwan ha depositato agli atti del processo una sua memoria
che contiene 54 capi di accusa contro Israele: violazioni di leggi, trattati e
convenzioni internazionali, crimini di guerra e contro l’umanità, espulsioni,
demolizioni di case e di alberi, confisca di terre e colonizzazione, confisca
dell’acqua, violazioni di norme processuali e torture, discriminazioni e
apartheid, distruzione della libertà di informazione, del sistema scolastico,
della libertà di religione, ecc.
[5] Peraltro, il diritto alla resistenza contro l’occupante
mediante azioni anche violente ed armate è sancito dalla Carta delle Nazioni
Unite e della Convenzione di Ginevra. Se invece volessimo fare riferimento alla
definizione sommariamente data, dopo gli eventi dell’11.9.2001, dagli USA e
dalla UE all’azione terroristica – riassumibile in una azione contro civili per
finalità politiche – è difficile affermare che l’operato dell’esercito
israeliano – il prode Tsahal – non rientri in detta nozione.
[6] Ai primi di febbraio il Comitato a sostegno della libertà
di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi (con sede a Ramallah)
ha diffuso un comunicato in cui denuncia l’aggravamento delle condizioni di
detenzione di Marwan dopo l’udienza del 19/1.
Subito dopo l’udienza Marwan è stato tradotto nel carcere di Al-Ramleh; nei due
giorni successivi è transitato per altri tre carceri, sempre in isolamento.
Quindi è stato ricondotto nel carcere di Al-Ramleh e collocato nella sezione
“Jalon”, sezione di totale isolamento, che era stata chiusa nel 1992.
Questa sezione è stata costruita all’epoca del mandato britannico in Palestina;
la struttura è quindi molto vecchia e cadente. La cella di Marwan (n.1) è, come
le altre della sezione, sotto il livello del suolo. E’ molto umida, brulica di
insetti, non c’è circolazione d’aria e non è possibile distinguere il giorno
dalla notte. Marwan è sottoposto a perquisizioni continue (personali e nella
cella) e può uscire per una sola ora, con mani e piedi legati. Il cibo è
fornito attraverso una feritoia nella porta. Il comunicato conclude,
comprensibilmente, denunciando il pericolo di vita di Barghouti.
Da Rosso XXI