www.resistenze.org - popoli resistenti - palestina - 11-03-03

L’Intifada alla sbarra: il processo a Barghouti

Ugo Giannangeli *

L’udienza
Rischiamo di arrivare tardi al processo contro Marwan Barghouti, tanto è intenso il traffico da Gerusalemme, ove alloggiamo, a Tel Aviv, sede del Tribunale.
Ci accompagna un giovane collaboratore dell’avv. Boulous che parla bene la lingua italiana avendo studiato, come moltissimi palestinesi, in Italia. Si rivelerà utilissimo in aula per la traduzione dall’ebraico che ci consentirà di seguire con una certa consapevolezza oltre quattro ore di udienza.
All’ingresso del Tribunale troviamo una situazione da check-point: tutti bloccati a un unico metal detector, con un ragazzino della Sicurezza che dà disposizioni.
Mostriamo i passaporti, i tesserini di avvocato e la lettera di Boulous che ci accredita come “osservatori”: non gliene frega niente, tutti in fila. Poi arriva un altro ragazzino e con lui passiamo.
Non ci stupiamo perché conosciamo da anni l’arbitrarietà che governa in Israele e in Palestina la vita dei palestinesi e l’attività di coloro che collaborano con loro.[1]

Entriamo in aula. Oggi sono previste due udienze nella stessa mattina: la prima, avanti al Tribunale composto da tre giudici, tratta il merito (cioè la fondatezza o meno delle accuse); la seconda, avanti a un Tribunale monocratico (un solo giudice) tratta quelle che noi chiamiamo le questioni preliminari, prima fra tutte la giurisdizione di Israele su Barghouti, membro del Consiglio legislativo palestinese. A me sembra assurdo che si tratti il merito senza avere ancora risolto le questioni preliminari: è vero che è un processo in cui tutto è già scritto, come in tutti i processi politici, ma, vivaddio, almeno le apparenze!
Entra in aula Barghouti, le manette lo legano a un poliziotto. Apparentemente sta bene: piccolo, vivace, molto dimagrito rispetto alle immagini dell’arresto del 14-4-02. Due occhi neri che seguono tutto e ben presto ci individuano tra il pubblico. Fa tutto da solo perché nel processo di merito non vuole difensori (è consentita l’autodifesa, diversamente che in Italia).

Barghouti parla e comprende l’ebraico, imparato nelle carceri israeliane. L’aula è piccola e contiene circa 70 persone; noi siamo 7 francesi, 5 italiani, 1 spagnola e due statunitensi. Nelle file avanti a noi alcuni familiari di vittime israeliane. Barghouti interviene più volte, talvolta anche interrompendo il rappresentante della pubblica accusa (il nostro P.M.). Il clima però è rilassato, si capisce che non è una udienza importante; il processo viene rinviato al 19-1-03.
Uscendo, Barghouti in inglese ci ringrazia per la nostra presenza e la nostra solidarietà.
Tutto cambia nella seconda udienza che inizia poco dopo; si capisce subito che qui lo scontro è aspro perché le questioni giuridiche nascondono tutte questioni politiche: se abbia Israele il potere di giudicare un membro del Consiglio legislativo palestinese; se sia legale l’arresto di Barghouti a Ramallah, in piena zona A (e cioè sotto l’esclusivo controllo palestinese); se sia legale la sua traduzione e la detenzione in Israele; la sua libertà in corso di processo. La detenzione in un carcere sito in Israele, tra l’altro, fa sì che la moglie e i figli non possano andare a fargli visita perché non possono entrare in Israele.
Si schiera il collegio difensivo: Boulous, Shkeirat e il giovane ebreo ortodosso Leibowitz nipote del noto filosofo, (non interverrà spesso ma già solo la sua presenza nel collegio di difesa è significativa ed importante; non a caso frequenti sono state le aggressioni da lui subite ad opera di israeliani all’uscita dal Tribunale). Sono presenti fuori dall’aula TV e giornalisti.

Barghouti fa un intervento lungo ed appassionato sul concetto di terrorismo: purtroppo la polizia presente numerosa in aula impedisce al pubblico di parlare e quindi anche la traduzione dall’ebraico del collega di Boulous mi arriva molto lacunosa. Ricorre spesso una parola che poi scopriremo significare occupazione.
Discutono a lungo avvocati e accusa. Il processo viene rinviato al 12/12 per le decisioni del Tribunale sulle varie questioni trattate. La sera la TV dirà che Barghouti ha avuto molto spazio a disposizione. Ci piace pensare che forse è anche un po’ merito della nostra presenza.
Si ripropone, però, l’antico dilemma: non contribuiamo, con la nostra presenza, ad accreditare la legalità formale di un rito che è invece, e ben lo sappiamo, mera finzione?

La sera saremo tutti ospiti di Boulous a cena ed avremo una risposta che ci tranquillizza: a lungo hanno valutato le strategie processuali, inclusa la presenza in aula di Barghouti, quella dei suoi difensori ed anche quella di eventuali osservatori internazionali, ben soppesando i pro e i contro, e infine hanno deciso a favore della presenza degli osservatori.
Chi meglio di loro può valutare? Cadono i nostri dubbi e ci rilassiamo con un narghilè dopo una giornata di grande tensione.

L’ “imputato”
Marwan Barghouti è nato nel 1959 in un villaggio del distretto di Ramallah; è sposato con Fatwa (intenso e applauditissimo il suo intervento il 7.11.02 al Social Forum Europeo di Firenze) e ha quattro figli (Marwan non vede la famiglia dal giorno dell’arresto: si è detto della impossibilità di visite in carcere ma anche in Tribunale è impossibile giungere perché Fatwa viene bloccata al check point di Kalandia).

Laureatosi all’Università di Bir Zeit, è membro del Consiglio legislativo Palestinese; membro della Commissione legislativa e di quella politica; membro del Consiglio rivoluzionario del Movimento Al Fatah dalla Conferenza del 1989 e segretario generale di Al Fatah in Cisgiordania.[2]
Ha sempre creduto in una soluzione politica del conflitto Palestinese-Israeliano basato sulla cessazione dell’occupazione israeliana e sulla costituzione di uno Stato indipendente palestinese a fianco dello Stato di Israele.
E’ stato uno dei politici più attivi nell’iniziare e nel proseguire il dialogo con Israele; frequenti sono stati i suoi incontri con membri della Knesset, il parlamento israeliano, alcuni dei quali sono stati ministri nel governo Sharon.
E’ stato catturato il 14.4.02 durante la rioccupazione di Ramallah. Accreditate voci sostengono che, in realtà, egli doveva essere ucciso in quella occasione (sono oltre 90 gli omicidi mirati di dirigenti politici palestinesi dall’inizio della seconda Intifada); la sua reazione quando ha compreso che stavano minando la sua casa per farla esplodere con lui dentro ha costretto l’esercito a limitarsi alla cattura.
E’ detenuto attualmente nella sezione di isolamento del carcere di Al-Ramleh, dopo essere transitato in vari carceri di massima sicurezza. Nei primi mesi di detenzione (per circa 100 giorni) è stato interrogato anche 18 ore al giorno e ha subito varie forme di tortura, in particolare lo shabeh (il detenuto è costretto a sedere su una piccola sedia inclinata in posizioni contorte per lunghi periodi).[3]

Considerati il comportamento in udienza e la sua linea processuale (tramutare il processo in un attacco all’occupazione israeliana [4]) non sembra che questi metodi abbiamo dato risultati. Peraltro Marwan ben conosceva già le prigioni israeliane per avervi trascorso molti anni; è stato anche espulso per oltre 7 anni dalla sua terra.
Marwan è sempre stato a favore del negoziato ma anche per il diritto alla resistenza di fronte all’occupazione e alla continua annessione di terre, con il solo limite del rifiuto per le azioni contro civili compiute in Israele.[5] Marwan, per la sua storia limpida e coerente di dirigente politico, riscuote grande consenso ed è molto popolare in Palestina.

Sicuramente sarà ripresentato alle prossime elezioni politiche palestinesi (ammesso e non concesso che si riuscirà mai a farle: dovevano svolgersi a gennaio, ora sono state rinviate a maggio ma finché permangono l’occupazione militare, il blocco della circolazione e il coprifuoco è impensabile che possano svolgersi. Però Israele continua a proclamare di volere il rinnovo della dirigenza politica dell’ANP!).
Dall’8.1.03 Barghouti è stato rimesso in isolamento. Contro questa misura il 24/1 tutti i prigionieri palestinesi hanno protestato con lo sciopero della fame.[6]
Il processo sta procedendo come da facili previsioni: tutte le eccezioni sono state respinte; Israele può quindi giudicare Barghouti che resta in stato di detenzione; il suo arresto a Ramallah e la sua prigionia nello Stato occupante sono legali.
Il 6 aprile 2003 inizierà la fase dibattimentale del processo: 14 udienze nell’arco di un mese in cui saranno ascoltati più di cento testimoni. In gran parte saranno agenti dei servizi segreti e ufficiali delle Forze di sicurezza israeliane. Riferiranno quanto appreso da fonti confidenziali segrete, di cui non potrà essere rivelata l’identità per ragioni di sicurezza nazionale.

Forse l’accusa porterà a testimoniare anche qualche prigioniero palestinese: la miseria in qualche caso, la tortura in qualche altro possono avere indotto a rendere determinate dichiarazioni. Alla farsa che si andrà a celebrare giustamente Marwan ha detto che non intende partecipare né si farà assistere da difensori.

Le questioni poste da questo processo

Non si può che condividere quanto ha detto Marwan al termine dell’ultima udienza: “Le accuse non mi interessano affatto; questa Corte rappresenta il potere dell’occupazione; l’Intifada vincerà”.
Ciononostante, per replicare preventivamente a quella che sarà sbandierata come una ulteriore dimostrazione della democraticità di Israele – una equa sentenza al termine di un processo giusto – è bene soffermarsi su alcuni aspetti veramente singolari di questo processo.

a) Intanto, l’accusa
Barghouti è accusato dell’organizzazione di vari atti di terrorismo nella sua qualità di segretario generale di Al Fatah e di responsabile dell’organizzazione di autodifesa militante Tanzim. L’atto di accusa, formulato dal Procuratore dello Stato il 14.8.02, non opera alcuna distinzione tra attentati suicidi e conflitti a fuoco né tantomeno tra azioni dirette contro l’esercito israeliano o quelle verso civili.
L’accusa è assolutamente generica e la responsabilità di Barghouti viene individuata nella sua funzione politica: un caso lampante di teorema accusatorio politicizzato. Quando l’accusa passa a contestare fatti specifici, ne individua solo due: l’attacco al ristorante “Sea food market” di Tel Aviv del 5.3.02 e quello all’Università ebraica Mont Scopus di Gerusalemme del giugno 2001; nel primo sono morti il palestinese e tre israeliani da lui pugnalati; nel secondo è morto un monaco greco-ortodosso.
Non solamente gli episodi specifici sono appena due e di relativa gravità, ma lo stesso ruolo attribuito a Barghouti è irrilevante. Per l’attentato di Tel Aviv, Barghouti avrebbe parlato telefonicamente con uno degli ideatori dell’azione, dicendogli di avere appreso dell’attentato dalla televisione e gli chiederebbe di consultarsi con lui prima di redigere la rivendicazione (punto 8 dell’atto di accusa).
Per l’attentato di Gerusalemme, uno degli esecutori, arrestato, avrebbe riferito che Barghouti si era dichiarato pronto a procurargli armi per l’esecuzione di attacchi contro soldati e coloni (punto 9 atto di accusa). E’ facile osservare che, in ordine al primo episodio, nessun ordinamento penale vigente riuscirebbe ad individuare alcun tipo di responsabilità. In ordine al secondo episodio, quanto riferito dall’attentatore non ha nulla a che vedere con un concorso di Barghouti nel reato.
Peraltro, il diritto di resistenza tramite azioni anche armate, purchè non su territorio israeliano, è sempre stato rivendicato da Barghouti ed è, come si è detto, sancito dalle Convenzioni internazionali.

b) Quindi, l’arresto di Barghouti e il suo trasferimento nello Stato occupante
L’art. 49 della IV Convenzione di Ginevra pone un divieto imperativo e inderogabile dei trasferimenti forzati collettivi o individuali dal territorio occupato in quello della Potenza occupante.
E’ noto che Israele, pur avendo firmato le Convenzioni di Ginevra, ha sempre negato l’applicabilità della IV Convenzione ai Territori occupati sostenendo che sono una sorta di terra nullius, non risultando attribuibili ad alcun altro Stato. Per contrastare questa tesi, è sufficiente ricordare la risoluzione dell’ONU n. 641 del 30.8.1989 che espressamente ribadisce l’applicabilità delle Convenzioni di Ginevra “ai territori palestinesi occupati da Israele dopo il 1967, compresa Gerusalemme”.
Recentemente, ha ribadito l’applicabilità anche la Conferenza delle Alte Parti contraenti della IV Convenzione, svoltasi a Ginevra il 5.12.01. L’illegittimità dell’arresto e il difetto di giurisdizione di Israele trovano invece sostegno negli accordi di Oslo del 1993. Da un lato l’OLP riconosceva il diritto dello Stato di Israele a vivere in pace e sicurezza, rinunciando al terrorismo e ad altri atti di violenza; dall’altro, Israele riconosceva l’OLP come rappresentante del popolo palestinese.
L’OLP non costituiva uno Stato ma era un soggetto internazionale di diversa natura, tipo “movimento di liberazione”; l’Autorità nazionale palestinese ha successivamente esercitato veri e propri poteri di governo nei Territori occupati, rappresentando quantomeno uno Stato in formazione.
Ne deriva l’obbligo di Israele di rispettare l’organizzazione di governo dell’ANP, della quale fa parte indubbiamente, e con un ruolo di primo piano, Marwan Barghouti. L’arresto (o meglio il rapimento) di quest’ultimo, la sua detenzione e la sua sottoposizione a processo costituiscono una violazione di tale obbligo (così conclude anche Fabio Marcelli, primo ricercatore dell’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR in un suo studio sul processo Barghouti).
Quando, nel 1995, fu firmato a Washington l’Accordo ad interim destinato a disciplinare il trasferimento dei poteri dalle autorità israeliane a quelle palestinesi, la questione della giurisdizione è stata ancor meglio definita: la giurisdizione palestinese è sancita per tutte le attività compiute nei Territori occupati, quella israeliana per i crimini commessi fuori dai Territori o da israeliani nei Territori.
Per la prevista cooperazione fra le due Parti negli affari penali è fatto obbligo a Israele di richiedere all’Autorità palestinese l’estradizione di un soggetto ritenuto colpevole di crimini se presente nel Territorio occupato. Nel caso di Marwan questa disposizione è stata violata nei fatti.
Nel caso delle migliaia di prigionieri la violazione è sancita dall’ordinanza militare n. 1500 del 29.3.2002 (inizio operazione “Muraglia difensiva”) che dà ai soldati e poliziotti israeliani il potere di arrestare qualunque palestinese per ragioni di sicurezza.

Conclusioni

E’ avvertita come sempre più urgente la necessità di distinguere, con criteri rigorosi, tra resistenza e terrorismo. In mancanza di una siffatta definizione, il “terrorismo” si rivela un pretesto buono per tutti gli usi, in particolare per colpire oppositori politici o per piegare la resistenza di interi popoli di fronte all’oppressione.
Non a caso gli USA si sono sempre opposti a una definizione puntuale tecnico-giuridica di atto terroristico. Nel caso che ci occupa (la lotta del popolo palestinese e dei suoi dirigenti come Marwan Barghouti) nessun dubbio può sussistere: è lotta legittima sia perché guerra di liberazione nazionale sia perché esercizio di legittima difesa ex art. 51 Carta delle Nazioni Unite.
Dall’altra parte si ha un uomo, Sharon, e un partito, il Likud, che hanno stravinto le recenti elezioni con un risultato significativo dell’imbarbarimento della società israeliana, che hanno ufficialmente dichiarato che l’azione denominata “Muraglia difensiva” è la prosecuzione della guerra del 1948; che Camp David e Oslo sono morti.

Molti in Palestina temono che si voglia realizzare il “transfer”, la deportazione in massa, magari in occasione della prossima aggressione contro l’Iraq.
In questo contesto si porta a giudizio Marwan Barghouti. Marwan è uomo della resistenza palestinese e del dialogo con Israele: due buone ragioni per eliminarlo.

Non a caso il processo nasce da una esecuzione mancata.




*Ugo Giannangeli, membro dell’associazione “Avvocati contro la guerra”, ha fatto parte, in più occasioni dal 1989 in poi, di delegazioni di giuristi (e non solo) che hanno svolto la loro attività in Palestina ed in Israele.

[1] E’ frequente sentir dire che ormai la Palestina è un grande carcere, tra coprifuoco, occupazione militare e check-points che la dividono in oltre 220 aree isolate. In realtà è peggio: nelle carceri vi sono delle norme, per quanto assurde ed inique, che regolamentano e scandiscono la vita quotidiana. Qui no: i check points sono anche mobili (bastano due o tre carri armati messi di traverso) e quindi ti può capitare di prevederne due e di trovarne cinque così che la meta diventa irrangiungibile; oppure sai alle 9 di mattina che il coprifuoco è revocato sino alle 12: esci di casa per fare acquisti o per una visita medica o per vedere un amico o per riparare l’auto, salvo scoprire alle 10 che le tre ore sono diventate due e alle 11 le strade debbono essere deserte (vittime palestinesi si sono avute anche in queste situazioni e a luglio a Ramallah ci hanno sparato contro perché eravamo ancora in strada nell’ora non più concessa).

[2] L’atto di accusa così lo descrive: “Capo delle organizzazioni terroristiche Fatah, Tanzim e Brigate Martiri di Al Aqsa nella regione di Giudea e Samaria”

[3] Per tutto questo periodo non sono stati consentiti incontri con i difensori. Nel settembre 1999 l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha stabilito che la tortura e i maltrattamenti, utilizzati normalmente dal GSS, Servizi di sicurezza generale, durante gli interrogatori erano illegali. Secondo Amnesty International il GSS dopo questa decisione ha cessato il ricorso a tecniche quale il tiltull (violento scuotimento), lo shabeh, il gambraz (il detenuto è costretto ad accoccolarsi per lunghi periodi), la privazione del sonno. Non se ne sono ancora accorti Marwan e gli altri 8000 detenuti palestinesi tuttora sottoposti a questi trattamenti.

[4] Marwan ha depositato agli atti del processo una sua memoria che contiene 54 capi di accusa contro Israele: violazioni di leggi, trattati e convenzioni internazionali, crimini di guerra e contro l’umanità, espulsioni, demolizioni di case e di alberi, confisca di terre e colonizzazione, confisca dell’acqua, violazioni di norme processuali e torture, discriminazioni e apartheid, distruzione della libertà di informazione, del sistema scolastico, della libertà di religione, ecc.

[5] Peraltro, il diritto alla resistenza contro l’occupante mediante azioni anche violente ed armate è sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e della Convenzione di Ginevra. Se invece volessimo fare riferimento alla definizione sommariamente data, dopo gli eventi dell’11.9.2001, dagli USA e dalla UE all’azione terroristica – riassumibile in una azione contro civili per finalità politiche – è difficile affermare che l’operato dell’esercito israeliano – il prode Tsahal – non rientri in detta nozione.

[6] Ai primi di febbraio il Comitato a sostegno della libertà di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi (con sede a Ramallah) ha diffuso un comunicato in cui denuncia l’aggravamento delle condizioni di detenzione di Marwan dopo l’udienza del 19/1.
Subito dopo l’udienza Marwan è stato tradotto nel carcere di Al-Ramleh; nei due giorni successivi è transitato per altri tre carceri, sempre in isolamento. Quindi è stato ricondotto nel carcere di Al-Ramleh e collocato nella sezione “Jalon”, sezione di totale isolamento, che era stata chiusa nel 1992.
Questa sezione è stata costruita all’epoca del mandato britannico in Palestina; la struttura è quindi molto vecchia e cadente. La cella di Marwan (n.1) è, come le altre della sezione, sotto il livello del suolo. E’ molto umida, brulica di insetti, non c’è circolazione d’aria e non è possibile distinguere il giorno dalla notte. Marwan è sottoposto a perquisizioni continue (personali e nella cella) e può uscire per una sola ora, con mani e piedi legati. Il cibo è fornito attraverso una feritoia nella porta. Il comunicato conclude, comprensibilmente, denunciando il pericolo di vita di Barghouti.
Da Rosso XXI