da Il manifesto 17 settembre
Il grido di Chatila: «Diritto al ritorno»
Per non dimenticare Ventitre anni dopo il massacro
nei campi profughi libanesi di Sabra e Chatila i palestinesi marciano per
rivendicare la loro storia
Stefano
Chiarini
Inviato a Beirut
«Noi siamo qui, con i nostri vivi e i nostri morti, in questo
ventitreesimo anniversario del massacro di Sabra e Chatila e non abbiamo alcuna
intenzione di scomparire dalla scena mediorientale e di rinunciare al nostro
diritto al ritorno e al risarcimento per le proprietà rubateci dagli
israeliani, né alla possibilità di difendere con le armi i nostri campi. La
destabilizzazione del Libano e della Siria e la stessa risoluzione 1559 puntano
anche loro a raggiungere il risultato che si proponeva Ariel Sharon, cancellare
i campi, cancellare l'esistenza politica di milioni di profughi palestinesi,
costringerci ad emigrare sempre più lontano dalla Palestina, ma noi saremo
sempre, come dice una nostra poesia, come vetro nella gola dei nostri
oppressori e dei loro complici». Abu Mohammed, sessantacinquenne maestro
elementare, ci viene incontro zoppicando ma con la determinazione di un
giovanotto. Davanti a noi, dall'altra parte della strada per l'aeroporto c'è il
palazzo color crema, a non più di cento metri da Chatila, dal quale i comandi
israeliani, gli ufficiali delle Forze Libanesi come Elia Hobeika, gli uomini
dei servizi israeliani, e naturalmente Ariel Sharon, allora ministro della
difesa e i suoi generali avrebbero seguito passo passo lo svolgersi del massacro
iniziato nel pomeriggio del 16 settembre e terminato, ma solo in parte, sabato
diciotto.
Le vittime furono oltre 3.000, in gran parte palestinesi, ma anche libanesi e
immigrati di vari paesi arabi. Poche ore prima, la sera del 14 settembre, era
stato ucciso in un attentato il neoeletto presidente Bachir Gemayel, leader
delle forze libanesi, e Ariel Sharon aveva approfittato della situazione per
rimangiarsi la promessa fatta all'inviato del presidente Usa, Philip Habib, di
non entrare con il suo esercito a Beirut Ovest dove sorgevano i campi
palestinesi, ormai indifesi dopo il ritiro dei fedayn dell'Olp. Le Forze
multinazionali che avrebbero dovuto difendere i campi avevano invece
precipitosamente lasciato Beirut da qualche giorno su richiesta degli Usa.
Ariel Sharon, circondati i campi con i mezzi corazzati «al fine di ripulirli
dai terroristi» vi fece entrare circa 600 falangisti, che massacrarono,
sventrarono, violentarono, rapirono e uccisero senza sosta. Senza neppure
fermarsi davanti a bambini e a neonati, in alcuni casi tagliati a fette e
ricomposti poi sulle tavole insanguinate a formare orrendi bambolotti di morte.
Le foto di queste vittime innocenti rappresentate nei momenti salienti della
loro vita, neonati in fasce o già grandi, col vestito della festa e i capelli
inamidati per il matrimonio, oppure bambini con il colletto stretto e la
camicia a quadretti delle prime classi elementari o con l'acconciatura e la
permanente appena fatta per il fidanzamento, con il cappello della laurea o nelle
strade di un qualche paese lontano, ieri mattina erano lì, sbiadite dal tempo e
dalle lacrime, portate da madri, padri, sorelle, ad aprire il corteo unitario
per ricordare al mondo quella inaudita offesa alla vita. Per ricordarci
l'esistenza di quei 700 corpi buttati uno sull'altro tra uno strato di calce e
l'altro, laggiù nella terra rossa smossa e nella sabbia di quella che, prima
dell'arrivo dei profughi cacciati dalla Palestina con qualche masserizia, poi
sistematisi qui sotto le tende dell'Onu, era un avvallamento tra le dune di
sabbia di una pineta in vista del mare a sud di Beirut.
Dietro di loro, mentre sul corteo vigilava un imponente servizio di sicurezza,
sfilavano le bande con le cornamuse dei boy scout, le bandiere delle varie
organizzazioni politiche, per una volta unite in un'occasione così importante,
e le numerose delegazioni internazionali: da quella italiana organizzata dal
Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila, agli arabi americani dell'Arab
American Antidiscrimination Committee, ad un centinaio di donne pacifiste,
provenienti da una trentina di paesi. Il corteo internazionale e delle Ong si è
poi diretto verso il campo di Chatila percorrendo in senso opposto la strada
lungo la quale, nel primo pomeriggio di quel sedici settembre del 1982, un
gruppo di anziani, con le bandiere bianche, si avviò verso le postazioni
israeliane, per consegnare agli occupanti le chiavi del campo. Di loro nessuno
ha saputo più nulla. I loro passi - e la loro sorte - sarebbero stati seguiti
poco dopo da un piccolo corteo di donne che chiedevano la fine dei
bombardamenti: molte vennero violentate e uccise nei vicoli vicini al vicino
stadio, altre, le più giovani, caricate sui camion e portate, per fare la
stessa fine, nelle caserme delle Forze libanesi. Il tutto sotto gli occhi dei
soldati di Sharon.
Il variegato e affollato corteo è poi confluito nel grande
spazio all'ingresso del campo, dove si trova la fossa comune. Nel 1982 una
landa di terra e di rovine ferita dai buldozer ed ora ombreggiata da alcuni grandi
alberi cresciuti in questi ventitré anni, solidi come la memoria che i profughi
hanno delle loro terra lontana. L'area, ridotta fino a tre anni fa a discarica,
sarà ora oggetto - come annunciato nel discorso conclusivo della manifestazone
dal sindaco Abu Said al Qansa - di un concorso internazionale di progetti per
la sua sistemazione definitiva.
«Il corteo di oggi ha spezzato il senso di isolamento dei
profughi - ci dice Nabil giovane tecnico di Chatila - e insieme ad altri due
fatti importanti, la decisione del ministero del lavoro di togliere il divieto
per i palestinesi di accedere ad oltre 50 mestieri e le maggiori possibilità di
lavoro seguite alla partenza dei lavoratori siriani, ha contribuito a darci una
qualche speranza per il futuro. Sotto sotto però questi miglioramenti non hanno
fugato i nostri timori, soprattutto dopo la richiesta Usa di disarmare i campi
e la contemporanea ricomparsa sulla scena in questi giorni del gruppo più
ferocemente antipalestinese del paese, quello dei "guardiani del
cedro", un'organizzazione nota durante la guerra civile per essere solita
squartare, dopo averli legati a due auto che partivano in opposte direzioni, i
prigionieri palestinesi e progressisti caduti nelle sue mani». I suoi capi
fuggirono poi in Israele e di loro non si era saputo più nulla. Ecco però che
proprio in occasione dell'anniversario del massacro alcuni dirigenti del gruppo
hanno convocato una conferenza stampa per rilanciare i loro slogan preferiti
«Ogni libanese deve uccidere un palestinese» finché «Non vi sarà più un
palestinese sul suolo libanese». Non pochi temono che quel tragico settembre
per i rifugiati palestinesi in Libano non sia ancora finito.