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Ad un anno dalla morte di Yasser Arafat.
Abu Ammar vive ancora nel suo popolo
di Bassam Saleh
Un anno fa, esattamente l’11 novembre, veniva annunciata al mondo la
scomparsa del presidente Yasser Arafat, padre della patria palestinese e premio
Nobel per la pace. Una morte tuttora oscura, perché in tutti i rapporti medici,
non è stata chiarita la vera causa del decesso. Lo stesso rapporto della
commissione parlamentare palestinese di indagine, ancora non ha dato una
risposta convincente. Le poche notizie che sono trapelate parlano addirittura
di avvelenamento del carismatico leader palestinese, ma ancora nessuno ha
chiesto una indagine internazionale, che non dovrebbe escludere nessuno e
niente: da quelli che gli sono stati vicini, al cibo e alle medicine a lui
somministrati negli ultimi giorni della sua vita. Questo è un grido di verità e
di giustizia di tanti uomini e donne liberi, nei confronti del popolo
palestinese e dell’uomo, che ha dedicato tutta la sua vita, alla giusta causa
della libertà e dell’indipendenza della Palestina.
Ricordare Arafat, l’uomo delle sette vite, o dei mille colori come piaceva a
qualcuno descriverlo, significa percorre la storia contemporanea della lotta
del popolo palestinese, materializzata nella leadership di Arafat per oltre 40
anni. Fondatore della prima Lega degli studenti universitari nei primi anni
cinquanta, nel 1956 fondò insieme ad altri, il Movimento per la liberazione
nazionale palestinese “Al Fatah”. Eletto dal Consiglio Nazionale Palestinese
nel 1968 a presidente del OLP, e nel 1995 eletto presidente del ANP.
Arafat diventa il leader del movimento palestinese, discusso, ma rispettato,
amato e odiato, ricercato dai servizi arabi e israeliani, riesce sempre a
cavarsela, in Giordania. In Libano, a Tunisi, e chi sa quante altre volte,
hanno tentato di ucciderlo. Ma lui è stato sempre ottimista. Quando Zbignew
Brzezinski alla fine degli anni ‘70 pronunciò il suo “good bye” (addio)
all’OLP, Arafat rispose alle domande dei giornalisti che gli chiedevano “e ora
dove vai”? La risposta fu: “vado in Palestina”. Non ha mai perso l’obiettivo né
il cammino, anche nei momenti più duri della lotta palestinese. È rimasto
dentro le linee guida delle risoluzione del CNP (il parlamento in esilio):
mantenere e consolidare l’unità nazionale fra tutte le organizzazioni della
resistenza dentro l’OLP - unico legittimo rappresentante del popolo palestinese
- e l’indipendenza decisionale palestinese, rifiutando ogni tentativo di tutela
dei regimi arabi. Un programma politico nazionale di lotta approvato dal CNP, e
che prevede la creazione dello Stato Palestinese sui confini riconosciuti al 4
giugno 1967, con Gerusalemme est capitale e il diritto al ritorno dei profughi
palestinesi secondo la risoluzione del consiglio di sicurezza n. 194.
Il Khitiar (il vecchio) come lo chiamano i palestinesi, ha rappresentato con la
sua kefia il simbolo della Palestina. Ovunque fosse andato, chi può dimenticare
il suo discorso alle Nazioni Uniti nel 1974, quel sogno di vedere nascere lo
stato democratico in Palestina. Quel giorno il mondo ha visto in Arafat, il
combattente e il pacifista: “Sono venuto con un ramoscello di ulivo in una mano
e il fucile del combattente per la libertà, nell’altra mano, non fate cadere il
ramoscello dalla mia mano”.
E chi poteva immaginare che dopo 20 anni Yasser Arafat rientrasse trionfante
nella sua terra di Palestina. Grazie, alla lunga resistenza e alla grande
solidarietà intorno alla lotta del popolo palestinese nella sua Intifada, la
rivolta delle pietre contro la potentissima macchina di guerra israeliana.
Finalmente, dopo anni di esilio forzato, l’araba fenice ritrovò momenti di pace
e di calore umano in seno al suo popolo.
Ma il cammino era ancora lungo, tortuoso e pieno di pericoli. I territori
dell’Autorità Nazionale Palestinese, non sono né indipendenti né sovrani, ma
semplicemente gestiti dal governo palestinese, e questo, Arafat lo sapeva bene.
Come sempre, non ha mai smesso di denunciare le violenze, i ritardi, gli
ostacoli dei governanti israeliani, rivendicando l’attuazione degli accordi
firmati ad Oslo. Si è appellato al mondo intero: agli Usa e alla Russia,
padrini della conferenza di Madrid, e all’Europa. Gli ha chiesto di riconoscere
lo stato palestinese, in attuazione delle risoluzioni dell’ONU, del 1947 e
degli accordi di Oslo, ma ha ricevuto solo inviti alla calma e false promesse.
Mentre nei territori palestinesi, sempre sotto occupazione, cresceva la rabbia,
la situazione economica non migliorava, la repressione dell’esercito israeliano
non si placava e gli insediamenti dei coloni si sviluppavano e si estendovano.
Bill Clinton, invitò Arafat e Barak a Camp David, e dopo due settimane di
discussione, venne chiesto al presidente palestinese di accettare una resa
incondizionata: rinuncia al diritto al ritorno dei profughi, a Gerusalemme, ad
una gran parte della riva del Giordano, ed infine di accettare l’annessione
degli insediamenti coloniali in Cisgiordania a Israele. In cambio avrebbe
dovuto accettare uno Stato senza continuità territoriale e senza confini, sotto
la tutela militare ed economica israeliana, con una promessa diretta ad Arafat
di essere considerato al di sopra di tutti i capi di stati arabi. Ma il
presidente Arafat, non cede, sbattendo la porta in faccia al presidente
americano e dicendo no, “anzi vi invito al mio funerale”.
I palestinesi, hanno considerato questa presa di posizione una grande vittoria
politica, e di resistenza del loro Presidente, ed anche l’opposizione interna
gli riconoscerà la fermezza e la dura difesa dei diritti dei palestinesi.
Nel 1995, la mano assassina di un estremista ebreo, aveva ucciso Izhaq Rabin,
il partner del dialogo e della pace dei coraggiosi. Già allora il processo di
pace aveva iniziato il suo declino per morire definitivamente con l’arrivo di
Sharon alla testa del governo israeliano, nemico giurato non solo di Arafat, ma
dello stesso processo di pace e da sempre contrario alla nascita di un stato
palestinese sovrano.
Sharon inizia la sua campagna elettorale con una passeggiata alla spianata
della Moschea di Al Aqsa, protetto dall’esercito. Ci furono duri scontri con i
palestinesi, e scoppiò così la seconda Intifada.
Israele invade e rioccupa i territori sotto il controllo dell’Anp, con una
operazione repressiva e di chiusura. I palestinesi intensificano gli attacchi
di “martirio”. Sharon, ordina la costruzione del Muro dell’Apartheid e rifiuta
in modo ostinato qualsiasi incontro con Arafat, dichiarando la non esistenza di
un partner palestinese con cui trattare, e bombarda al Moqata il quartiere
generale di Arafat, che rimane così sotto assedio fino alla fine dei suoi
giorni.
Un anno dopo, oggi, i palestinesi ricorderanno il loro simbolo, costruendo un
mausoleo attorno alla sua tomba, portando avanti e con la stessa determinazione
i punti fermi della lotta di liberazione nazionale palestinese, nel rispetto
della legalità internazione fino alla realizzazione dello stato indipendente e
sovrano sui confini del 4 giugno 1967. Arafat è morto, ma il problema
palestinese è più vivo che mai.
Bassam Saleh