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da http://www.lernesto.it

Hamas e la Palestina


intervista a Giancarlo Lannutti

 

di Agostino Giordano

26/01/2006

Le chiedo un primo commento a caldo sull’esito delle elezioni palestinesi, che registra una netta vittoria di Hamas (il partito islamico fondato dallo sceicco Yassin, ucciso dall’esercito israeliano): pare che abbia ottenuto 77 seggi su 132…

Il risultato delle elezioni è certamente un terremoto che sconvolge tutto il quadro politico-istituzionale palestinese e anche, di riflesso, il quadro politico dell’intero Medio Oriente. Un successo di Hamas era atteso, si dava per scontato che potesse ottenere un risultato a ruota, o addirittura un sorpasso, rispetto ad Al Fatha, ma sempre in termini di maggioranza relativa. Nessuno pensava che il movimento di Hamas potesse arrivare addirittura a prendere la maggioranza assoluta in modo così netto. Siamo in presenza di un vero e proprio terremoto politico che segna nella storia del movimento palestinese – essendo ormai da oltre 13 anni oltre che movimento anche un’autorità istituzionale (l’Anp) – la fine di un’era e una svolta di 180 gradi.

Su Liberazione del 25 gennaio scorso lei aveva comunque ipotizzato la conclusione della parabola di Al Fatah…

Sì, era destinata in un certo tempo a concludersi o comunque a ridimensionarsi, ma nessuno si aspettava che fosse fino a questo punto. Quello che io osservo, e lo osservo ovviamente da marxista, con un pò di amarezza, è che per decenni il movimento palestinese, i palestinesi nel loro complesso, sono stati considerati l’avanguardia, ed al tempo stesso la speranza, del mondo arabo, per il loro carattere di forza di movimento, di società laica, democratica, pluralistica, progressista e adesso, di colpo, ci ritroviamo con una prevalenza del movimento islamico che non è certo un segnale in quella direzione.
Fra l’altro, osservo che abbiamo sempre giustamente criticato Israele in quanto stato “teocratico” (apparentemente laico, ma in realtà teocratico, perché è lo stato degli ebrei, in cui i non ebrei, cioè musulmani e cristiani, sono in posizione minoritaria: tanto è vero che in Israele non esiste il matrimonio civile e nemmeno il divorzio, tanto per dirne una…) e adesso il fatto che sull’altro versante non ci sia più quella Palestina laica e democratica che era nei programmi originari dell’Olp, ma addirittura una Palestina governata dagli islamici, in un certo senso dà indirettamente una legittimazione al carattere religioso dello stesso Israele: cioè, si legittimano a vicenda gli estremi che apparentemente si contrappongono.

Quali sono le prospettive del processo di pace? Qual è il ruolo che dovrà svolgere la Comunità internazionale, considerando che gli Usa ed Israele nelle ultime ore prima del voto “tifavano” per Barghouti ed Al Fatah?

Non c’è dubbio che nell’ultima fase, man mano che i sondaggi mostravano Hamas in crescita, gli Stati Uniti ed Israele tifavano chiaramente per Al Fatah e per Barghouti (con una certa contraddittorietà perché Israele ha messo Barghouti in carcere con cinque ergastoli!), quindi questo risultato in un certo senso li spiazza. Vorrei dire a proposito una cosa importante: avendo appena sottolineato che il successo di Hamas, a me, in quanto marxista e comunista, ovviamente non fa piacere, bisogna però anche dire che si devono rispettare le regole della democrazia e la volontà espressa dai popoli, dal corpo elettorale.
Non è ammissibile che la democrazia vada bene soltanto se viene eletto chi piace a noi, mentre se viene eletto chi non ci piace, allora facciamo finta di niente e accantoniamo tutto come se la partita non fosse stata giocata. Questo è un po’ quello che successe nel 1991 in Algeria, dove la vittoria degli islamici è stata contestata con i risultati che noi tutti sappiamo…

Indubbiamente si prospetta nell’immediato una situazione di difficoltà, perché Hamas non ha mai accettato il processo di pace, né ha mai accettato ufficialmente il diritto di Israele ad esistere entro i suoi confini attuali. Nella carta costitutiva di Hamas del 1987 c’è addirittura una frase che prevede la distruzione della presenza sionista (certo non la distruzione fisica degli israeliani, ma dell’entità statale, istituzionale teocratica). Però, va anche detto che nell’ultimo periodo, scegliendo di partecipare per la prima volta alle elezioni, Hamas ha, sia pure in modo un po’ pragmatico ed un po’ ambiguo, ammorbidito la sua posizione.

Ricordo che più di un anno addietro era stata formulata un’ipotesi, da uno dei suoi dirigenti, di una tregua con Israele della durata di dieci anni (che comporterebbe riconoscere, di fatto, per dieci anni l’esistenza di Israele…); di recente, nel programma elettorale non è stata ripresa la formula della distruzione d’Israele, ma è stata indicata l’esigenza di costruire uno stato palestinese con capitale Gerusalemme, senza dire quali ne dovrebbero essere i confini. Evidentemente anche questo è, in un certo senso, un’indiretta rettifica delle posizioni originarie.
Si è detto negli ultimi tempi, a proposito della costante rivendicazione della lotta armata, anche in questo caso a differenza della carta costitutiva, che non è l’unico mezzo per arrivare all’obiettivo: quindi si ammette che ci possa essere anche una strada politica. Sono segnali di apertura che potrebbero anche essere interpretati in chiave pre-elettorale, cioè funzionali al prendere più voti, ma che potrebbero anche essere visti come un inizio di trasformazione di Hamas da movimento radicale militare in movimento politico…

Che poi sarebbe l’unico modo per interloquire con la comunità internazionale…

Certo. Questa è una cosa che staremo a vedere. Sull’altro versante, gli Stati Uniti, Israele ed anche l’Unione Europea (che tanto per cambiare ancora una volta è andata a rimorchio degli Usa) hanno detto ancora in queste ore in modo netto che non si tratta con i terroristi di Hamas.
Però, se vogliono che il processo di pace vada avanti, dopo aver per tanti anni suonato la grancassa sulla necessità che si svolgesse nei territori palestinesi un reale processo democratico (che secondo loro la presenza di Arafat impediva), non possono adesso, di fronte ad una espressione di volontà della schiacciante maggioranza dei palestinesi, continuare con la politica del no o della porta chiusa, tanto più se Hamas desse queste prove di flessibilità.

Probabilmente, quindi, anche loro dovranno in qualche modo rivedere questa posizione. Devo dire che resta anche da vedere che tipo di governo uscirà dal parlamento neoeletto: cioè se Hamas farà, cosa che io non credo nell’immediato, un governo islamico monocolore.
In quel caso chiaramente tutto sarebbe più difficile; se Hamas al contrario accetterà di fare un governo di unità nazionale con Al Fatah, o addirittura con le altre forze che si collocano alla sinistra di Al Fatah, ammesso che esse o almeno una parte di esse ci stiano, evidentemente la cosa si porrà in termini diversi: così continuare a chiudere la porta, per l’Europa, gli Stati Uniti ed Israele sarebbe ancora più difficile. Certamente, da oggi tutto è più complicato di prima e bisognerà aspettare, penso qualche settimana, per avere un’idea un po’ più chiara della direzione che potrà essere intrapresa.

Un’ultima cosa: come commenta le dimissioni repentine di Abu Ala, che non ha neanche aspettato la pubblicazione dei risultati ufficiali e l’insediamento del nuovo parlamento?

Le dimissioni di Abu Ala sono avvenute un po’ a sorpresa, anche se bisogna dire nella prassi democratico - parlamentare le dimissioni del governo nominato dal precedente parlamento sono un fatto scontato. In genere si aspetta che si insedi il nuovo parlamento e davanti a questo vengono presentate le dimissioni. Quello che ha fatto Abu Ala è stato forzare i tempi: probabilmente l’ha fatto d’accordo anche con Abu Mazen, il quale evidentemente non può non sentirsi pesantemente condizionato: lui che è laico non voleva trovarsi ad avere di fronte una maggioranza ed un governo islamici. Forse, il gesto di Abu Ala si può interpretare un po’ come una forma di “protesta” verso un risultato così sconvolgente rispetto alle aspettative, ma forse, in un certo senso può essere anche interpretato come una pressione politica su Hamas perché si metta sulla strada del pragmatismo e del dialogo costruttivo con le altre forze che sono presenti nel parlamento: questa può essere una chiave di interpretazione.