www.resistenze.org - popoli resistenti - palestina - 11-03-06

da “L’Ernesto”

N. 1 Gennaio-Febbraio 2006


Palestina, uno stato e tanti ghetti

 

di Stefano Chiarini

 

Il voto per Hamas una reazione al piano Sharon diretto a confinare la popolazione palestinese in tanti piccoli ghetti circondati dal muro della vergogna.

La complicità del governo Berlusconi, i silenzi dell’Unione.

 

Tra tutte le reazioni, spesso scomposte, alla vittoria di Hamas, acronimo di Movimento di Resistenza Islamica, alle elezioni politiche palestinesi, quella che più rivela l’ipocrisia di gran parte dei media e delle forze politiche, anche di opposizione, è senz’altro lo stupore, la meraviglia, il cupo pessimismo di tanti commentatori, come se quel risultato non fosse il frutto di oltre quarant’anni di brutale occupazione militare e della chiusura, per l’intransigenza del governo israeliano, di ogni possibilità negoziale. Come se i palestinesi non avessero diritto di eleggere i loro rappresentanti e come se il successo di questo o quel partito non gradito ad Israele e all’Occidente cancellasse il loro diritto all’autodeterminazione e il dovere della comunità internazionale a perseguire una soluzione negoziata del conflitto arabo-israeliano. Alla base di tale meraviglia ci sarebbe in realtà la pericolosa illusione che i palestinesi, e chi li sostiene, debbano necessariamente accettare senza reagire, il rifiuto dei governi israeliani, da Ehud Barak ad Ariel Sharon, al movimento Kadima – a ritirarsi sui confini del 1967, portando con sé esercito e coloni, per permettere la nascita di uno stato sovrano palestinese, con capitale Gerusalemme est, sull’insieme dei territori occupati con un pieno controllo sulle risorse naturali, con una continuità territoriale, e uno sbocco verso la Giordania. In ogni caso un mini-stato pari ad appena il 22% della Palestina mandataria. A tale proposito va ricordato che con la proclamazione dello stato palestinese nel 1988, durante la prima intifada, i palestinesi guidati da Yasser Arafat rinunciarono ad avanzare qualsiasi pretesa sul 78% del loro paese occupato da Israele accettando come loro obiettivo negoziale il 22% (la West Bank e Gaza) della Palestina. Eppure ci fu chi, a cominciare da Francesco Rutelli e Piero Fassino, accusò Yasser Arafat di “aver chiesto troppo” e “di aver perso un’occasione” alle trattative di Camp David dell’estate del 2000 insistendo su questa richiesta minima, sul carattere palestinese ed arabo di Gerusalemme est e sul riconoscimento storico-politico, se non pratico, del diritto al ritorno e al risarcimento dei profughi che da oltre 50 anni vivono negli squallidi tuguri dell’esilio. Quell’ingiusto giudizio negativo sul rifiuto di Arafat a non sottoscrivere la liquidazione dei diritti del suo popolo, avrebbe portato la comunità internazionale, il governo italiano e gran parte del centro-sinistra a non fare praticamente nulla per porre fine alla prigionia e alla lenta uccisione del leader palestinese da parte delle autorità israeliane.

 

Un piano di annessione e non di pace

 

Questi atteggiamenti di sostanziale inazione-complicità con il governo israeliano occupante si sono poi ulteriormente sviluppati in occasione del ridispiegamento da Gaza dell’esercito israeliano portato avanti la scorsa estate dall’allora premier israeliano Ariel Sharon. Un ritiro che è stato presentato e accreditato come l’inizio di un nuovo processo di pace e non come un passo necessario – vista la dura resistenza palestinese nella striscia di Gaza, della quale il movimento Hamas è stato uno degli attori principali – per gli occupanti desiderosi di liberarsi di quella striscia sabbiosa di appena 365 chilometri quadrati con oltre un milione di abitanti, senza risorse e senz’acqua, per procedere, con l’appoggio degli Usa e non solo di questi, ad annettersi definitivamente oltre il 50% della fertile e grande Cisgiordania occupata nel 1967.

Il presunto piano di pace di Sharon, ora ripreso dal suo partito il Kadima, punto di riferimento della Margherita di Francesco Rutelli come da lui stesso dichiarato la scorsa settimana – prevede infatti: 1) Nessuna trattativa con la parte palestinese. 2) Annessione ad Israele degli insediamenti e delle terre confiscate ai palestinesi nella West Bank. 3) Annessione di Gerusalemme est e delle alture del Golan. 4) Nessun diritto al ritorno o al risarcimento per i profughi palestinesi. 5) Nessun coinvolgimento dell’ONU nel negoziato.

Non quindi un piano di pace ma il tentativo di colpire a morte il principio di uno “scambio pace contro territori” e di impedire la nascita di uno stato palestinese nei territori occupati. Un giudizio questo che non viene da impenitenti critici del governo israeliano ma da uno dei più stretti collaboratori di Ariel Sharon, Eyal Arad, secondo il quale la tesi di uno scambio pace contro territori sarebbe “falsa filosoficamente e ingenua politicamente” tanto che l’ex premier israeliano e il suo partito non contemplano affatto un ritorno ai confini del 1967.

 

Tra ghetti ed espulsione

 

Quel che molti commentatori e politici italiani fanno finta di non vedere è che le proposte di Sharon e del suo partito Kadima, per non parlare del Likud di Netanyahu, non costituiscono altro che l’attuazione del vecchio principio di conquistare ed annettere ad Israele “il massimo dei territori con il minimo di arabi” dal momento che la situazione internazionale non permetterebbe più né l’espulsione in massa dalla West Bank di oltre due milioni di palestinesi (com’era nel progetto originario della destra israeliana della Grande Israele), né la creazione di un sistema di apartheid non più solo praticato ma ufficializzato nelle leggi dello stato. Non potendo ricorrere a questi due strumenti essenziali per mantenere il carattere “ebraico” dello stato di Israele in caso di annessione sia dei territori che degli abitanti palestinesi che vi risiedono – circa tre milioni e mezzo di abitanti ai quali andrebbero aggiunti anche i palestinesi con passaporto israeliano, oltre un milione – non restava altro a Tel Aviv che lasciare Gaza con il suo milione di palestinesi e annettersi gran parte della West Bank, ma senza i suoi abitanti, lasciando fuori da Israele, divise le une dalle altre e dal mondo esterno, con il muro della vergogna, le città e le zone ad “alta densità” abitativa palestinese.

Un modo questo non soltanto per conservare il carattere ebraico di Israele ma anche per non dover più sopperire alla necessità (un obbligo per la Convenzione di Ginevra) della popolazione occupata il cui mantenimento verrebbe così accollato alla comunità internazionale. Ne deriva una mappa nella quale vi saranno delle enclave palestinesi circondate dal muro (che corre all’interno della Cisgiordania e non sul confine con Israele) sparse a macchia di leopardo in un mare, i territori occupati, annessi ad Israele. Nascerebbero così dei veri e propri “bantustan” ai quali verrebbe data la qualifica, senza averne alcuna delle caratteristiche minime, di “stato”.

Da questa breve analisi del “piano Sharon” emergono con chiarezza le motivazioni che ne rendono impossibile un’accettazione da parte del popolo palestinese consapevole che il farlo costituirebbe la fine di ogni prospettiva di autodeterminazione e di soluzione negoziata del conflitto, per di più con un riconoscimento internazionale della definitiva occupazione della Palestina da parte di Israele. Una pace, quella di Sharon, che in realtà condannerebbe i due popoli che vivono in Palestina ad una guerra senza fine. E in questo sta l’irresponsabilità – nei confronti dei palestinesi ma anche degli israeliani – di coloro che ci vogliono far credere che quel piano costituisce un “passo avanti verso la pace”. Eppure per capire l’essenza del progetto israeliano basterebbe ascoltare e riferire quello che sostengono gli stessi uomini di Sharon. Prendiamo ad esempio quanto detto da Dov Weisglass, consigliere dell’ex premier, secondo il quale dando ai palestinesi la striscia di Gaza “priva di qualsiasi valore strategico” Israele sarebbe riuscita a mantenere il controllo della ricca West Bank e per questa astuta mossa politica “i coloni avrebbero dovuto danzare di gioia” attorno a Sharon, invece di protestare. In cambio di questa presunta “pace dei ghetti” i palestinesi dovrebbero ora cessare ogni forma di resistenza armata, classificata ormai come terrorismo, e riconoscere Israele (cosa che in realtà hanno già fatto) ma senza che Israele accetti la nascita di un loro stato sovrano con capitale Gerusalemme Est.

 

“Territori” non più “occupati”

 

L’accettazione di questo progetto israeliano da parte del governo Berlusconi, ma anche di Rutelli, di Fassino e di Veltroni – D’Alema su questo punto ha una posizione leggermente più equilibrata – è stata preparata da un lungo periodo nel quale media e forze politiche hanno cancellato dal loro vocabolario l’aggettivo “occupato” limitandosi a parlare di “Territori”, inesistenti in realtà come definizione geografica con la T maiuscola. Una dimenticanza ricca di conseguenze pratiche a livello politico: innanzitutto dimenticare o sostenere che i “territori” non sono più “occupati” significa sposare la tesi israeliana e, in parte, americana che si tratti di “territori contesi” tra le due parti con l’annessione ad Israele – come abbiamo già ricordato – di un altro 50% di quel 22% della Palestina costituito dalla West Bank e dalla striscia di Gaza confinando i palestinesi in varie riserve indiane sul 9% del loro paese. Quindi verrebbe meno la richiesta ad Israele – basata sulla risoluzione dell’Onu 242 e sul principio del “rifiuto dell’acquisizione di territori con la forza delle armi”, uno dei pilastri della civiltà moderna – di un ritiro dall’insieme dei Territori occupati e le necessarie pressioni politiche, economiche e diplomatiche sullo stato ebraico senza le quali Israele non accetterà mai di ritirarsi dai territori occupati. Pressioni che né il governo italiano né i principali esponenti del centro-sinistra sembrano disposti ad esercitare. Al contrario il governo Berlusconi ha firmato con Israele un trattato di cooperazione militare che rende il nostro paese complice delle operazioni dell’esercito israeliano e della stessa violazione del trattato di non proliferazione nucleare. Un trattato del quale nel programma dell’Unione non si fa neppure cenno escludendone quindi un suo congelamento sulla base della clausola del rispetto dei diritti umani. Per non parlare del sostegno di Francesco Rutelli, espresso nel corso della visita della scorsa settimana a Tel Aviv,  all’ingresso di Israele nella Nato schierando così i nostri soldati a difesa delle colonie ebraiche nei territori occupati.

Inoltre se i “Territori” non sono più “occupati” allora non si applicherebbe ad essi la Convenzione di Ginevra che ne vieta la colonizzazione e i paesi cofirmatari di quel documento non avrebbero più l’obbligo di farla rispettare al governo di Tel Aviv. In ultimo, ma non certo per importanza, se i “Territori” non sono “occupati” allora la lotta armata di resistenza del popolo palestinese non sarebbe più, come è, un legittimo diritto ma una forma di terrorismo. In altri termini cancellare l’aggettivo “occupati” apre la strada alla tesi, sostenuta dal segretario Ds Fassino all’ultimo convegno della “sinistra per Israele” secondo la quale in Palestina non ci sarebbe un torto e una ragione, ma “due ragioni”. Il sostegno alla tesi dei due popoli per due stati, di per sé giusta, ma che se non si precisa che uno dei due stati già c’è e anzi occupa quello che dovrebbe nascere impedendone attivamente la costituzione, diventa un comodo alibi per l’inazione e per un sotterraneo sostegno all’occupazione israeliana e ai suoi progetti di “ghettizzazione” della popolazione palestinese dei Territori occupati.

 

Dopo Arafat Hamas, dopo Hamas?

 

Di fronte al rifiuto israeliano di trattare, anche con esponenti moderati come Yasser Arafat o Abu Mazen, all’avanzare del muro, al proseguire dell’annessione e delle confische di terre palestinesi, alla politica di dura repressione militare, al tentativo degli Usa, ma anche di parte dell’Europa, di far passare il piano di ghettizzazione israeliana per una prospettiva di pace, quindi di fronte alla mancanza di qualsiasi speranza di una futura soluzione diplomatica ma giusta della questione palestinese, non ci si dovrebbe meravigliare che la popolazione dei territori occupati abbia votato in massa per il movimento della resistenza islamica Hamas al quale è andato l’indubbio merito di aver contribuito in maniera determinante al ritiro israeliano dalla striscia di Gaza.

E’ stato detto che il voto a favore di Hamas è stato anche il frutto della corruzione delle autorità dell’Anp, un fattore questo indubbiamente presente, ma assai meno decisivo nella scelta degli elettori, della mancanza di qualsiasi prospettiva politica. Da questo punto di vista l’intransigenza di Sharon e di Israele e il sangue versato nella seconda Intifada – iniziata proprio con la “passeggiata” dell’ex premier sulla spianata delle moschee di Gerusalemme – in parte è riuscita a spostare sul piano religioso quello che è un conflitto nazionale sul controllo di uno stesso territorio. Dico in parte perché ancora ci sono larghi spazi, se Israele lo volesse e se la comunità internazionale esercitasse pressioni su Tel Aviv invece che solamente sui palestinesi, per una soluzione giusta della questione palestinese basata sulle risoluzioni dell’Onu e sul diritto internazionale.

 

Ultime possibilità di pace

 

Queste possibilità però sono legate ad un impegno attivo degli Usa e dell’Europa a fermare la costruzione del muro nella West Bank, come chiesto dalla Corte dell’Aja (in quanto non di difesa come sarebbe se scorresse lungo il confine del 1967 ma strumento di annessione di terre dal momento che si addentra nei territori occupati) e soprattutto la costruzione di nuove massicce colonie a Gerusalemme est che chiuderebbero il cerchio attorno alla parte araba della città. Un cerchio che divide in due la West Bank e separa da questa l’intera parte orientale della città occupata nel 1967 dove sorgono i luoghi santi musulmani e cristiani e che dovrà costituire la capitale di un futuro stato palestinese. In particolare si tratta del progetto “East-1”, un vasto programma di costruzioni di unità abitative su una superficie di 12 chilometri quadrati all’interno dei territori occupati, a ridosso della “città troppo santa” che potrebbe assestare un colpo definitivo ad un possibile scambio “pace contro territori”. Il piano venne elaborato nel 1994 dallo scomparso Yitzhak Rabin, poi congelato per non urtare la sensibilità della comunità internazionale, e ora ritirato fuori in occasione della costruzione del muro. Obiettivo del progetto E1 è infatti la colonizzazione di una zona tra l’area municipale della Grande Gerusalemme (nella quale è inserita anche la parte orientale, occupata della città) e la città colonia di Maale Adumim con oltre 30.000 abitanti in modo da tagliare l’ultimo cordone ombelicale tra la città palestinese di Ramallah (a nord), passando per Gerusalemme est, con quella di Betlemme (a sud). Da questo punto di vista appare assai grave il fatto che l’Italia si sia battuta, più di altri paesi, in sede europea – senza suscitare scandalo o protesta da parte dell’opposizione – per insabbiare l’importante documento su Gerusalemme est redatto dalla diplomazia britannica per la presidenza di turno della Ue, nel quale si denuncia la politica di annessione e di ebraizzazione di Gerusalemme est da parte di Israele e si sostiene che in tal modo, con queste nuove colonie, si sta rendendo impossibile quello scambio pace contro territori alla base dell’unica pace possibile.

 

Due pesi e due misure

 

L’isteria delle “brigate della disperazione” registratasi per la vittoria di Hamas non sembra aver colto il fatto che i palestinesi non perdono certo il loro diritto all’autodeterminazione se i loro rappresentanti non ci piacciono, così come Israele non viene certo assolto dall’obbligo a rispettare il diritto internazionale, le risoluzioni dell’Onu, e le Convenzioni di Ginevra. E soprattutto il fatto che senza uno scambio pace contro territori con la nascita di un vero stato palestinese non ci sarà mai alcuna pace in Medioriente. In quest’ottica anche il successo di Hamas potrebbe costituire un’opportunità dal momento che una qualsiasi intesa raggiunta tra le parti vedrebbe ridursi di molto le rispettive opposizioni interne. Ma anche in questo caso vediamo come in Occidente in realtà sia ancora imperante la pratica dei due pesi e due misure. Gli esempi non mancano: perché mai i palestinesi dovrebbero riconoscere Israele senza che questo riconosca un loro stato sovrano? Perché i palestinesi devono porre termine alla resistenza se Israele non accetta anch’esso un cessate il fuoco e si impegna a ritirarsi dai territori occupati? Perché mai gli ebrei avrebbero diritto a tornare in Palestina dopo 2.000 anni e i profughi palestinesi invece no dopo appena 50 anni? Perché i palestinesi dovrebbero dare garanzie sulla sicurezza di Israele e degli israeliani e questi invece riservarsi il diritto di colpire i palestinesi a loro piacimento? Perché la tesi “solo i falchi possono fare la pace” che abbiamo sentito più volte riferita ad Ariel Sharon non può valere anche per Hamas? Perché viene accettato senza scandalo il fatto che la destra israeliana continua ad avere – pur seguendo una politica diversa sul piano pratico – come punto di riferimento il sogno della “Grande Israele”, senza alcuno stato palestinese, mentre si grida allo scandalo se Hamas sostiene la tesi, speculare, dell’intera Palestina come terra islamica e senza Israele? Se i palestinesi accettano di trattare con la destra israeliana, compreso un criminale di guerra come Ariel Sharon, perché Israele potrebbe esimersi dal negoziare con Hamas pretendendo da questo impossibili abiure? Il rifiuto a trattare con Hamas prima che questi abbia “rinnegato” il suo obiettivo originario di una Palestina indipendente ed islamica equivarrebbe a pretendere da Israele, come precondizione, che il governo di Tel Aviv smonti il fregio sulla Grande Israele posto all’ingresso del parlamento la Knesset e dichiari pubblicamente di rinunciare a quel sogno primigenio. Richieste assurde in entrambi i casi.

In realtà tutte le condizioni impossibili da soddisfare, poste prima ad Arafat, poi ad Abu Mazen ed infine ad Hamas in realtà nascondono semplicemente il rifiuto del governo di Tel Aviv a trattare con i palestinesi perché una vera trattativa non potrebbe che portare ad un ritiro dai territori occupati.

La strada da seguire per la pace invece è un’altra. Quella di partire dal dato di fondo della questione: il fatto che un popolo, quello palestinese, è stato disperso per il mondo e privato della sua patria e che una pace – comunque non giusta ma l’unica possibile – non può che passare per la nascita di un loro stato sovrano nei soli territori occupati con Gerusalemme est capitale e il riconoscimento del torto storico fatto agli oltre quattro milioni di profughi sparsi per il mondo.

Il resto sono cortine fumogene per dare tempo ad Israele di perfezionare e completare la colonizzazione dell’intera Palestina e per cancellare qualsiasi possibilità di pace.