www.resistenze.org - popoli resistenti - palestina - 05-01-07
Pubblichiamo, quale contributo all’approfondimento della conoscenza della situazione israelo-palestinese, la documentazione e le note (in tre parti) a cura di Alessandra Mecozzi dell’Ufficio Internazionale della FIOM, sulla Missione civile del Coordinamento europeo dei comitati e associazioni per la Palestina.
Missione civile del Coordinamento europeo dei comitati e associazioni per la Palestina – con sede a Bruxelles - 8/15 dicembre 2006
Alla delegazione hanno partecipato 12 rappresentanti di diverse associazioni dalla Francia, Belgio (anche un parlamentare, Pierre Galand, responsabile del Coordinamento europeo), Italia (Alessandra Mecozzi, per la Fiom-Cgil, Ester Fano, per la rete Ebrei contro l’occupazione) Norvegia, Inghilterra.
La delegazione ha incontrato varie associazioni, palestinesi e israeliane, diversi sindacati palestinesi, parlamentari e personalità di partiti, una rappresentanza del Consiglio nazionale legislativo palestinese, Il Presidente dell'ANP Mahmoud Abbas, il Ministro della Sanità (A Gaza, dove è potuto entrare solo il parlamentare con la sua assistente), il Ministro della Istruzione, la rappresentanza dell’Ufficio UE. Si è recata a Ramallah, Gerusalemme est e ovest, Betlemme, Nablus, Gaza, Haifa
E’ stato presentato il programma di lavoro del coordinamento Europeo per il 2007 alle organizzazioni della società civile incontrate, in particolare il lancio della campagna “40 anni di occupazione: adesso basta!” che sarà anche al centro di un seminario al Forum sociale mondiale di Nairobi a fine gennaio. L’accoglienza è stata sempre molto amichevole, ci sono molte aspettative sulle iniziative della società civile, compresi i sindacati, a livello europeo. Sulla politica della Unione Europea sono state espresse molte critiche e c’è un malcontento crescente tra i palestinesi, causato in particolare da quella “strana” concezione della democrazia, secondo la quale la UE ha prima insistito perché venissero realizzate elezioni, che si sono svolte in modo corretto e trasparenti, poi, alla luce dei risultati “non graditi”, ha bloccato l’erogazione dei fondi previsti, mettendo in opera sanzioni che colpiscono pesantemente tutta la popolazione palestinese, aggiungendosi al blocco operato da Israele dei trasferimenti alla ANP delle tasse dovutele.
NOTE E VOCI DAL VIAGGIO - prima parte
A cura di Alessandra Mecozzi
Gerusalemme, 8 dicembre
Incontro con Michel Warschawski, dell’Alternative Information Center
Il Centro è una organizzazione palestinese-israeliana che ha come priorità analisi critica e informazione su entrambe le società e sul conflitto derivante dall’occupazione e colonizzazione dei territori palestinesi. E’ un soggetto di iniziativa politica basato sui principi di giustizia, uguaglianza, solidarietà, coinvolgimento della società civile nella lotta per il rispetto dei diritti inalienabili nazionali di tutti i palestinesi.
Warschawski ci parla diffusamente della crisi politica, “quasi esistenziale”, che vive lo Stato di Israele. Non il Governo, la cui coalizione è stabile, ma l’insieme dello Stato e delle sue strutture. Le istituzioni sono a pezzi, compreso l’esercito, la guerra in Libano ha mostrato una totale incapacità anche di direzione militare. Le strutture civili per i soccorsi, i rifugi, l’aiuto agli sfollati non hanno funzionato. Chi ha adesso molta popolarità è un ricco esponente della mafia che ha organizzato in 4 ore un grande campo di raccolta e 30 autobus per portar via da Sderot – che veniva colpita dai missili – bambini/e e ragazzi/e. L’esercito è stato un disastro e adesso sono state formate ben 14 commissioni di inchiesta! Il consenso alla guerra è stato generalizzato, persino il Meretz, partito a sinistra del Labour, l’ha sostenuta. E Peace Now sosteneva la guerra contro “l’Islam”. Si parla di una possibile, dicono quasi inevitabile, guerra contro l’Iran, la Siria, ancora il Libano…La prospettiva di una nuova guerra è accettata e questo fa paura. Lo scenario internazionale è in movimento: con il pesante fallimento degli USA in Iraq e il rifiuto di aprire a Siria e Iran, Bush e Olmert meditano la vendetta, entrambi nei confronti dell’Iran.
La situazione sociale ed economica in Israele è molto grave: il divario ricchi-poveri aumenta sempre più e la destra è tutta concentrata sul fare affari, per i poveri resta la carità. Dice chiaramente che Israele sta andando verso una alternativa antidemocratica e autoritaria, con una militarizzazione sempre più spinta. L’opposizione è molto piccola, senza influenza sulla società frammentata, ci dice che considera la manifestazione del 2 dicembre un fallimento. E’ passata, con la costruzione del Muro, l’idea della separazione, contro quella della coesistenza, di fronte alla impotenza della politica. La società israeliana è divisa e impoverita, i russi (un milione circa) sono una società a parte dentro la società e lo sviluppo delle mafie cresce. Si è accreditata l’idea dell’Islam come nemico principale. Una situazione così bloccata può essere sbloccata solo a livello internazionale: il piano Baker, a cui in Israele ci sono però state reazioni negative, il rilancio del multilateralismo, l’idea di contrapporre alla distruzione un generale processo di democratizzazione, sono possibili spazi.
Ramallah, 9 dicembre 2006
Incontro con il Sindacato dei dipendenti pubblici in sciopero.
Sono 165.000 i lavoratori dipendenti dalla Autorità Nazionale Palestinese da 10 mesi senza salario a causa delle sanzioni decretate dalla Unione Europea nei confronti del Governo di Hamas, eletto con le elezioni del 25 gennaio di quest’anno, a detta di tutti gli osservatori nazionali e internazionali, corrette e democratiche.
Attualmente questi lavoratori ricevono, sia attraverso il meccanismo temporaneo della Unione Europea approvato dal Quartetto (che bypassa il Governo) sia attraverso donazioni dai paesi arabi, circa il 20% del salario. Questo riguarda i dipendenti della Sanità e della Istruzione, ma non gli altri 120.000 dipendenti pubblici, di cui 86.000 fanno parte delle forze di sicurezza.
Sono in sciopero da settembre. Le condizioni economiche e sociali sono sempre peggiori, la povertà colpisce il 70% circa della popolazione. C’è stato un incremento del 20% di criminalità comune. Sono aumentate le malattie anche perché le derrate alimentari non vengono controllate. Molte aziende hanno chiuso i battenti.
Viene richiesta una pressione internazionale da parte della società civile sui rispettivi Governi perché venga rispettato il risultato elettorale e non venga fatto pagare a tutta la popolazione palestinese un altissimo prezzo. Viene anche richiesto di fare pressione perché Israele restituisca le tasse riscosse, che spettano ai palestinesi.
Questo sindacato è stato creato 4 anni fa, anche in polemica contro la corruzione. Il Governo palestinese non ha mantenuto il programma, - dicono - ma non dispone di soldi. I rappresentanti sindacali hanno convenuto che, durante lo sciopero, ci sia comunque la copertura delle emergenze. La situazione è molto grave, perciò – dicono - il Governo deve rivedere la sua politica. Tutti sottolineano il carattere non politico dello sciopero, ma concordano che la soluzione, per uscire dall’impasse, potrebbe essere quella di un Governo di unità nazionale Hamas-Fatah.
Incontro con PNGO
(è una coalizione di circa 100 organizzazioni non governative, lavora a livello nazionale – in videoconferenza con Gaza, per l’impossibilità di entrare e uscire - e internazionale, coordinandosi con altre associazioni).
Partecipano alla riunione i rappresentanti dello “Steering Committee”.
Viene fatta una presentazione dettagliata sugli avvenimenti dopo l’elezione al Governo di Hamas, le caratteristiche sempre più gravi della situazione politica, l’aggravarsi della crisi umanitaria, le conseguenze della guerra in Libano, la valutazione positiva del rapporto Usa Baker Hamilton.
La situazione sul terreno indica la gravità sociale ed economica e la disintegrazione geografica: il muro è ormai di 450 km ., ci sono tre zone, praticamente in comunicanti: Gaza, Gerusalemme est e 3 bantustan nella Cisgiordania, isolati gli uni dagli altri.
Alla crisi socioeconomica corrisponde un grave impasse politico; ci sono due Autorità con due teste: la Presidenza e il Gabinetto dei Ministri. Il Quartetto continua a porre le condizioni del riconoscimento del diritto ad esistere di Israele, il riconoscimento degli accordi di Oslo, la rinuncia alla violenza come indispensabili per la ripresa di rapporti con il Governo (ma fanno notare che gli Accordi di Oslo sono stati ampiamente violati dal Governo israeliano, ad esempio con la costruzione del muro, e che Hamas rispetta da quasi due anni la tregua, oltre ad aver riconosciuto i confini del 1967, quindi implicitamente Israele stesso….)
La posizione di Israele viene così riassunta:
- Impossibile negoziare perché non c’è partner
- Il conflitto va contenuto, non risolto
- Strategia per un accordo provvisorio (non Stato, non definizione confini, non capitale ecc)
Sul terreno, dopo la cattura del soldato israeliano Shalit, la repressione israeliana si è fatta sempre più forte, l’Autorità centrale è debole, mentre si sviluppano conflitti interni e prevale un senso di disperazione e frustrazione generale, anche per la situazione economica determinata dal blocco degli aiuti e dall’embargo sui trasferimenti bancari.
La posizione della società civile:
- il risultato delle elezioni va rispettato;
- i fondi che arrivano dall’esterno non vanno utilizzati per una agenda politica sotterranea (caduta del Governo)
- le Ong non sono disponibili a canalizzare aiuti e sopperire ad inadempienze verso Governo
- molto importante un lavoro coordinato anche a livello internazionale
- rifiuto delle Ong palestinesi di firmare certificato “antiterrorismo” che propongono Usa per accedere ai fondi di US Aid: 120 milioni di dollari per Ong e Governo.
Ruolo società civile:
- sostegno forte ai valori democratici:
- attività per realizzare il massimo di coordinamento tra tutte le associazioni
- sostegno ad iniziative nazionali;
- alleviare la sofferenza e rispondere a bisogni della popolazione
Israele ha creato fatti compiuti continuamente e dice che non c’è partner, è evidente una progressiva incapacità palestinese di influenzare la sua politica: l’attenzione non è più concentrata sulla occupazione, ma sulle questioni interne.
La guerra in Libano è stata una azione selvaggia; Israele non ci ha guadagnato niente, ma si è aperto un conflitto interno a Israele stesso, che destabilizza fortemente tutto il quadro politico della regione.
Quali scenari?
- Dialogo nazionale per Governo di unità nazionale
- Conferenza internazionale (proposta Italia, Spagna, Francia)
- Piano Baker-Hamilton
- Elezioni anticipate in Palestina (4 mesi per Presidenziali, di più per Parlamento)
Quale possibile uscita?
- Accordarsi per un possibile piano politico comune
- Gestire democraticamente il conflitto interno
- Lavorare per un Governo di unità nazionale
Problemi:
- Forte disputa interna: non c’è possibilità di esercizio di Governo da parte di Hamas
- Che vuol dire riconoscere Israele? Con quali confini?
- Nuove e anticipate elezioni? Molto rischiose
- Governo di unità nazionale è meglio, ma se non c’è il riconoscimento di Israele nei termini in cui lo chiedono, la situazione non cambia
- Troppe pressioni esterne su entrambe le parti; mettono in difficoltà anche società civile che rischia di arretrare nel proprio sviluppo
- Necessaria riforma OLP, deve essere inclusivo di tutti
- Hamas viene considerato grande problema per Europa, ma lo è anche per Palestina. Necessario sostenere decisamente la via democratica: Hamas ha accettato di misurarsi su questo terreno, è un passo importante
- Segno positivo il piano Baker per quanto riguarda il rapporto Usa-Medio oriente
Esprimono le loro critiche (che ci verranno rappresentate anche dalle altre associazioni che incontreremo) sulle modalità con cui le Nazioni Unite stanno procedendo per la compilazione del “Registro dei danni provocati dal muro” alla popolazione. Mancano criteri precisi per l’identificazione dei danni (“materiali e immateriali”) e delle persone danneggiate. Ci dicono che o verranno apportate le modifiche presentate dalle associazioni o non parteciperanno al lavoro di raccolta delle informazioni, in quanto sarebbe inutilizzabile.
Proposta PNGO: loro partecipazione a due riunioni all’anno di ECCP a Bruxelles per coordinamento e discussione; invito ad essere presenti nelle riunioni in Palestina in occasione della discussione su campagne internazionali (es. quella per sanzioni contro l’occupazione)
Principio fondamentale per essere all’interno di PNGO: riconoscere spazio e pratiche democratiche; tradizionalmente non erano presenti né Fatah né Hamas, adesso ci sono due associazioni rispettivamente legate alle due forze politiche.
Incontro con diversi sindacati
Abbiamo per la prima volta incontrato anche sindacati diversi dal PGFTU, che è la confederazione storica nata nel 1965 (Palestinian General Federation of Trade Unions): sono infatti nati negli anni più recenti nuovi sindacati, sulla base dei principi di democrazia e indipendenza. E’ infatti forte la critica alla assenza di elezioni all’interno del principale sindacato, da molti anni. Nel 1993 si è formato un Centro per la democrazia e i diritti dei lavoratori che opera come coordinamento per i diversi nuovi sindacati e fornisce aiuto legale e formativo sui temi: democrazia e indipendenza; libertà di associazione; ambiente e sicurezza.
E’ nella loro sede che incontriamo diversi rappresentanti sindacali dei settori di Banche, Università, Enti locali, servizi pubblici della sanità, e il sindacato per la libertà di associazione. Si sono inoltre formati 15 comitati in altrettanti posti di lavoro. Sia i sindacati di categoria che i comitati di fabbrica o posto di lavoro hanno un anno di vita circa. Insistono molto sulla necessità di indipendenza dalla politica e in particolare dall’OLP, pur essendo tutti iscritti a partiti. La situazione di un’economia totalmente dipendente da Israele è ragione di grande difficoltà. 40.000 laureati all’anno si ritrovano disoccupati. Viene espresso un netto giudizio di condanna sul blocco degli aiuti economici deciso dalla UE, che ha attivato in tal modo un embargo internazionale contro la popolazione palestinese.
Lo sciopero dei dipendenti pubblici è considerato uno sciopero tutto politico contro il Governo e l’atteggiamento del Governo è negativo. Tuttavia ci consegnano il testo di un primo accordo che sono riusciti a realizzare per il pagamento parziale dei salari nel settore dell’istruzione e della sanità (i settori a cui arrivano parte dei fondi attraverso il meccanismo provvisorio stabilito dalla UE, senza passare dal Governo). Dopo la conclusione di questo accordo hanno deciso, proprio nel giorno in cui li incontriamo, la sospensione(non la fine, tengono a sottolineare) dello sciopero.
Incontro con Mustapha Barghouti, deputato di Mubadara (Iniziativa nazionale palestinese)
Conosciamo Mustapha Barghouti da molti anni, da quando, come presidente della coalizione delle organizzazioni non governative e del Medical Relief, aveva fatto appello ad una presenza civile internazionale nei territori occupati, come forma di solidarietà e protezione della popolazione civile palestinese (nel 2001: anno in cui, per rispondere a questo appello, è nata in Italia la coalizione di Action for Peace , di cui la Fiom fa parte, e si è avviato un piano di missioni civili in Palestina-Israele, prima interrotto e poi molto rallentato a causa dei respingimenti all’aeroporto di Tel Aviv delle missioni internazionali).
Attualmente, in veste di deputato di una piccola formazione politica indipendente,Barghouti ha un ruolo importante di mediazione tra Fatah e Hamas, per favorire la formazione di un Governo di unità nazionale. L’obiettivo politico, ci dice, è quello di arrivare alla costituzione di uno Stato Palestinese indipendente sui confini pre-occupazione del 1967, con la fine dell’occupazione. E’ molto critico verso le posizioni della Unione Europea, che non ha fatto aperture rispetto al blocco degli aiuti alla ANP, pur avendo Hamas, e lo stesso suo leader all’estero, Mashal, riconosciuto i confini del ‘67. Anzi, sembra che la UE abbia stanziato un sostanzioso pacchetto di aiuti economici a Israele per i prossimi 7 anni.
Barghouti insiste sulla necessità di mobilitazioni forti anche a livello internazionale, come cercano di fare in Palestina, con la resistenza popolare non violenta al Muro, e parla della intenzione, anche da parte palestinese, di avviare il boicottaggio di alcuni prodotti israeliani come forma di pressione sul Governo. Ritiene che la strada per modificare le posizioni di Hamas, frutto della povertà e di un sistema politico clientelare, debba essere quella politica e non quella della violenza, ma Israele deve accettare la reciprocità. Parla della necessità di togliere ad Hamas il monopolio sulle moschee e di fare una legge che stabilisca un fondo per gli studenti, in modo che possano accedere agli studi fuori dalla dipendenza politica. Ritiene che una delle maggiori difficoltà per la formazione di un Governo di unità nazionale palestinese sia rappresentata da forti pressioni esterne su entrambi le parti politiche. “La democrazia deve essere il nostro strumento fondamentale e per questo va riformato anche la OLP”, dentro la quale non sono presenti Hamas, Jihad e Mubadara, che fanno insieme più del 50%. Poi bisognerebbe costituire un nuovo Consiglio legislativo nazionale (parlamento) facendo votare anche i palestinesi della diaspora.
Delinea infine quale a suo avviso sarebbe lo scenario ideale:
- Governo di unità nazionale
- Forte movimento popolare non violento palestinese
- Forte movimento di solidarietà internazionale
Ilan Halevi,
giornalista e politico israeliano- palestinese, uno dei pochi componenti ebrei della OLP. Rappresentante dell’Olp in Europa e presso l’internazionale socialista, è stato viceministro dell’ Olp per gli affari internazionali ed in tale veste ha partecipato alla Conferenza di Madrid del 1991. E’ stato uno dei fondatori della Revue des Etudes Palestiniennes e vive attualmente tra Parigi e la Cisgiordania.
C’è molta confusione dappertutto: su Hamas anche qui ci sono percezioni molto diverse. Dentro Fatah coesistono diverse posizioni e linee. Il documento dei prigionieri politici rappresenta comunque, perché sottoscritto da tutte le parti politiche, la base per un Governo di unità nazionale.
Marwan Barghouti, adesso in carcere, aveva fin dal 1996 capito che cosa si stava preparando, non negli apparati politici, ma nelle strade e per questo aveva fatto appello a tutte le forze patriottiche e islamiche, proprio per non lasciare solo ad Hamas “la strada”. I prigionieri che sono oltre 8000, rappresentano un “collegio” elettorale significativo. E’ importante che Abu Mazen e Hanye siano d’accordo per il Governo di unità nazionale, ma questo accordo deve essere condiviso anche dalle strutture di entrambe le forze politiche. Al momento non lo è; pesa molto anche la repressione che venne operata nel 1996 dalla ANP nei confronti degli islamismi: ne vennero messi in prigione ben 3000. D’altra parte il modesto scarto che c’è stato nelle elezioni impedisce che Fatah proceda ad una seria autocritica: secondo me è difficile per entrambe governare, tantopiù che le pressioni internazionali sono molto forti. Hamas ha fatto la sua campagna elettorale senza fare riferimento al modello sociale che hanno in testa, e neanche agli slogan politici: si sono presentati come “Cambiamento e riforme” (qualcuno addirittura guardando al modello di Governo islamico moderato della Turchia). Comunque le frontiere del 67 le riconoscono ed è del tutto ideologico chiedere loro di accettare “il diritto ad esistere” di Israele. A fronte di quel riconoscimento dovrebbe avvenire la fine dell’occupazione, più passa il tempo più si fa forte la pressione popolare per una maggior rigidità, c’è rabbia contro quello che è percepito come volontà di umiliazione. La situazione è andata indietro, dopo 13 anni di fallimento del processo di pace; addirittura non viene messo internazionalmente in discussione neanche l’assassinio politico che Israele pratica normalmente: si fanno solo i conti di quanti civili ci sono andati di mezzo, come “danno collaterale”! Nostra speranza è che riprendano i negoziati, che si parli, mentre cresce il numero di quelli che non vogliono parlare, ma vogliono sparare…A Gaza cresce insieme alla esasperazione (c’è chi rapisce per poter avere un posto nella polizia) anche la criminalità comune, o qualcosa di molto simile.
Qui c’è un conflitto che potremmo definire arcaico: per la terra e per l’acqua, ma adesso è entrato nelle dinamiche globali: Palestina, Libano, Iraq, sono parte della stessa guerra agli occhi delle persone, ma non altrettanto per i politici. Prevale l’isteria islamofobica, gli ultraconservatori sono quelli che vogliono distruggere le società: sono piuttosto scettico sui “movimenti” politici: Rumsfeld cacciato, Bolton dimissionario, il piano Baker Hamilton. Ma credo che nella situazione in cui siamo bisogna attaccarsi anche ai più piccoli spiragli….
10 dicembre a Ramallah
Incontro con il Consiglio Legislativo Palestinese (Parlamento).
Questo organismo è stato eletto nel gennaio 2005, l’ultima elezione era stata nel 1996. Hamas ha vinto ottenendo 74 seggi, Fatah ne ha ottenuti 45.
All’incontro partecipano un deputato indipendente, come portavoce, uno di Hamas, una deputata del PFLP.
1. Un terzo del Governo si trova ancora in prigione e gli effetti disastrosi sulla popolazione prodotti dal blocco degli aiuti e dagli scioperi connessi all’assenza di salari. L’OLP ha riconosciuto Israele ed è rappresentativo di tutti i palestinesi. Il cessate il fuoco al momento è unilaterale, da parte palestinese. Ci sono ancora oltre 8000 prigionieri, di cui alcuni sono neonati nati in prigione. L’auspicio è quello di un Governo di unità nazionale. Le richieste sono: aiutare lo sblocco dei fondi, sostenere l’iniziativa per una Conferenza internazionale; sostenere la richiesta di truppe internazionali di interposizione. E’ un paradosso che proprio in un paese sotto occupazione la popolazione abbia esercitato la democrazia e comprenda il senso dei diritti umani e che la comunità internazionale non lo riconosca.
2. E’ vero che ci sono idee diverse – dice il rappresentante di Hamas – ma Fatah ha perso le elezioni e non può fare come se le avesse vinte. Il documento dei prigionieri è stato firmato anche da Hamas e lo consideriamo la base per un accordo di unità nazionale che auspichiamo. Siamo anche per la riforma della Olp e delle forze di sicurezza. Vogliamo una pace giusta e vi chiediamo di aiutarci a realizzarla.
3. La parlamentare esprime la necessità di una discussione interna palestinese, libera dalle troppe pressioni esterne.
Al Palazzo presidenziale (Mukhata)
Qui incontriamo prima il capogabinetto del Presidente e poi il Presidente stesso Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Il capo di gabinetto denuncia il terrorismo di Stato israeliano, che ha fatto in pochi mesi ben 450 vittime. Denuncia una situazione politica bloccata e la necessità, per uscirne, di andare a nuove elezioni sia presidenziali che legislative (decisione che ci comunica esser stata presa dall’Esecutivo dell’OLP). E’ molto duro con Hamas, e in particolare con il loro programma sociale che rappresenterebbe un forte arretramento e islamizzazione della società. Denuncia anche il fallimento dell’occidente in tutta l’area e l’opportunismo nel sostegno all’islamismo sia da parte degli Usa (“Bin Laden è creatura della Cia) che dei britannici (“che hanno favorito i fratelli musulmani, per mettere un freno al movimento progressista e anticoloniale”). “La dinamica internazionale è estremamente complicata e rischia di sottrarci la possibilità di decisioni “. Per questo insiste sulle elezioni anticipate, come unica strada per sbloccare la situazione!
Il Presidente esprime una posizione un po’ diversa, sostenendo che il Governo di unità nazionale è la sua prima opzione e che continuerà a lavorare per questo, dato che comunque la decisione per elezioni anticipate non ha effetto operativo immediato. “Se troviamo un accordo non si fanno le elezioni”. La questione di fondo non riguarda i posti di ministro, “sono disponibile a non richiedere nessun ministero”, e a procedere alla riforma dell’OLP, facendo entrare chi non c’è. Le elezioni anticipate diventano obbligatorie se non si riesce ad arrivare ad un accordo.
L’incontro con il Segretario generale del PGFTU, Shaher Saed, sarà purtroppo molto breve, alla fine di un seminario di dirigenti sindacali donne, dato il prolungarsi dell’incontro alla Mukhata.
Incontro con Mossi Raz, israeliano, già parlamentare del Meretz e tra i fondatori di Peace Now.
Attualmente è molto impegnato nella gestione di una stazione radio, “All for peace”, che va in onda due ore alla settimana, curata da un gruppo di giovani composto di palestinesi e israeliani. Ci sono circa 24.000 ascoltatori
E’ molto importante che ci sia una informazione costruita insieme, perché i media di solito riportano solo ciò che avviene in Israele (se sono israeliani) o in Palestina (se sono palestinesi). Ma bisogna che le sofferenze come la cultura e l’esperienza di entrambe le parti vengano conosciute da tutti. Il campo della pace è in Israele molto debole, in particolare a causa del ruolo negativo svolto dal Partito laburista, che è al Governo, e molti di Peace Now, ritengono che non bisogna scendere in piazza. E’ una vergogna che uno come Liebermann sia al Governo. Mossi ha partecipato sia alle mobilitazioni contro la guerra in Libano che a quella, molto limitata, del due dicembre per la fine dei combattimenti e dell’assedio a Gaza. Sulla scarsa partecipazione ha forse influito il fatto che il giorno prima fosse stato proclamato il cessate il fuoco.
Del cosiddetto campo della pace fa anche parte Bat Shalom, che è una coalizione di donne, molto significativa e altri gruppi più radicali, ma molto piccoli.
Amir Peretz che pure aveva svolto un ruolo importante da leader sindacale, soprattutto sulla questione sociale, si è rivelato una grande delusione e si è tirato fuori dal campo della pace.
Gli Stati uniti sono l’unica potenza che potrebbe fare pressioni su Israele, ed essere ascoltati: le sanzioni contro i palestinesi sono contro il diritto internazionale.
Mossi dice anche che molto probabilmente anche in Israele ci sarà una mobilitazione forte contro l’occupazione in occasione dei 40 anni, nel 2007, e si augura che Meretz e Peace Now possano svolgere un ruolo trainante. Critica infine la politica di Israele per quanto riguarda il nucleare e sostiene che bisognerebbe battersi per un Medio oriente libero dal nucleare.
22 dicembre 2006
NOTE E VOCI DAL VIAGGIO - seconda parte
A cura di Alessandra Mecozzi
Nablus, 11 dicembre
Eva Center
Dopo aver invano atteso più di un’ora al check point Eretz, per entrare a Gaza, dobbiamo rinunciarci. Viene autorizzato solo il parlamentare belga con la sua assistente. Perciò raggiungiamo il resto del gruppo a Nablus, dove incontriamo subito la presidente del Hawwa Society for culture and arts (Eve Center), Ghada Abdul Rahim. E’ un’attivista per i diritti umani, arrestata 3 volte, fa parte del Consiglio nazionale palestinese. Il centro, nato nel 1994, è particolarmente attivo nella promozione culturale delle e tra le donne a Nablus, una città particolarmente vivace culturalmente e politicamente. Anche lei denuncia la situazione economica grave in seguito al blocco dei fondi della Unione Europea e quelli israeliani e il rischio forte di arretramento della società civile. La vita delle donne è particolarmente difficile e la società soggetta a processi di disgregazione dato che migliaia sono gli uomini morti, feriti, prigionieri, disabili: è in rapida crescita la percentuale di divorzi. Si ferma molto a parlare della situazione politica difficile e della necessità di mettere tutti gli sforzi nel lavoro unitario, evitando la frammentazione partitica. La necessità di unità tra i palestinesi è tanto necessaria quanto difficile in questa situazione: le pressioni contro il Governo di Hamas sono forti, alle sanzioni esterne si aggiungono le pressioni interne e non nasconde il carattere politico degli scioperi in corso dei dipendenti pubblici che rivendicano il pagamento dei salari, bloccati da diversi mesi. A chi le chiede se il Governo di Hamas potrà comportare arretramenti nei diritti delle donne risponde di no con grande sicurezza, e ne è prova il fatto che non c’è stato il minimo tentativo di intervenire sulle leggi esistenti…Alla Unione Europea rimprovera anche di mettere in opera progetti che non corrispondono alle necessità delle ong palestinesi e della società civile: c’è delusione per una politica europea che in altri tempi ha espresso il proprio sostegno e che adesso si ritira, mostrando di non rispettare il risultato elettorale.
Campo profughi di Askar (nuovo)
Questo campo, nelle vicinanze di Nablus, ospita circa 6000 persone. E’ uno dei 5 campi non riconosciuti dalla’Agenzia delle Nazioni Unite (UNRWA). E’ stato messo in piedi su propria iniziativa da un gruppo di profughi. Il non riconoscimento dell’UNRWA implica l’assenza di strutture sociali e di servizi. Ma incontriamo un gruppo di grande energia e entusiasmo che ha creato nel 2000 il Social development center, proprio per dare la possibilità di un luogo di aggregazione, discussione, cultura ai giovani che sono la maggior parte degli abitanti del campo, “per offrir loro qualcosa di diverso dalla strada”. Si tratta, come spiega il video che ci mostrano, di riuscire a rompere isolamento e frustrazione, a coinvolgere ragazze e ragazzi in attività di apprendimento, letture, musica, dar loro la possibilità di sperimentarsi in varie attività. “La nostra lotta è in primo luogo sociale e culturale” ci dice il direttore del Centro e con grande orgoglio ci parla della formazione dei giovani alla musica, alla danza tradizionale insieme alle idee di giustizia e di diritti. L’incontro viene suggellato da una esibizione del gruppo di giovanissimi, tra i 9 e i 13 anni, che esegue la tradizionale danza palestinese “dabka”. Ci parla di un progetto per la formazione di un gruppo musicale e della difficoltà di reperire le risorse per acquistare gli strumenti…E’ davvero incredibile come anche nelle condizioni economiche e sociali più difficili sia possibile realizzare qualcosa di così bello e vivo, un punto di attrazione per molti ragazzi e ragazze: ci lasciamo con l’impegno a cercare il modo di sostenere uno dei loro progetti.
Betlemme, 12 dicembre
Entrare a Betlemme passando da un’apertura nell’alto muro di cemento grigio fa sempre effetto, ma è difficile credere ai propri occhi vedendo il grande pannello colorato affisso sul muro dall’Ufficio del turismo israeliano, con gli auguri di buon anno!…
A Beit Jala incontriamo un gruppo che rappresenta il Centro BADIL (“Alternativa”), nato nel 1998, impegnato sul fronte dei diritti di residenza e del diritto al ritorno per i profughi palestinesi. Ingrid è la direttrice attivissima che ci illustra subito, come altre ong, le critiche alle modalità con cui le Nazioni Unite stanno definendo il Registro dei danni derivanti alla popolazione palestinese dal Muro, l’unica misura applicata tra quelle raccomandate dal parere della Corte internazionale di giustizia che ha dichiarato il muro illegale. Sollecita il coordinamento europeo ad attivarsi nei confronti della Unione Europea che, incredibilmente, si è astenuta sulle 6 risoluzioni relative ai diritti inalienabili dei palestinesi in sede ONU. Sollecita anche una iniziativa più energica nella campagna BDS (Boycott – Sanctions – Divestement): la campagna per sanzioni europee contro l’occupazione, partita dal Coordinamento europeo, ha raccolto alcune decine di migliaia di firme. Ma c’è l’impegno a rilanciarla anche all’interno del Forum sociale mondiale di Nairobi, a cui parteciperà una consistente delegazione delle varie ong palestinesi, con un seminario che coinvolga in primo luogo i sindacati a livello europeo e mondiale. Sollecitano anche una pressione sulla Unione Europea perché renda pubblico ufficialmente il rapporto su Gerusalemme prodotto all’inizio di quest’anno e che documenta la politica di annessione nei confronti di Gerusalemme est da parte di Israele attraverso la costruzione del muro. Saranno impegnati anche nella campagna 2007 per la fine dell’occupazione (“40 anni: adesso basta!”) e per il diritto al ritorno (“60 anni dalla Nakba, nel 2008). Ci lasciamo con l’impegno ad organizzare al meglio la partecipazione ai seminari nel Forum, in modo che possa uscirne un piano di azione comune per il 2007.
Considerazioni simili e analoga volontà di collaborare viene anche da Stop the wall campaign. Ne incontriamo il coordinatore Jamal Jumaa che ci parla dell’avvio di una campagna palestinese di boicottaggio di alcuni prodotti israeliani e, soprattutto, di una campagna per sostenere i prodotti palestinesi, che vengono pesantemente colpiti dalla concorrenza israeliana.
La vita e la possibilità di sviluppo della campagna è molto legata alla informazione: per questo si è dato vita ad un sito aperto, quale strumento per l’informazione e il coordinamento delle associazioni e tutti coloro che sono impegnati nella campagna contro il muro.
In conclusione della giornata passiamo tre ore a Bilin, un villaggio divenuto famoso per la determinazione con cui il locale comitato popolare conduce da due anni una resistenza non violenta contro il muro e l’esproprio delle terre. Ce ne parla Mohammed Khatib, uno dei giovani coordinatori della iniziativa che vede la partecipazione anche di pacifisti israeliani e di altri paesi. Visitiamo in un’ora tutta l’area che è stata sottratta al villaggio dalla costruzione, in questo caso, di un recinto con una apertura. I militari, dopo aver richiesto l’autorizzazione al superiore, ci fanno entrare e ci seguono. Vediamo in lontananza un insediamento in costruzione: il comitato di Bilin ne ha ottenuto il blocco, attraverso le due azioni che costituiscono l’ossatura di questa resistenza: quella legale e quella popolare. E’ una esperienza che si è ispirata ad altre analoghe in altri villaggi (Mas’ha, Biddu, …) e che sta rilanciando l’iniziativa anche a livello nazionale. Da due anni, ogni venerdì, una marcia raggiunge e cerca di attraversare il recinto per andare sulla propria terra. La reazione dei militari è violenta: gas lacrimogeni, bombe assordanti, proiettili di gomma, tanto che ogni settimana qualcuno è ferito, altri fermati. Ad aprile si terrà una grande conferenza nazionale e internazionale, con tutti i comitati popolari contro il muro. Un giovane regista israeliano, che ha partecipato alla iniziativa, ne ha tratto un bel documentario che ci fanno vedere alla fine della visita e dei racconti: commovente e coinvolgente, un film di speranza, che speriamo di vedere presto tradotto in italiano in circuiti accessibili ad un pubblico ampio. Foto molto belle si trovano sul sito www.bilin-village.org
Coalizione per Gerusalemme, 13 dicembre
L’incontro con rappresentanti della Coalizione per Gerusalemme, formata da diverse associazioni, 70 persone, impegnate nella attività per preservare Gerusalemme est (territorio occupato dal 1967) come città abitata da palestinesi, è di particolare interesse e la richiesta alla nostra delegazione europea, che viene da tutti coloro che interverranno,a cominciare da Amal Nashashibi, che fa la presentazione, è quella di far pressione sulla Unione Europea perché renda pubblico il rapporto redatto da funzionari UE e poi messo nel cassetto nella riunione del Consiglio dei Ministri degli Esteri del 2005, e denunciare l’azione di Israele per mutare la composizione della popolazione, da palestinese in israeliana. Il “master plan” che Amal illustra non è stato ancora approvato ed è stato possibile avere dettagli non pubblici da una funzionaria israeliana che ha lasciato il Comune. Già dal 1967 è stato espropriato il 35% della terra per costruire colonie e il 14% per costruire le strade di collegamento tra di esse (by pass roads). Il documento di cui si dispone, ci dice Amal, è più ideologico che tecnico e consiste nel definire le modalità attraverso le quali Israele intende spostare il maggior numero possibile di ebrei israeliani in Gerusalemme e il maggior numero possibile di palestinesi al di fuori. La costruzione del muro già in buona parte realizzata serve per bloccare l’accesso dei palestinesi, mentre vengono demolite case al di là della linea verde. L’obiettivo finale è quello di eliminare la continuità tra la parte nord e quella sud dei territori occupati, annettere Gerusalemme, trasformare Gerico in una enclave. Il collegamento con Ramallah dovrebbe essere, per i palestinesi, garantito da tunnel sotterranei! Anche la popolazione nella città vecchia viene progressivamente ridotta. Il tutto è illegale, perché Gerusalemme est, in quanto territorio occupato, secondo la Convenzione di Ginevra, non dovrebbe subire trasferimenti di popolazione. Ma lo stesso Ministro palestinese per Gerusalemme è tra i ministri palestinesi attualmente in carcere.
E’ in costruzione un tram per sostenere le infrastrutture dei coloni, costruito da due multinazionali francesi, Alsthom e Connex, e sponsorizzato dal Governo francese. Ha un costo molto alto (350 milioni di euro) e servirà sostanzialmente solo agli israeliani dato che non ci sono stazioni nella zona araba. Ma gli israeliani hanno a disposizione le by pass roads, per cui il tram verrà utilizzato ben poco. In realtà, ci dicono, il progetto serve essenzialmente a prendere ulteriori porzioni di terra. Tre organizzazioni israeliane prendono parte, insieme alle francesi Cedetim e Associazione France-Palestine solidarité, nel ricorso contro il Governo francese: Alternative information center, Coalizione delle donne, il Centro israeliano contro la demolizione delle case. E’ importante ricordare che le banche olandesi coinvolte si sono ritirate, in seguito alla protesta dei lavoratori olandesi, in nome dei diritti dei palestinesi. La coalizione per Gerusalemme chiede che tutti i sindacati prendano una posizione contro le violazioni del diritto che questa costruzione comporta.
Chiedono iniziative perché venga rispettata la Convenzione di Ginevra relativa agli obblighi degli occupanti verso gli occupati, perché si faccia un appello alle istituzioni religiose e di carattere internazionale, all’Unesco perché venga salvaguardato un patrimonio dell’umanità, e infine che ci sia una campagna per Gerusalemme città aperta e accessibile a tutti. Propongono di fare un piano di azione comune su Gerusalemme per il 2007, nell’ambito della campagna contro l’occupazione (40 anni: adesso basta!)
3 gennaio 2007
NOTE E VOCI DAL VIAGGIO - terza parte
A cura di Alessandra Mecozzi
13 dicembre
Nel ristorante “Everest”, deserto, ma che ha già preparato il suo albero di natale, in cima ad una collina sopra Betlemme, incontriamo Suleiman e Jonathan, i due fondatori dei “Combattenti per la pace”, un gruppo costituito da militari israeliani che hanno rifiutato di iniziare o continuare a servire l’esercito e di ex prigionieri politici palestinesi, che hanno deciso di lasciare le armi. Entrambi percorrono la strada della lotta non violenta contro l’occupazione, per la convivenza. La loro iniziativa è recente: è stata lanciata pubblicamente vicino al muro, a Gerusalemme, il 18 marzo, una festa ebraica (pass over, pasqua) e la giornata dedicata ai prigionieri politici palestinesi, con un incontro di 300 persone. E’ stata già presentata al Parlamento europeo e sono stati diverse volte in Italiane in altri paesi europei. Perseguono e promuovono la lotta non violenta, la pratica del dialogo per la fine dell’occupazione e delle colonie. Vanno soprattutto nelle scuole e nelle Università. Entrambi sono consapevoli della difficoltà della loro pratica, da molti vista con diffidenza, in Palestina,dice Suleiman, vista da alcuni come volontà di “normalizzazione” della occupazione. E diffidenze, ostilità aumentano quanto più si fa difficile la situazione sociale e politica e avanza la politica israeliana della separazione, in particolare attraverso la costruzione del Muro e l’ampliamento delle colonie, un vero e proprio sistema di apartheid, anzi, come ha detto Willie Madisha, segretario generale del sindacato sudafricano Cosatu, peggio dell’apartheid in Sud Africa, e sicuramente in una situazione di isolamento internazionale. Jonathan dice che devono per questo fare molta attenzione al linguaggio che usano e insistere sempre sulla loro opposizione alla “normalizzazione”, in Israele devono evitare di usare la parola “rifiuto” dell’esercito, che suona come un sacrilegio, ma soprattutto valorizzare la maggior efficacia anche ai fini della sicurezza della pratica non violenta. In realtà – aggiunge – la più forte resistenza non violenta dei palestinesi è il continuare a restare nei territori occupati, ad andare a scuola, a lavorare, nonostante le enormi difficoltà materiali. Suleiman dice di aver creduto nell’uso della violenza come strumento contro l’occupazione, ma dopo il 93 di aver cominciato ad impegnarsi nel lavoro per la pace, dato che l’uso della violenza autorizza ulteriore violenza in una spirale senza fine e distruttiva. Oggi, per entrambi, il problema centrale non è la questione dello Stato, anche se la creazione dello Stato palestinese indipendente accanto a quello di Israele fa parte della loro piattaforma, ma quella della fine dell’occupazione che sta disgregando e distruggendo entrambe le società, in Palestina e in Israele.
14 dicembre
Azmi Bishara, deputato palestinese alla Knesset (parlamento israeliano)
Azmi Bishara è un palestinese “del 48” , con cittadinanza israeliana. E’ presente nella Knesset per il Partito Haddash (che include anche israeliani) e ci parla a lungo della situazione in Palestina e Israele, nel quadro internazionale. E’ molto critico verso Fatah che, dice, non ha mai accettato la sconfitta elettorale e vuole in realtà decidere da sola che cosa fare, anche se continuano a parlare di Governo di unità nazionale fondato sul consenso al documento dei prigionieri politici. Sostiene che sia usato più come espediente che come reale strumento; non dicono infatti che per fare un Governo riconosciuto vanno accettate le condizioni poste dalla Unione Europea: riconoscimento del diritto ad esistere di Israele, rinuncia alla violenza, riconoscimento accordi di Oslo. In realtà ci sono molte differenze all’interno del Governo e la situazione di assedio nei confronti di Hamas è una forma di pressione su tutti, non solo su quella forza politica. L’assedio a Gaza non ha alcuna legittimità internazionale, ma è la messa in pratica della legge americana “contro il terrorismo”. La crisi è molto profonda e può ulteriormente svilupparsi. Per Hamas la difficoltà per la costituzione del Governo di unità nazionale non sta in una questione di ministeri, il Primo ministro ha già detto che è pronto a rinunciarci, ma nell’esistenza di posizioni politiche diverse. L’Europa dovrebbe affrontare seriamente il problema dell’Islam anche al proprio interno.
Tutti sanno che Israele non è affatto pronta a ritirarsi entro i confini pre guerra del 67, né a togliere le colonie, né a riconoscere Gerusalemme est come capitale palestinese, né a riconoscere il diritto al ritorno dei profughi. Del resto la lettera del 2004 di Bush a Sharon confermava queste posizioni. Ma l’idea di nuove elezioni che è stata dichiarata dal Presidente è molto pericolosa, il grande rischio è che la prossima generazione dopo la nostra, ancora molto legata alla scelta della via parlamentare, la rifiuterà. Per questo bisognerebbe dare ad Hamas, in generale all’Islam politico la possibilità di riformarsi esercitando l’azione di Governo. Ma prevale una visione troppo americana. Mustapha Barghouti ci ha provato, agendo come mediatore tra Fatah e Hamas, ma è molto difficile avere successo in una situazione in cui la comunità internazionale, l’Unione Europea, pongono condizioni solo ai palestinesi e non anche agli israeliani.
E’ necessaria una riforma dell’OLP e della ANP, i palestinesi della diaspora devono essere rappresentati; invece l’OLP viene giocato contro il Governo. Ricordiamoci che gli Accordi di Oslo sono stati firmati dall’OLP, con il rifiuto di Hamas. Se non vengono coinvolti, chiamati a dimostrare che sono capaci di governare, le loro posizioni si radicalizzeranno ulteriormente. Chiedere che riconoscano “il diritto a esistere” di Israele è una posizione ideologica, mi sembra che l’importante è che accettino l’esistenza di Israele.
Il quadro internazionale esercita una forte influenza, è una apertura importante il rapporto Baker, che esprime la sconfitta dei neocons in Iraq.
D’altro canto bisogna guardare alle dinamiche dei paesi arabi: è importante che ci sia accordo tra Siria, Egitto e Arabia Saudita. E se l’Egitto e la Giordania si distaccano dalla tradizionale alleanza con gli Stati Uniti, potrebbero favorire un Governo di unità nazionale.
In ogni caso il mondo arabo è destinato a cambiare rapidamente: già durante la guerra contro il Libano c’è stata una reazione contro i Governi che sono stati accusati di sostenere Israele contro il Libano; il rifiuto dei paesi arabi di ricevere Hamas ha spinto l’Unione Europea all’irrigidimento. La protesta popolare contro i regimi, che si è già espressa in diverse occasioni, proseguirà, e in Egitto probabilmente anche in modo violento, la Giordania è in una situazione molto instabile… Dal versante di Israele vedo una politica molto miope e opportunista, direi che non c’è una vera politica. Si erano riposte molte speranze su Amir Peretz, l’ex segretario generale di Histadrut, data la sua energica lotta per una politica sociale più giusta, contro i tagli alla spesa sociale: ma è stato un vero disastro come ministro della difesa. Israele è dentro una crisi molto forte, anche militare: la guerra contro il Libano non è andata come nel 1967, considerato in Israele “un modello”: pochissimi giorni e conquista. Tutto il paese è rimasto scioccato, ma non credo che faranno un’altra guerra in Libano.
Il grande problema è sul versante della Siria e dell’Iran: non è da escludere una guerra nei confronti della Siria, come è possibile che vogliano colpire l’Iran, devastandone le infrastrutture. Il piano americano Baker-Hamilton – che parla di necessità di rapporti diversi con Siria e Iran – non è la posizione dell’amministrazione Bush, né è chiaro se c’è qualcuno dell’amministrazione stessa che lo appoggia. Nel Congresso americano la lobby che agisce per conto di Israele è molto forte, ma d’altra parte gli Iraniani sono molto uniti, per quanto riguarda la politica estera, la Siria non accetta di essere esclusa e reagisce contro gli USA per paura di un complotto ai suoi danni che farebbe diventare il Libano una base contro la Siria, con l’appoggio di una parte dei poteri politici libanesi. Mashal, rappresentante di Hamas in Siria agisce razionalmente (al Cairo ha pubblicamente dichiarato di riconoscere i confini pre-guerra del 1967), e andrebbe accettato: invece avviene esattamente il contrario. Per quanto riguarda la Unione Europea sta perdendo credibilità sulla “questione democratica”, con la scelta di non riconoscere un Governo palestinese eletto democraticamente, e anzi bloccando, con un embargo che punisce la popolazione, i fondi destinati alla ANP.
Non c’è ottimismo nelle parole con cui Azmi Bishara conclude la sua lunga esposizione: è vero che il Governo israeliano si è molto indebolito, ma l’impostazione di Sharon resta centrale; anche la sinistra israeliana è diventata molto debole: il Presidente palestinese Abu Mazen vorrebbe che si arrivasse a realizzare grosso modo quello che è stato chiamato l’accordo di Ginevra, che fu stilato da personalità palestinesi e israeliane. Ma la situazione cambiata rende sempre più difficile, quasi impossibile che ci si possa arrivare. Oggi, più che in altri tempi, c’è una forte responsabilità e un forte ruolo da giocare per la Comunità internazionale e in particolare per la Unione Europee , ma deve fare scelte politiche forti e