www.resistenze.org - popoli resistenti - palestina - 02-07-07
da: forumpalestina
http://www.forumpalestina.org/news/2007/Luglio07/02-07-07CosaAccadePalestina.htm
Cosa sta accadendo in Palestina?
L’introduzione di Roberto Battiglia (Comitato “Con la Palestina nel cuore”) all’assemblea tenutasi a Roma il 27 giugno scorso*
La situazione attuale è forse tra le più difficili della storia del Movimento di Liberazione della Palestina e pone pesanti interrogativi per le prospettive future.Lo scontro di Gaza certamente non è giunto inaspettato.
La crisi politica tra Fatah e Hamas era evidente, non solo perché da oltre un anno assistiamo ad un crescendo di provocazioni, rapimenti, rappresaglie, e le parole hanno lasciato il posto alle armi, ma perché forze potenti hanno scientificamente lavorato per costruire lo scontro.
Gli organi di informazione, i giornali, le televisioni non hanno perso tempo a schierasi:
- la striscia di Gaza è nelle mani dei terroristi islamici di Hamas che vanno isolati combattuti e sconfitti;
- il “governo d’emergenza” in Cisgiordania dei laici e moderati di Fatah va immediatamente sostenuto, non tanto perché ha una qualche prospettiva, ma per meglio combattere i terroristi.
Non è poi mancato il coro finale dei soliti illustri commentatori che hanno evidenziato come tra i palestinesi non esistano interlocutori credibili, che ormai si sparano persino fra di loro e che questo, tutto sommato, non sarebbe neanche un male se non ponesse però seriamente in pericolo la sicurezza di Israele. La prima cosa da fare è ribaltare questa versione dei fatti.
La responsabilità principale è degli Stati Uniti e di Israele che hanno lavorato incessantemente e con ogni mezzo alla divisione e allo scontro tra palestinesi per scrivere la parola fine a sessanta anni di lotta di liberazione, attraverso la guerra civile.
Questo tra i silenzi, i tentennamenti e la complicità diretta della comunità internazionale:
dell’Europa, del Quartetto (è di queste ore la notizia, che si commenta da sola, della nomina di Tony Blair a portavoce di questa struttura), e dei vari Governi. Anche nel nostro paese è ormai evidente come non esista differenza alcuna tra centrodestra e centrosinistra quando c’è di mezzo Israele e la questione palestinese.
La realtà è che Israele non riconosce interlocutori tra i palestinesi, è cosi oggi, così è stato nel passato e sarà così per il futuro.
Non lo era Yasser Arafat, che pure si era spinto ad un compromesso impensabile e fortemente contrastato nel movimento di liberazione con gli accordi di Oslo del ’93. L’autorevolezza di Abu Ammar, la sua capacità anche nei momenti di sconfitta e nei contrasti interni di tenere uniti tutti i palestinesi lo rendeva un pericolo da eliminare. E restano ancora non chiarite le cause della sua morte dopo i due anni e mezzo di detenzione dentro il palazzo della Muktada ridotto in macerie e circondato dai soldati israeliani a Ramallah.
Non lo era neppure Abu Mazen quando fu nominato suo successore, era considerato troppo debole per poter rappresentare tutti i palestinesi. La comunità internazionale spinse affinché si tenessero elezioni che furono, nonostante l’improponibilità di un voto sotto occupazione militare, una grande espressione di democrazia, confermata dagli osservatori internazionali presenti.
Ma l’Europa servile ai dettami di israeliani e statunitensi non solo non ha riconosciuto l’esito del voto, ma ha ritenuto necessario punire duramente l’intero popolo palestinese per essersi espresso a favore di Hamas. E’ immediatamente scattato l’isolamento politico del Governo Hanieyh e lo strangolamento economico con il blocco totale dei territori occupati che ha gettato la popolazione nella fame e nella disperazione.
Stessa sorte ha avuto il governo di unità nazionale preteso dal democratico occidente (D’Alema in testa al coro) e voluto dagli stessi palestinesi proprio per scongiurare la crisi in atto. Nonostante lo sforzo diplomatico di Hamas che ha lasciato che fosse ribaltato l’esito del voto e consegnato nelle mani di Abu Mazen il mandato a negoziare per uno Stato palestinese sui confini del 1967, spingendosi di fatto all’implicito riconoscimento dello stato di Israele.
Ma neanche questo è bastato, sono arrivati dove volevano: portare i palestinesi alla divisione ed allo scontro.
E forse per meglio comprendere la portata dello scontro in atto è utile introdurre un altro dato su cui riflettere: la tempistica dei fatti di Gaza.
Non credo infatti sia casuale che quasi contemporaneamente si siano riaccese le micce in Libano.
Fatah al Islam che attacca l’esercito libanese dal campo profughi di Nahr El Bared, attacco tuttora in corso e preparato da tempo visto che il gruppo, che sembra sia finanziato dal figlio di Hariri, è stato aiutato ad insediarsi dal 2006 nel campo profughi palestinese, ben armato ed equipaggiato.
L’attentato al convoglio spagnolo di UNIFIL 2, la ricomparsa sulla scena dei Fratelli Musulmani, la ripresa degli scontri tra sunniti e sciiti e sullo sfondo il prossimo obbiettivo della “guerra preventiva al terrorismo”, la guerra all’Iran.
Guerra programmata dagli Stati Uniti, e fortemente reclamata da Israele, per dare il via al grande progetto di destabilizzazione permanente in tutta l’area del Medio Oriente.
Ora, se questo scenario è anche solo parzialmente vero, è lecito pensare che Iran, Siria, Hezbollah, per citare solo alcune delle realtà coinvolte, non stiano semplicemente a guardare, e che il dislocamento dei vari pezzi sulla scacchiera mediorientale, coinvolga anche i territori palestinesi occupati e possa avere un peso nello scontro Hamas – Fatah.
Detto questo, non credo però, che la tragedia che ha investito il popolo palestinese sia imputabile solo alla volontà del nemico e all’evolversi degli scenari di guerra in Medio Oriente.
Non si può infatti non vedere la grande responsabilità di Al Fatah, che è stata la fondatrice dell’OLP e la sua componente maggioritaria, nella crisi in atto.
E non è questione di qualche mela marcia al suo interno.
Sono anni ormai che nelle fila di Fatah circolano personaggi corrotti, invisi al popolo, servili quando non direttamente collaborazionisti con gli occupanti. Quante volte abbiamo letto anche dalle pagine del Manifesto il nome di Mohammed Dahalan e di altri dirigenti di Fatah e sentito dai compagni palestinesi della necessità di cacciarli via. Qualcuno ci ha anche provato senza riuscirci.
Ma il problema non è solo questo, il problema è perché stanno lì e chi ce li ha messi. Il problema non sono solo loro ma è l’attuale dirigenza di Fatah.
Altrimenti, sarebbe come dire che se Bertinotti e Diliberto vanno a P.zza del Popolo il 9 Giugno a “suonarla e cantarla” contro Bush, dimenticando di far parte di un governo suo fedele alleato, che ha dato il via libera al raddoppio della base americana di Vicenza, che partecipa al rafforzamento della missione in Afghanistan con l’invio di nuovi armamenti, che aderisce allo scudo stellare e compra gli F35 ecc.. quella non fosse la linea di Rifondazione e del PDCI perché comunque molti compagni non sono d’accordo.
Quella è la linea di Rifondazione e del PDCI ed è sbagliata. Ed è anche vero, per fortuna, che molti compagni se ne sono accorti, tant’è che a P.za del Popolo si sono ritrovati in 200 funzionari di partito.
La realtà è che certamente non tutta Fatah è corrotta e che migliaia di combattenti palestinesi di Fatah sono prigionieri nelle carceri israeliane e molti altri sia all’interno che nella diaspora, sono in aperto contrasto con l’attuale dirigenza.
E’ quindi evidente che siamo di fronte a una profonda crisi politica di questa organizzazione che proprio a partire dal fallimento degli accordi di Oslo, non è stata in grado di indicare una vera prospettiva per il movimento di liberazione. Così come non ha voluto restituire all’OLP il ruolo di organismo unitario e realmente distintivo della lotta di liberazione palestinese, aprendone le porte ad Hamas e alle altre forze realmente rappresentative, nella fase attuale, di una parte consistente del popolo palestinese.
Al contrario assistiamo oggi ad una sorte di occupazione dei vertici di Fatah da parte di una vecchia nomenclatura corrotta, incapace, servile all’occupante, se non del tutto collaborazionista.
Detto questo vogliamo anche dire che nessuno di noi ha esultato per la crescente affermazione di Hamas. Non siamo religiosi, non lavoriamo certo per la costruzione di uno Stato islamico e vorremmo una Palestina laica, indipendente e magari socialista. Ma ci preoccupa il fatto che contro Hamas, Fatah o almeno una sua parte ha partecipato ad un gioco sporco.
Non ne abbiamo ad oggi la certezza assoluta, ma sia fonti palestinesi che autorevoli giornali (The Guardian, giornali tedeschi ecc.), hanno rivelato dell’ingresso nella striscia di Gaza, prima del cosiddetto “colpo di Stato”, di ingenti quantitativi di armi (si parla di 7400 fucili americani d’assalto M16, decine di mitragliatrici montate su automezzi, lanciarazzi RPG, 800 mila proiettili, veicoli corazzati e 14 bulldozer di tipo militare), forniti dagli americani col consenso israeliano e destinate a Fatah. Questi armamenti sarebbero serviti (piano Dayton), alle milizie di Dahlan per sferrare il colpo finale ad Hamas. La risposta di Hamas potrebbe dunque essere stata una azione preventiva contro il colpo di stato.
Ora se di questo non abbiamo la certezza, sappiamo però che la scelta stessa di affidare a Dahlan, un collaborazionista filo-israeliano la sicurezza della striscia di Gaza ha significato lavorare contro la causa palestinese. E poco importa sapere se ciò è avvenuto per debolezza politica o per connivenza. La responsabilità è sulle spalle di Abu Mazen e anche di chi lo sostiene.
E altrettanto grave è stata la scelta di dar vita ad un governo di emergenza in Cisgiordania con il compito, in teoria, di indire nuove elezioni (quali elezioni potrebbero svolgersi in una simile situazione?), affidandolo all’indipendente Salam Fayaad (2% di preferenze nelle ultime elezioni), già economista del Fondo monetario e della Banca mondiale, laureato in Texas dove ha vissuto 20 anni.
Governo immediatamente riconosciuto e a parole sostenuto da Israele e Stati Uniti che si sono impegnati a sbloccare una parte dei fondi palestinesi illegalmente trattenuti e a fare qualche concessione, come la liberazione di 250 detenuti che non si siano macchiati di sangue israeliano.
Cioè come sempre si sono impegnatati a niente, in cambio però dell’isolamento e accerchiamento di Hamas nella prigione di Gaza, o forse sarebbe meglio dire dell’abbandono di un milione e mezzo di palestinesi nelle mani delle rappresaglie del terrorismo di stato israeliano. Solo oggi i raid israeliani nella striscia hanno provocato la morte di 13 palestinesi, fra cui diversi bambini, e 45 feriti.
E sullo sfondo avanza un vecchio progetto che vedrebbe la costruzione di una prigione islamica a Gaza sotto il controllo Egiziano e di un protettorato palestinese in Cisgiordania in qualche modo associato alla Giordania stessa (come diceva Sharon: se i palestinesi vogliono uno Stato, se lo vadano a fare in Giordania).
Se tutto questo andasse avanti sarebbe la fine della causa palestinese.
Infine, certamente non è compito nostro, indicare ai palestinesi la via da seguire per uscire dalla crisi attuale, crediamo però che non vi sia altra strada che quella indicata da più parti, dal FPLP a Marwan Barghouti a una parte consistente della società civile palestinese. La strada dell’unità e del dialogo tra tutte le componenti palestinesi e di una rinascita del movimento di liberazione della Palestina come indicato nel documento della concordia scritto nelle carceri israeliane da tutte le formazioni politiche palestinesi.
E che questa scelta non è indolore, ma comporta decisioni coraggiose, prima fra tutte quanto chiesto nell’8° punto del comunicato di Marwan Barghouti dal carcere di Hadarem:
“chiedo di formare un comitato d’emergenza per la direzione di fatah, formato dai dirigenti combattenti, capace di far rinascere di nuovo il Movimento, ricostituendo le sue istituzioni e processare gli incapaci, i corrotti, i falliti, e che sia capace di: fare immediatamente il Sesto Congresso Generale del Movimento, difendere il progetto nazionale, l’unità della patria e del popolo e della cusa, e continuare la nostra lotta nazionale per realizzare gli obbiettivi del nostro popolo del ritorno alla libertà e all’indipendenza”.
Non è questa la sede per discutere delle prossime scadenze, siamo oggi chiamati a ragionare e confrontarci insieme ai compagni palestinesi su quanto è accaduto e per cercare di fare chiarezza sulla fase attuale, ma per parte nostra ci assumiamo l’impegno nei prossimi mesi a rilanciare l’iniziativa a partire da:
- la fine dell’embargo in tutti i territori occupati a cominciare da Gaza
- la campagna per la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri politici;
- la revoca dell’accordo di cooperazione militare con Israele.
* All'assemblea del 27 marzo a Roma sono intervenuti Samir Al Qariouti, Hatem dell'UDAP, Bassam Saleh, Sergio Cararo (Forum Palestina), Miriam Abu Samra (Associazione dei giovani palestinesi Wael Zwaiter), compagni palestinesi (Shuad, Jihad) e compagni italiani (Germano Monti, Marco Benevento) in un dibattito che è durato circa tre ore.