www.resistenze.org
- popoli resistenti - palestina - 17-04-08 - n. 224
Il laboratorio palestinese
Alberto Piris* - Estrella Digital
02/04/2008
Durante i lunghi anni della Guerra fredda, un certo tipo d’industria prosperò rapidamente: quella che poteva contribuire alla fabbricazione di armi nucleari e convenzionali come vettori (aeri) missili, sottomarini, etc., capaci di trasportare unità e di raggiungere gli obiettivi, ed in generale, quella che costituiva il vasto complesso dell'industria militare di guerra, orientata al tanto annunciato e terribile scontro, per terra, mare ed aria, tra i due blocchi che dividevano il mondo. I suoi benefici erano oscuri: davanti al dilemma tra vincere o essere annichiliti, molti stati si armarono fino a livelli non necessari. In Occidente, si aveva la convinzione che si sarebbe dovuto far fronte, contemporaneamente, al lancio d’innumerevoli missili di varia natura e all'avanzata delle divisioni corazzate sovietiche che avrebbero spianato l'Europa in una cavalcata trionfale, se non le si fossero opposte altre unità più potenti, meglio armate e provviste dei migliori strumenti bellici.
Era un mercato circolare. Annunciando sistematicamente immaginarie innovazioni tecniche dell'armamento nemico, si creava la necessità di superarlo con il proprio. Nessun governo voleva farsi accusare di voler speculare rispetto al prezzo da pagare per sopravvivere alla minacciosa marea sovietica. Da quando si progettava un nuovo sistema d’arma, fino al momento in cui era messo a disposizione degli eserciti, il suo prezzo si moltiplicava senza controllo. Ma chi avrebbe osato mettere in discussione quello che appariva necessario per fronteggiare con successo il nemico? La corsa agli armamenti nutrì le grandi e piccole compagnie dell'industria bellica.
Gli eserciti introducevano non senza riserve le novità tecnologiche nella vecchia struttura delle loro pratiche secolari. Ho un ricordo personale a riguardo. Il mio primo capitano in una batteria antiaerea, verso la fine degli anni 50, insisteva per dare personalmente il segnale di fuoco per i colpi manuali delle batterie — vecchia tradizione dell’artiglieria —, invece di lasciare questa decisione al radar ed al calcolatore elettronico, che decidevano automaticamente quando e dove sparare per abbattere l'obiettivo. A volte erano, dunque, gli stessi militari quelli che peggio accettavano le innovazioni della corsa militarista stimolata ed imposta dall'industria bellica.
Finita la Guerra fredda, scomparve il motivo che spingeva verso lo sviluppo di quel tipo di armamenti, ma l’11 settembre 2001 segnò una data cruciale e questi attenti costruttori individuarono da subito potenziali nuovi campi di sviluppo e di ricerca. Molti governi sarebbero stati disposti a pagare quanto necessario per disporre dei mezzi idonei a scovare un terrorista che vive o agisce nell'anonimato; dei procedimenti o strumenti per forzare le confessioni nei sospetti catturati; per controllare accuratamente le frontiere; per vigilare ed esaminare ingenti masse di informazioni da cui estrarre dati al fine di aumentare la propria sicurezza o, almeno, far credere ai cittadini che quello era il loro principale obiettivo.
In queste circostanze, un paese si è posto decisamente all’avanguardia: Israele. La sua industria di "difesa interna", prima quasi inesistente, da allora è cresciuta tanto da posizionarsi al quarto posto al mondo tra i paesi esportatori di tecnologie di difesa. A ciò contribuirono diversi fattori. Nessuno può negare che in Israele si coltiva e ricompensa l'intraprendenza personale, la capacità investigatrice, l'intelligenza ed il lavoro. Bisogna anche tenere conto dell'ipermilitarizzazione di una società in costante stato di guerra e condizionata da un'organizzazione militare che invade ampi spazi sociali.
Ma questi fattori non basterebbero da soli a giustificare un avanzamento tanto rapido. Come scrive Naomí Klein, giornalista ed investigatrice canadese d’origine ebrea, in Laboratory for a Fortressed World (Laboratorio per un mondo fortificato), bisogna aggiungere che Israele utilizza i palestinesi dei Territori occupati per sperimentare le sue innovazioni tecnologiche. Cisgiordania e, soprattutto, Gaza sono un laboratorio privato dove sperimentarle liberamente. Dalla "tecnica" della segregazione fisica, un eufemismo per parlare dei muri e dei controlli della moderna apartheid, passando per i sistemi di vigilanza o di guerra telecomandata, Gaza è un laboratorio di cui nessuna altra industria competitrice può servirsi.
Se a questo si unisce l'effetto propagandistico organizzato intorno ad uno Stato circondato da feroci nemici che vogliono la sua distruzione, ma che sopravvive con successo grazie ai suoi avanzamenti tecnologici, protetto da baluardi insormontabili, c’è da temere che il popolo palestinese, con le sue sofferenze, sarà considerato come cavia da laboratorio dell'industria israeliana di "difesa interna". Industria della quale si è avvantaggiata anche la Spagna, acquisendo sistemi d’armamento fabbricati in Israele [Italia e Israele nel 2005 firmano un accordo di cooperazione militare, vedi www.forumpalestina.org/news/2006/Ottobre06/13-10-06Accordo_Italia-Israele.htm, Ndt]. Quanto confuse sono le relazioni internazionali quando di esse non s’ignorano gli imprescindibili aspetti morali!
*Alberto Piris è Generale d’Artiglieria nella Riserva
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare