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traduzione dall’inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Palestina nel Medio Oriente: tra neoliberismo e potere statunitense
 
di Adam Hanieh*
 
16/07/2008
 
Seconda parte - (prima parte in www.resistenze.org/sito/te/po/pa/popa8g23-003520.htm)
 
Neoliberismo, il “Nuovo Medio Oriente” e la Palestina
 
Nei tardi anni ‘60, con il crollo definitivo del colonialismo inglese e francese in Medio Oriente, gli Stati Uniti divennero la potenza imperiale dominante nella regione. A causa della presenza del petrolio, il Medio Oriente assunse un’importanza cruciale per la costruzione complessiva dell’egemonia nordamericana all’interno dell’ordine globale. Il controllo delle risorse regionali funzionò nello stesso tempo per assicurare una merce vitale, per offrire una fonte di profitto, e come clava con cui influenzare le potenze rivali all’interno del mercato globale. Negli ultimi 30 anni, la regione – in particolar modo gli stati del Consiglio per la Cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council, GCC) - ha assunto, in modo crescente, l’importante ruolo di fonte dei flussi di surplus di capitale - e da ora il potere complessivo - all’interno dell’ordine finanziario globale.
 
La politica degli Stati Uniti nella regione è guidata da questi fattori. Poiché il Medio Oriente è un collegamento vitale dell’intero potere statunitense nell’economia globale, è necessario sviluppare una struttura politica che sostenga e conservi la loro influenza nella regione. Questa struttura politica (altrimenti nota come “politica estera” USA) è sviluppata attraverso i dibattiti quotidiani, le lotte e le sperimentazioni del capitale statunitense e dei suoi rappresentanti nei governi, le commissioni ed i think-tank. Nonostante le reali ed importanti differenze che continuamente sorgono, un largo consenso è emerso in tutti gli ultimi quarant’anni su come esercitare e mantenere l’influenza nella regione. Questo consenso poggia su tre pilastri fondamentali.
 
Primo, come altrove nel mondo, gli Stati Uniti contano su governi corrotti e ristrette élite che sono dipendenti per la sopravvivenza militare ed economica. Lo possiamo chiaramente vedere nel caso della Giordania e dell’Egitto, due alleati chiave degli Stati Uniti nella regione. Questi governi cooperano da vicino con gli Stati Uniti nelle questioni di sicurezza regionale e di relazioni economiche, così come nella globale “guerra al terrore”. Possiedono reti estese di polizia segreta, e le loro prigioni sono affollate di individui che sono stati torturati in stretta cooperazione con la CIA ed altri corpi. Le loro economie sono spalancate all’investimento straniero e il neoliberismo detta legge da anni.
 
In secondo luogo, oltre che su questi regimi clientelari, il potere degli Stati Uniti poggia sui paesi riuniti attraverso il progetto d’integrazione regionale, il Consiglio per la Cooperazione del Golfo. Il GCC fu stabilito nel 1981 tra Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Come progetto di integrazione regionale, il GCC è simile all’Unione Europea e mira a creare una zona economica unica che regoli i sei stati membri attraverso leggi uniformi, politiche economiche, una banca centrale comune, e una sola valuta entro il 2010. I paesi del GCC sono alleati particolarmente fidati degli Stati Uniti. Il loro pesante affidarsi a manodopera migrante indica che differiscono da stati come Iraq, Iran, Egitto e ogni altro luogo in cui i forti movimenti indigeni della classe operaia rappresentano una potenziale minaccia. Il GCC è anche un avamposto decisivo per le forze armate USA nella regione. Nel 2003, gli Stati Uniti hanno trasferito la sede del CENTCOM, il centro di comando unificato per le operazioni in 27 paesi, nel Qatar. Dal 2005, secondo un rapporto congressuale statunitense, più di 100 mila unità del personale militare USA sono state localizzate negli stati del Golfo (non includendo gli approssimativamente 150 mila in Iraq o il personale di sicurezza che agisce per le agenzie private). [1]
 
Infine, il terzo e più importante puntello del potere degli Stati Uniti nella regione è lo Stato israeliano. Fin dalla guerra del 1967, Israele ha avuto un ruolo chiave nel difendere gli interessi nordamericani nella regione. È l’arma che gli Stati Uniti utilizzano quando vogliono schiacciare i movimenti popolari ma non sono in grado di passare direttamente ad un’invasione. Sono molti gli esempi a questo proposito: partendo dal 1967 e continuando per tutti gli anni settanta, gli attacchi militari e gli assassinii israeliani falciarono in tutta la regione i movimenti nazionalisti arabi che stavano minacciando i regimi protetti. Durante gli anni ottanta, Israele fu usato per schiacciare le forze palestinesi e progressiste in Libano. In più occasioni Israele ha appoggiato gli obiettivi di politica estera USA nel mondo. Era un perno politico, il sostenitore militare ed economico del Sudafrica dell’apartheid e, negli anni di punta del boicottaggio e delle sanzioni economiche, era il canale d’ingresso delle merci sudafricane in Europa (una delle ragioni della posizione centrale di Israele nel commercio mondiale di diamanti). In America Latina e Centrale, armi ed istruttori israeliani furono impiegati per armare ed equipaggiare le dittature militari della regione durante gli anni ottanta.
 
Dai primi anni novanta, all’interno di una situazione geo-politica globale generalmente più favorevole, gli Stati Uniti stanno tentando di dare nuova forma alla relazione tra questi tre pilastri d’appoggio per consolidare meglio il loro potere e influenza. Il fine ultimo di questa politica è legare insieme questi tre pilastri in una sola zona economica neoliberista (chiamata “Nuovo Medio Oriente” da Condoleeza Rice nel 2006). E’ molto importante comprendere questa strategia: è centrale rispetto all’odierna politica dispiegata nella regione, così come lo sono le specifiche forze che sono a capo dei piani economici quali il PRDP (Piano di Riforma e Sviluppo Palestinese).
 
Nuovo Medio Oriente e MEFTA
 
L’impulso centrale alla strategia del Nuovo Medio Oriente arriva dall’intensificarsi delle politiche economiche neoliberiste – caratterizzate da privatizzazioni, accordi di libero scambio, abbattimento del settore pubblico, apertura all’investimento estero, taglio dei sussidi statali, e così via – in tutti gli stati della regione. Nell’ultimo decennio, sedotti da istituzioni finanziarie internazionali come Banca Mondiale e FMI e sostenuti da organismi regionali come il Fondo Monetario Arabo ed il Consiglio Arabo per gli Affari, tutti governi nella regione hanno virtualmente abbracciato queste politiche.
 
La svolta neoliberista è indicata dalla rapida ondata di privatizzazioni in Medio Oriente: fabbriche, linee aeree, servizi postali, ospedali, banche, centrali elettriche e idriche, sono state trasferite in mani private. In particolar modo, dalla prospettiva degli Stati Uniti e del capitale straniero, l’apertura dei campi petroliferi e di estrazione del gas della regione (e dei settori dell’industria petrolchimica) promette un’inversione generazionale nelle strutture della proprietà. L’esempio più drammatico è chiaramente visibile in Iraq, dove il governo ha recentemente accettato il ritorno delle quattro più grandi società petrolifere occidentali (le stesse che hanno controllato il petrolio irakeno dagli anni venti sino alla nazionalizzazione del 1972). Nonostante l’unicità dell’occupazione irakena, questo non è un esempio isolato Anche altrove nel Golfo, società petrolifere straniere stanno guadagnando l’accesso alle risorse di petrolio e gas, da cui sono state tenute lontane per decenni. Nel 2003, per esempio, alle compagnie petrolifere straniere è stata consentita l’esplorazione per la ricerca di gas in Arabia Saudita per la prima volta da trent’anni a questa parte.
 
Le politiche neoliberiste hanno anche significato la sospensione dei sussidi su beni e servizi di base come cibo, combustibile, elettricità ed acqua, ed affitto. Questo è spesso commissionato da Banca Mondiale e FMI in cambio di prestiti ed altri aiuti. Come già nel 1991, quando un prestito della Banca Mondiale alla Giordania fu condizionato al raddoppio del prezzo dell’elettricità e ad un aumento del prezzo dell’acqua del 140%. E quest’anno in Egitto, dove il 22% della popolazione vive al di sotto del livello di povertà fissato a 1 dollaro al giorno, e con i prezzi degli alimentari che sono più che raddoppiati rispetto l’anno passato, il governo alzò le imposte sui prezzi del combustibile che hanno portato ad un incremento di prezzo di più del 40% in una notte.
 
L’aspetto più di grande portata del neoliberismo nella regione, comunque, è la realizzazione degli Accordi bilaterali di Libero Scambio (Free Trade Agreements - FTA). Gli Stati Uniti hanno firmato i FTA con singoli paesi inclusi Bahrain, Oman, Egitto, Giordania, Israele e Marocco. Questi FTA impegnano i paesi in questione ad aprire i loro mercati alle società statunitensi e le dispensano dalle politiche di controllo delle importazioni (come il privilegiare società locali o impedire il flusso di capitale estero nella regione). Facendo così, provocano inevitabilmente la distruzione delle industrie locali e, cosa più importante, l’incapacità dei paesi di aumentare la spesa pubblica ed i servizi destinati ad aiutare i poveri (giacché sarebbe considerato “discriminatorio”).
 
C’è uno sviluppo supplementare dei FTA nella regione che è essenziale comprendere: l’Area di Libero Scambio per il Medio Oriente (Middle East Free Trade Area - MEFTA). Annunciata dagli Stati Uniti a metà del 2003, lo scopo del MEFTA è una unica area di libero scambio lungo il Medio Oriente entro il 2013. La logica dietro al MEFTA è esplicitamente neoliberista: il massimo della ricchezza, felicità e prosperità saranno realizzate rimuovendo tutte le barriere alle esportazioni e ai flussi di capitale verso e all’interno della regione, trattando il capitale straniero alla pari di quello nazionale, adottando programmi molto estesi di privatizzazione, permettendo la proprietà straniera, e riducendo la spesa dello stato sui servizi sociali.
 
Nel giugno 2003, l’allora rappresentante statunitense per il commercio, Robert Zoellick, pronunciò un discorso al Forum Economico Mondiale in Giordania in cui delineò esplicitamente questi principi come i cardini del piano MEFTA. Il discorso di Zoellick biasimò la povertà, la disoccupazione ed il terrorismo provocati dalla “autarchia” araba e da “modelli socialisti fallimentari”. Argomentò che se le economie fossero state liberalizzate ed aperte al capitale straniero, all’interno di un blocco commerciale regionale, questi problemi si sarebbero risolti. Secondo Zoellick, l’obiettivo degli Stati Uniti “è assistere le nazioni pronte ad abbracciare la libertà economica e lo stato di diritto, integrarsi all’interno del sistema del commercio globale, e portare le loro economie nell’era moderna”. [2]
 
La strategia statunitense era negoziare individualmente con i paesi “amici” usando un processo graduale a 6 tappe che eventualmente condurrebbe ad un FTA completo tra gli Stati Uniti ed il paese in questione. Questi FTAs individuali sarebbero poi collegati nel tempo finché l’intero Medio Oriente cadrebbe sotto l’influenza commerciale degli Stati Uniti. Essenzialmente, la logica che guida il MEFTA è la creazione una zona economica di libero scambio lungo tutta la regione, ancorata al capitale israeliano ad ovest ed a quello del Golfo ad est, ed entrambi legati all’economia del centro capitalistico avanzato degli Stati Uniti. Questo è ciò che intende Condoleeza Rice per “Nuovo Medio Oriente”.
 
Normalizzazione con Israele
 
Di capitale importanza per la realizzazione di questo progetto è l’integrazione economica e politica di Israele nella regione. È molto importante capire questo punto: “normalizzazione” (come è stata definita dalla sinistra palestinese ed araba) è la conditio sine qua non del MEFTA e di una visione neoliberale per la regione. Il rifiuto della normalizzazione ha da molto creato una linea che divide le forze progressiste della regione da quei governi e leader che mirano ad una collaborazione con Israele e l’imperialismo USA. Il contrasto di base dietro al rifiuto è che Israele non dovrebbe essere considerato un paese “normale” nella regione finché rifiuta di riconoscere l’esplicita natura coloniale del sionismo e nega il diritto al ritorno e all’autodeterminazione dei palestinesi.
 
L’insistenza degli Stati Uniti sulla normalizzazione economica e politica dei rapporti tra gli stati arabi e Israele non è nuova. Il nesso di quest’obiettivo con le politiche di stampo neoliberista, comunque, venne in superficie durante gli anni novanta con gli Accordi di Oslo. Come indicato ad Oslo, gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali promossero una serie di quattro vertici consecutivi, noti come Vertici Economici per il Medio Oriente e il Nord Africa (MENA), il primo dei quali tenuto in Marocco nel 1994. Il governo giordano non si dimostrò preoccupato nell’appoggiare lo scopo di normalizzazione dei MENA, col suo ministro degli esteri che apertamente notava che i summit erano “concepiti per creare interdipendenze economiche tra gli stati arabi e Israele, promuovere contatti personali tra le due parti e alimentare il commercio, gli investimenti e lo sviluppo”. [3]
 
A seguito della rivolta palestinese sul finire del 2000 [settembre 2000, Intifada di al-Aqsa, N.d.T.] e dell’apparente rottura delle trattative tra Israele e AP, la discussione sulla tendenza alla normalizzazione delle relazioni con Israele potrebbe apparire sbagliata. Lontano dalla ribalta dell’attenzione pubblica, gli intrecci economici e politici tra Israele e i governi arabi continuano ad approfondirsi. Un esempio del sostanziale collegamento tra neoliberismo e normalizzazione è rappresentato dagli accordi bilaterali del FTA. Ciascuno degli accordi tra Stati Uniti e i paesi nella regione contiene una clausola che impegna il paese in questione alla normalizzazione con Israele e impedisce ogni boicottaggio delle relazioni commerciali.
 
Forse la conferma più rivelatrice del modo in cui la normalizzazione è stata inquadrata nel progetto neoliberista è lo stabilimento delle cosiddette Zone Industriali Qualificate (Qualified Industrial Zones - QIZ) in Giordania ed Egitto. Queste zone sono il risultato di accordi economici tra Stati Uniti, Israele, Giordania ed Egitto. La loro istituzione contiene il provvedimento straordinario per cui i beni prodotti in queste aree industriali possono guadagnare lo status di esenzione da imposta per gli Stati Uniti, a patto che una certa proporzione di importazioni sia israeliana.
 
La maggior parte di queste QIZ includono aziende tessili che si comportano come subappaltatrici per il grande capitale nordamericano come Walmart, GAP e le altre catene di abbigliamento. Le stesse aziende sono di proprietà del capitale regionale ed internazionale, prevalentemente di Emirati Arabi Uniti, Israele, Cina, Taiwan, e Corea. Benché sia difficoltoso determinare accuratamente la grandezza della forza lavoro delle QIZ, si valuta che in Giordania contino 40 mila lavoratori, la maggior parte dei quali sono migranti provenienti da Bangladesh, Sri Lanka e da altri paesi sud asiatici. Le condizioni nelle quali lavorano sono orribili e raramente affrontate dalla sinistra araba e dai sindacati. Nessuna legge sul lavoro è applicata e ai lavoratori sono impedite unioni sindacali. Le paghe sono così basse da raggiungere i 2 centesimi l’ora, per 72 ore settimanali. I lavoratori sono percossi regolarmente, abusati sessualmente, e forzati a vivere in condizioni di sovraffollamento e sporcizia estreme. Essi devono pagarsi il viaggio in Medio Oriente ed i loro passaporti sono confiscati all’arrivo. [4]
 
Queste QIZ sono divenute dominanti nelle relazioni commerciali bilaterali tra gli Stati Uniti e la Giordania (ed in una minore estensione l’Egitto). Nel 2007, il governo statunitense riportava che le esportazioni dalle tredici QIZ stabilite in Giordania ammontavano ad uno stupefacente 70% delle esportazioni totali della Giordania verso gli Stati Uniti [5]. L’Egitto ha lanciato la sua prima QIZ nel 2004 ed ora ha un totale di quattro di queste aree. Nel 2006, la proporzione di esportazioni egiziane verso gli Stati Uniti prodotte nelle QIZ era arrivata al 26% di quelle totali.
 
Queste zone sono costruite per saldare insieme il capitale israeliano e arabo, integrandoli col mercato statunitense e l’impero americano, nello sfruttamento congiunto di lavoro a basso costo. Nessuna rappresentazione più chiara può essere trovata sul modo in cui gli Stati Uniti prevedono che sia il Nuovo Medio Oriente.
 
Distruggere l’unità popolare
 
Un corollario a questa visione ispirata dagli Stati uniti, di un’unica zona economica neoliberale che colleghi il capitale israeliano e mediorientale, riguarda i tentativi volti a spezzare e dividere le forme di unità politica e di resistenza sociale, sia nazionale che regionale, che si oppongono a questo progetto. La politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, va sottolineato, è volta all’isolamento e alla rottura delle forze che contrastano questa visione.
 
Per questa ragione, l’intervento militare degli Stati Uniti nella regione deve essere inteso come un complemento necessario ad una “pace” neoliberale. Con l’occupazione americana dell’Iraq, e le minacce e tentativi di destabilizzazione e attacco in Iran, Siria e Libano, gli Stati Uniti appoggiano e alimentano quelle forze sociali che essi sperano agiranno favorevolmente verso i loro interessi nella regione, ed intraprenderanno un processo di normalizzazione con Israele, come fatto dal governo giordano ed egiziano. Il fattore più importante nella politica USA è limitare le capacità, per i paesi nella regione, di esercitare un controllo indipendente sulla politica economica o estera. In questo senso, nonostante i regimi in loco (e non dovremmo dimenticare che paesi come Iran e Siria hanno le proprie prigioni sotterranee piene di prigionieri politici), gli interessi nazionali di questi paesi inevitabilmente si scontreranno con le forme di dominio che gli Stati Uniti tentano di imporre alla regione.
 
Nel caso della Palestina, questo rompere l’unità nazionale della resistenza è importantissimo rispetto al successo del progetto neoliberista nella regione. A causa della stretta relazione tra la normalizzazione con Israele e il progetto USA di un’unica zona economica neoliberale che si stende attraverso il Medio Oriente, la lotta palestinese conserva una posizione centrale all’interno della più ampia lotta antimperialista regionale. Il fatto che, da sessanta anni, i palestinesi rifiutino di accettare la loro espulsione del 1947-1948 e continuino a pretendere il diritto di ritornare a vivere sulla loro terra, non è solo una potente minaccia al carattere razzista dello stato israeliano ma anche alla natura del potere statunitense nella regione. Ecco perché è impossibile per qualsiasi movimento progressista che si sviluppi nella regione non porre al centro e collegarsi alla lotta palestinese. Tutte le lotte popolari nella regione saranno presto intrecciate con la questione palestinese.
 
Questo significa anche che le lotte regionali vittoriose contro l’imposizione del neoliberismo agiscono per fortificare la lotta palestinese. I recenti scioperi e le dimostrazioni dei lavoratori nella città egiziana di Mahalla ne sono un esempio. Mahalla è la sede della più grande fabbrica tessile del Medio Oriente (con 27 mila lavoratori) ed è anche il luogo di una delle QIZ dell’Egitto. Per due anni, questi lavoratori sono stati al centro di una delle più grandi ondate di scioperi in Medio Oriente, culminate più recentemente nel tentato sciopero del 6 aprile 2008, che ha incontrato la sanguinosa repressione del governo egiziano. Durante queste azioni, i lavoratori portavano cartelli che denunciavano gli stretti collegamenti tra il presidente egiziano Hosni Mubarak ed il FMI, il governo degli Stati Uniti, ed il processo di normalizzazione con Israele. Questi scioperi vanno dunque intesi non solo nel loro stretto significato economico, volto a migliorare salari e condizioni nelle fabbriche egiziane, ma anche attraverso il modo in cui essi necessariamente affrontano la natura del regime egiziano ed il suo ruolo nella configurazione del potere statunitense in Medio Oriente.
 
Questo è lo stesso contesto nel quale devono essere considerati il PRDP e le azioni dell’Autorità Palestinese. Fin dall’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967, Israele ha puntato a troncare la popolazione palestinese in quelle aree all’interno di centri isolati divisi l’uno dall’altro dagli insediamenti israeliani, da vie stradali di accerchiamento, e da installazioni militari. Queste sacche di territorio – descritte in modo adeguato come Bantustans da molti analisti in riferimento alle “patrie” nere sotto il Sudafrica dell’apartheid – rappresenterebbero i fregi dell’autonomia. Ma in realtà non sarebbero nulla più che prigioni a cielo aperto. In sostituzione del dominio diretto israeliano sulla popolazione palestinese, una acquiescente dirigenza palestinese si interporrebbe al controllo israeliano. Come per tutte le prigioni, il reale controllo rimarrebbe nelle mani di coloro che hanno le chiavi: le forze israeliane di occupazione continuerebbero a regolare l’ingresso di merci, persone e servizi.
 
Il processo di Oslo è stato elaborato per formalizzare lo stabilimento di questi Bantustan palestinesi e per accordare la benedizione della “comunità internazionale” ad una Autorità Palestinese ossequiosa. Benché questa intenzione sia stata indebolita dall’inizio della sollevazione popolare palestinese del settembre 2000, è dolorosamente ovvio a chiunque voglia guardare una mappa della Cisgiordania e della Striscia di Gaza che questi Bantustan hanno assunto un’esistenza molto concreta con i contorni finali del Muro dell’apartheid che circonda i villaggi e le città nella West Bank. Un elaborato sistema di posti di controllo, carte d’identità e permessi regola completamente l’ingresso e l’uscita da queste aree di persone e merci.
 
Possiamo apprezzare la realtà di questo sistema di controllo nel caso di Gaza, che forse può essere meglio letto come caso test per la Cisgiordania. Dal momento che il governo di Hamas nella Striscia di Gaza non ha accettato l’idea della bantustizzazione o normalizzazione, Israele ha semplicemente scelto di chiudere 1.5 milioni di persone all’interno di una prigione a cielo aperto, tentando di farli morire di fame fino alla sottomissione. L’Autorità Palestinese, nonostante l’unità a parole di Cisgiordania e Striscia di Gaza, è stata in generale accondiscendente a questo assedio. Effettivamente, in un esempio impressionante di come il comando dell’AP abbia disinvoltamente adottato il linguaggio di Israele, un documento chiave del PRDP afferma che la colpa per l’assedio su Gaza dovrebbe essere rivolta ad Hamas [6], ignorando il fatto che la chiusura della Striscia da parte di Israele e la separazione dalla Cisgiordania non è un fenomeno nuovo, ma si ripete dal 1989 come parte di una chiara strategia per spaccare il territorio.
 
I capitali palestinesi e regionali sono pienamente integrati in questo progetto attraverso schemi economici congiunti come le zone industriali descritte sopra. Queste forze traggono profitto direttamente dai concordati dei Bantustan e gli sarà accordato il controllo di alcuni spazi economici in cui accumularsi. Come attesta la Conferenza per gli Investimenti in Palestina, non saranno soggetti alle stesse restrizioni di movimento come la media dei palestinesi. Benedetta con l’appellativo “pace” dalla “comunità internazionale”, questa soluzione sarà annunciata come lo “stato palestinese”.
 
In realtà, il mosaico spezzettato di territori e zone industriali non ha niente a che fare con l’autodeterminazione. All’interno di questa mappa in evoluzione, la Cisgiordania diventa per Israele l’ingresso nel più vasto entroterra del Medio Oriente. Le imponenti autostrade che corrono da est ad ovest attraverso la Cisgiordania, e che connettono le città israeliane sul Mediterraneo con gli insediamenti nella Valle del Giordano, sono state chiaramente progettate per molto più che il semplice traffico locale: si presume che funzionino alla stregua di canali per il commercio tra Israele ed il Golfo, (attraverso Giordania e Cisgiordania). Il successo del MEFTA, e la parallela normalizzazione di Israele in un Medio Oriente neoliberale, è racchiuso nel riuscito compimento di questo processo.
 
Conclusione
 
Attivisti e sostenitori della lotta palestinese spendono molto tempo nel documentare e riportare ad un pubblico più largo le orribili condizioni affrontate dalla popolazione palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La litania degli abusi subiti dalle persone di Gaza sotto assedio, la continua costruzione di insediamenti e del Muro dell’apartheid in Cisgiordania, i modi nei quali il movimento e la vita quotidiana sono regolate dagli ordini militari israeliani, ed i livelli in continua crescita di povertà sono tutti catalogati meticolosamente.
 
Questi fatti sono importantissimi per spiegare la profondità e il fine del controllo israeliano sulla Palestina. Per coloro che non hanno avuto l’opportunità di vivere o testimoniare personalmente queste condizioni, la routinizzazione della miseria, che è la realtà della vita quotidiana in Palestina, ha bisogno di essere riportata.
 
Però, è necessario capire che il ricorso alla solidarietà basata su questi inusitati abusi dei diritti dell’uomo non va abbastanza lontano. I palestinesi non sono vittime ma un popolo in lotta. Questa lotta oltrepassa i confini della Cisgiordania e della Striscia di Gaza: è la parte centrale di una più grande lotta regionale. Oggi è impossibile comprendere gli eventi di ciascun paese nel Medio Oriente, senza collocare il contesto nazionale all’interno dell’unica, coerente ed unificata offensiva che gli Stati Uniti e gli altri stati imperialisti stanno intraprendendo contro i popoli della regione. Non è soltanto la profondità della sofferenza o la lunghezza dell’esilio che fa, della lotta palestinese, un imperativo dell’attuale solidarietà internazionale. È anche la posizione centrale di questa lotta all’interno del più ampio contesto di resistenza globale all’imperialismo e al neoliberismo.
 
Al cuore di questa struttura regionale vi è la relazione intrinseca tra lo sviluppo del capitalismo neoliberale in Medio Oriente e la normalizzazione delle relazioni con Israele. Tutti gli sforzi degli Stati Uniti e dei regimi da loro protetti nella regione sono finalizzati allo sviluppo di questi temi interconnessi. Non è accidentale che le discussioni chiave alle riunioni regionali convenute tra Rice, i rappresentanti del Quartetto e le altre figure internazionali, vertano intorno ai modi in cui incoraggiare progetti congiunti tra il capitale israeliano e quello regionale, inclusi i capitalisti palestinesi. Ecco perché gli accordi bilaterali statunitensi FTA insistono sulla normalizzazione con Israele, e perché un tale enorme sforzo è stato profuso in programmi come le Zone Industriali Qualificate.
 
Gli attivisti della solidarietà possono avere un ruolo chiave nel rifiutare e prevenire questo processo di normalizzazione. Mentre questa è stato per molto tempo la richiesta dalla sinistra palestinese ed araba, ha guadagnato un’urgenza rinnovata a seguito dell’annuncio di Bush del piano MEFTA nel 2003. Nel 2005, organizzazioni di base palestinesi hanno chiamato ad un movimento globale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro lo stato israeliano alla maniera della campagna contro l’apartheid in Sudafrica [7]. Da allora, gruppi studenteschi, amministrazioni comunali, artisti e unioni dei lavoratori in tutto il mondo hanno approvato le risoluzioni del BDS in supporto dell’appello del 2005.
 
Questo movimento è importante per la lotta complessiva nella regione. La solidarietà internazionale non è una questione di carità o di aiuto degli “sventurati”. E’ fondamentalmente è una questione di difesa e sostegno dei popoli in lotta. I BDS invocano il rafforzamento e consolidamento di quelle forze regionali che rifiutano di normalizzare i rapporti con l’occupazione e l’apartheid in Palestina. Esso è rivolto alla rottura del sostegno internazionale - ideologico, economico e militare - che consente alla variante israeliana dell’apartheid di continuare.
 
Gli sforzi di delegittimazione e di contrasto dell’ipotesi di normalizzazione con lo stato israeliano rappresentano, del resto, non soltanto un atto di solidarietà con la lotta palestinese, ma anche un elemento indispensabile nel sostegno verso gli altri popoli della regione, nella lotta contro l’occupazione a guida USA dell’Iraq e nel tentativo di prevenire azioni militari contro l’Iran o contro numerosi altri movimenti popolari in Medio Oriente. Ma soprattutto - a causa del ruolo centrale della regione nel sostegno all’egemonia globale degli Stati Uniti – ciò che succede in Medio Oriente ha implicazioni per tutti. Dal confronto con le politiche neoliberiste di immiserimento e di “concorrenza al ribasso” che hanno portato alla catastrofe la stragrande maggioranza dei popoli del mondo, dipende il nostro successo futuro.
 
*Adam Hanieh è un ricercatore in scienze politiche alla York University di Toronto, specializzato in politica economica del Medio Oriente e del Gulf Cooperation Council. Per contatti: hanieh08@gmail.com.
 
Note 
1. Kenneth Katzman, “The Persian Gulf States: Issues for U.S. Policy”, 2006, Washington D.C: Congressional Research Service The Library of Congress, p.10. 2. Robert B. Zoellick, “Global Trade and the Middle East: Reawakening a Vibrant Past”, Remarks at the World Economic Forum Amman, Jordan June 23, 2003, at www.america.gov. 
3. Hashemite Kingdom of Jordan, Foreign Ministry, Middle East and North African Summits, at www.mfa.gov.jo. 
4. See the May 2006 report by the National Labor Committee, “U.S.-Jordan Free Trade Agreement Descends into Human Trafficking and Involuntary Servitude” for a detailed examination of these conditions in Jordan. 
5. Office of the United States Trade Representative, 2007 Trade Policy Agenda, Section III, p.5. 
6. “Building a Palestinian State”, p. 4, www.imeu.net. 
7. See stopthewall.org/worldwideactivism/968.shtml.