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Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
I crimini di guerra di Israele
Appello per un’indagine sugli attacchi di Gaza
Richard Falk, Relatore speciale dell’ONU per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati.
15 marzo 2009
Israele addossò la responsabilità delle sue prime guerre alla minaccia per la propria sicurezza, anche quella contro Libano nel 1982. In ogni caso, la sua aggressione a Gaza non si giustifica e ci sono richieste internazionali per un'indagine. Ma esiste la volontà politica per far scontare ad Israele i suoi crimini di guerra?
Per la prima volta, fin dalla fondazione di Israele nel 1948, il governo sta affrontando serie accuse riguardanti i crimini di guerra da parte di autorevoli personalità pubbliche di tutto il mondo. Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, normalmente così cauto nell’attaccare gli stati sovrani - specialmente quelli allineati con il suo membro più influente, gli Stati Uniti, - si è unito alla richiesta per un'indagine sulle possibili responsabilità. Capire il significato di questi sviluppi è necessario per spiegare che cosa rende i 22 giorni di attacchi contro Gaza scandalosamente diversi dai molti precedenti ricorsi alla forza di Israele sotto la bandiera della sua sicurezza e degli interessi strategici.
A mio modo di vedere, ciò che rende l’attacco lanciato a Gaza il 27 dicembre diverso dalle principali guerre combattute da Israele durante il corso degli anni è che le armi e le tattiche usate hanno devastato una popolazione civile essenzialmente senza difesa. L'unilateralità dello scontro era così netta, come indicato dalle relative perdite su ambo i fronti (più di 100 a 1; più di 1300 palestinesi uccisi rispetto ai 13 israeliani, e molti di questi dal fuoco amico), che la maggior parte dei commentatori si sono astenuti dall’assegnarle l’etichetta di "guerra".
Gli israeliani ed i loro amici parlano di "ritorsione" e del "diritto di Israele a difendersi”. I critici hanno descritto gli attacchi come un "massacro" o hanno usato l’espressione di crimini di guerra e contro l’umanità. I passati ricorsi alla forza di Israele sono stati spesso ampiamente condannati, specialmente dai governi arabi, con annesse denunce di violazione della Carta delle Nazioni Unite, ma vi era un’implicito riconoscimento che Israele stava usando la forza in uno scenario di guerra. Le accuse di crimini di guerra (e di come erano avvenuti) arrivavano solamente dai governi radicali e dell’estrema sinistra.
Le prime guerre israeliane furono combattute contro i loro vicini arabi che stavano letteralmente contendendo ad Israele il diritto ad esistere come stato sovrano. Le esplosioni di forza erano di natura intergovernativa ed anche la guerra dei sei giorni del giugno 1967, in cui Israele mostrò la sua superiorità militare, venne considerata all'interno di uno scenario del normale mondo politico, e, sebbene potesse essere illegale, non venne giudicata criminale.
Dalla guerra in Libano del 1982 però le cose iniziarono a cambiare. L'obiettivo principale era colpire la presenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel Libano meridionale. Quella guerra è ora ricordata principalmente per la sua conclusione, con la macellazione di centinaia civili palestinesi disarmati nei campi profughi di Sabra e Shatila. Anche se quest’atrocità fu opera di una milizia cristiana libanese, l'acquiescenza, il controllo e la complicità israeliana facevano chiaramente parte del quadro. Comunque, questo fu un incidente che, benché allarmante, non era rappresentativo dell'intera operazione militare, che Israele giustificò come necessaria a causa dell'incapacità del governo libanese di impedire che il suo territorio venisse usato per minacciare la sicurezza israeliana.
L’eredità della guerra del 1982 fu l’occupazione israeliana nel sud del Libano e la formazione di Hezbollah come reazione, che diede il via ad una resistenza armata, la quale infine condusse ad un imbarazzato ritiro israeliano nel 1998. Questo ha preparato lo scenario per la guerra in Libano del 2006, nella quale l'avversario annunciato era Hezbollah, e la zona di combattimento inevitabilmente mescolava parti della popolazione civile libanese alla campagna militare intrapresa per distruggere Hezbollah. L'utilizzo della forza ad alta tecnologia da parte di Israele contro Hezbollah sollevava il problema della disuguaglianza di mezzi: si trattava di combattere contro una società ostile priva di strumenti di difesa equivalenti o contro uno stato nemico? Poneva anche la questione di opportunità politica per Israele di fare affidamento su una scelta militare, dal momento che Hezbollah uscì dalla guerra più forte e gli unici risultato reali furono di danneggiare la reputazione dell'IDF [l’esercito israeliano, N.d.T.] come forza di combattimento e di lasciare il Libano meridionale devastato.
L'operazione di Gaza ha esasperato la situazione perchè ha accuito l'allontanamento del conflitto contro uno stato verso una lotta contro i movimenti di resistenza armati, con il relativo mutamento di linguaggio di "guerra" a quello della "criminalità". Sotto questo importante aspetto Israele ha manipolato le percezioni ed i discorsi facendo in modo che l’attenzione dei media e della diplomazia si focalizzasse, per la questione del diritto penale internazionale, nel capire se l’uso israeliano della forza fosse o meno “sproporzionato”.
Questo modo di descrivere il ricorso israeliano alla forza ignora la questione fondamentale: in primo luogo, gli attacchi erano, sotto qualsiasi aspetto legale, di carattere "difensivo"? Un esame delle circostanze mostra l’assenza di ogni genere di necessità difensiva: una tregua provvisoria tra Israele e Hamas, in vigore dal 19 luglio 2008, era riuscita a ridurre le violenze di confine virtualmente a zero; Hamas ha costantemente offerto di estendere la tregua, anche ad un periodo più lungo di dieci anni; la rottura della tregua non è, in primo luogo, il risultato del lancio di razzi da parte di Hamas, ma scaturisce principalmente come risultato dell’attacco aereo israeliano del 4 novembre che uccise sei combattenti di Hamas a Gaza.
Forza sproporzionata?
In altre parole, non c’erano motivi per rivendicare il diritto alla legittima difesa poiché Israele non era oggetto di un attacco da parte di Hamas, e le alternative diplomatiche alla forza esistevano e sembravano plausibili, ed affidarsi ad esse con buona fede era giuridicamente obbligatorio. Partendo da questo presupposto, il fondamento del dibattito legale non dovrebbe chiarire se la forza israeliana fosse sproporzionata. Chiaramente lo era. Il ragionamento dovrebbe chiarire se gli attacchi israeliani rappresentavano un utilizzo illecito e non difensivo della forza nel quadro delle norme dell’ONU, caratterizzandosi piuttosto come un atto d’aggressione e, come tale costituire, un crimine contro la pace. A Norimberga, dopo la seconda guerra mondiale, i leader nazisti sopravissuti furono accusati di questo crimine, che nella sentenza fu descritto come "il crimine supremo" che comprende tutti gli altri.
La forma dello scontro di Gaza, quasi per necessità, oscura il confine tra guerra e crimine e, quando avviene in un’area chiusa e densamente popolata come Gaza, necessariamente mette insieme i combattenti della resistenza con la popolazione civile. Incoraggia inoltre il tentativo della resistenza di fare affidamento sul criminale bersagliamento di civili non avendo la capacità militare per opporsi direttamente alla violenza. A questo riguardo, gli attacchi israeliani su Gaza e la resistenza di Hamas hanno oltrepassato la linea che separa il combattimento legale dai crimini di guerra.
Le due parti non dovrebbero essere viste come egualmente responsabili per gli ultimi eventi. Israele ha dato inizio alla campagna contro Gaza senza un adeguato fondamento legale o senza una giusta causa, ed è stato responsabile di aver provocato la relativa ed intollerabile devastazione insieme alla sofferenza della totalità dei civili. L'approccio militare israeliano, per sconfiggere o punire Gaza, era intrinsecamente "criminale" e, come tale, rivelatore delle violazioni del diritto di guerra e dei principi della commissione per i crimini contro l’umanità.
C'è un altro elemento che rinforza l'accusa di aggressione. La popolazione di Gaza era sottoposta ad un blocco punitivo da 18 mesi quando Israele ha lanciato i suoi attacchi. Questo blocco era largamente, e giustamente, visto come una punizione collettiva in aperta violazione agli articoli 33 e 55 della IV Convenzione di Ginevra che regola la condotta di una potenza occupante verso la popolazione civile che vive sotto occupazione. Questa politica è condannata come un crimine contro l’umanità ed anche come una grave infrazione del diritto umanitario internazionale.
Ha inoltre causato all’intera popolazione di Gaza gravi carenze alimentari e disturbi mentali molto diffusi, lasciandola particolarmente vulnerabile all’attacco del tipo “shock and awe” [colpisci e terrorizza, N.d.T.] portato da Israele per terra, cielo e mare. Questa vulnerabilità è stata aumentata dal rifiuto israeliano di permettere che i civili di Gaza cercassero rifugio, mentre la piccola Striscia era sotto una così intensa pressione per i combattimenti. A duecento mogli non palestinesi è stato permesso di andare via, il che sottolinea la criminalità rappresentata dal chiudere bambini, donne, ammalati, anziani e disabili in una zona di guerra, e mostra il suo carattere etnicamente discriminatorio. Questa sembra essere la prima volta che, in condizioni di guerra, ad una popolazione civile viene negata la possibilità di diventare rifugiata.
Oltre a queste grandi questioni, esiste una varietà di crimini di guerra in relazione alle pratiche di combattimento israeliane sul campo. Queste accuse, sulla base delle prove raccolte dai gruppi per la difesa dei diritti umani, vedono l’IDF aprire il fuoco contro una serie di obiettivi civili, il personale militare israeliano negare l’aiuto medico ai palestinesi feriti ed impedire alle ambulanze di raggiungere le loro destinazioni. Sono anche documentate le testimonianze di 20 casi in cui i soldati israeliani sono stati visti sparare contro donne e bambini che sventolavano bandiere bianche. Ci sono inoltre le varie denunce associate all'utilizzo di bombe al fosforo nelle zone residenziali di Gaza, come anche le accuse di utilizzo di una nuova e crudele arma, conosciuta come DIME, che esplode con una tale forza da strappare a brandelli le parti del corpo.
Tali questioni sui crimini di guerra possono essere risolte solamente da chiarimenti che riguardino i fatti nonché l’esistenza delle basi per una possibile incriminazione degli esecutori, estesa ai comandanti e ai leader politici che autorizzarono, come faccenda di politica israeliana, l’uso di quelle armi e tattiche criminali. In quest’ambito si inseriscono anche le istanze israeliane relative ai razzi sparati contro gli obiettivi civili ed ai militanti di Hamas che usavano "scudi umani" attaccando intenzionalmente da obiettivi non militari.
Anche senza ulteriori indagini, non è prematuro porre domande sulla responsabilità individuale per i crimini di guerra. Gli atti più gravi che si riferiscono al blocco preesistente, alla criminalità intrinseca e non difensiva dell'attacco stesso e alle politiche ufficiali (per esempio il confinamento della popolazione civile all’interno della zona di guerra) sono stati riconosciuti. Le accuse contro Hamas richiedono ulteriori indagini ed accertamenti legali prima che sia appropriato discutere dell’individuazione delle possibili responsabilità.
Una domanda sovviene immediatamente dato che si parla, e non più di questo, dei crimini di guerra israeliani. Esistono delle possibilità che alle accuse seguiranno valide procedure per stabilire la responsabilità? Ci sono svariati procedimenti potenzialmente utilizzabili per imporre la responsabilità, ma alcuni di questi saranno disponibili nella pratica? Questo problema è già stato sollevato, ai più alti livelli, dal governo israeliano in forma di impegno ufficiale per proteggere i soldati israeliani dal dover affrontare le accuse per i crimini di guerra.
Il percorso più ovvio, per indirizzare le questioni più ampie riguardanti la responsabilità criminale, sarebbe di invocare la giurisdizione del Tribunale Penale Internazionale stabilito nel 2002. Anche se alla magistratura è stato chiesto di analizzare la possibilità di tale procedimento, è estremamente improbabile che possa portare a qualche risultato, considerato che Israele non ne fa parte e, secondo diverse verifiche, per lo statuto del TPI la Palestina non è ancora uno stato o un partito. Tardivamente, e piuttosto sorprendentemente, l'Autorità Palestinese ha cercato, dopo la tregua del 19 gennaio, di aderire al Trattato di Roma che stabilisce il TPI. Ma anche se la sua appartenenza fosse accettata, il che è improbabile, la data dell'adesione probabilmente escluderebbe azioni legali basate su eventi precedenti come l’operazione militare a Gaza. Ed è assodato che Israele non coopererebbe con il TPI riguardo alle prove, ai testimoni o imputati, e questo renderebbe molto difficile procedere anche se gli altri ostacoli venissero superati.
La successiva e più ovvia possibilità sarebbe di seguire il percorso adottato negli anni novanta dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU, stabilendo un tribunale internazionale ad hoc come venne fatto in riferimento ai crimini associati con lo scioglimento dell’ex Yugoslavia e con i massacri del Ruanda nel 1994. Questo sembra essere un percorso bloccato per Israele siccome gli Stati Uniti, e probabilmente gli altri membri permanenti europei, porrebbero il veto a tale proposta. In teoria, l'Assemblea Generale potrebbe esercitare un’autorità parallela, poiché i diritti umani sono all'interno della sua sfera di competenza ed è autorizzata dall’Articolo 22 della Carta delle Nazioni Unite a "stabilire tali organi sussidiari nel modo che ritiene necessario per l'adempimento delle sue funzioni". Nel 1950 agì su questa base per stabilire il Tribunale Amministrativo delle Nazioni Unite che aveva mandato di chiarire le controversie di lavoro con i membri del personale ONU.
Le realtà geopolitiche esistenti all'interno dell'ONU lo rendono improbabile (anche se sotto attento esame). Attualmente non sembra esserci la sufficiente volontà politica intergovernativa per intraprendere tale percorso controverso, ma la pressione della società civile può ancora renderla una scelta plausibile, specialmente se Israele persiste nel mantenere il suo blocco illegale e criminale su Gaza, opponendosi ai richiami molto estesi, incluso quello del presidente Obama, per aprire i valichi. Anche nell'improbabile eventualità che venisse stabilito, tale tribunale non potrebbe funzionare efficacemente senza un elevato grado di cooperazione col governo del paese i cui dirigenti e soldati sono sotto accusa. Diversamente dall’ex Yugoslavia e dal Ruanda, la leadership politica di Israele farebbe certamente del suo meglio per ostacolare le attività di qualsiasi organismo internazionale incaricato del perseguimento dei crimini di guerra israeliani.
Richieste di giurisdizione universale
Forse il percorso governativo più plausibile consisterebbe nel fare affidamento sulle richieste di giurisdizione universale [1] associate all'autorità delle corti nazionali per perseguire certe categorie di crimini di guerra, dipendendo, queste, dalle normative nazionali. Tale normativa esiste, in forme diverse, in più di 12 paesi, fra i quali Spagna, Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. La Spagna ha già citato molti dei principali ufficiali militari israeliani, anche se c'è una pressione politica sul governo spagnolo perché modifichi il suo diritto penale affinché respinga tale azione in assenza degli accusati.
Questa strada è stata imboccata nel 1998 quando l’alta corte spagnola accusò l’ex dittatore cileno, Augusto Pinochet, successivamente detenuto in Gran Bretagna dove l’obbligo legale all’estradizione fu infine esercitato con argomentazioni alquanto rigorose dalla maggioranza della Law Lords, la più alta corte del paese. Pinochet non fu estradato comunque, ma ritornò in Cile sulla base dell'inabilità a sottoporsi al processo e morì in Cile mentre i procedimenti contro di lui erano in corso.
Se la giurisdizione universale rappresenta uno strumento pratico per rispondere alle imputazioni per i crimini di guerra affiorati dall'esperienza di Gaza è dubbio. Le procedure nazionali saranno modulate dalle pressioni politiche, come fu per le corti tedesche che, un anno fa, rinunciarono a procedere contro Donald Rumsfeld per le accuse di tortura nonostante le forti basi di prova e la quasi certezza che non sarebbe stato perseguito negli Stati Uniti che, come suo stato natale, aveva la priorità legalmente riconosciuta sulla richiesta giurisdizionale. Inoltre, le procedure giurisdizionali universali sono piuttosto casuali, dipendendo sia dalla cooperazione di altri governi che dalla modalità dell'estradizione o dalla possibilità di trovare un potenziale imputato all'interno del territorio dello stato che lo persegue.
È possibile che possa nascere un procedimento di alto profilo, e questo darebbe grande rilevanza alla questione dei crimini di guerra, e una giurisdizione universale probabilmente rappresenta l'approccio più promettente nei confronti della responsabilità israeliana, nonostante i formidabili ostacoli. Anche se non risulta nessuna condanna (e nessuna esiste per atti comparabili), è probabile che la sola minaccia di detenzione e la possibile accusa interdica i progetti di viaggio degli individui passibili di probabile imprigionamento per le accuse di crimini di guerra, e ha un rilievo politico riguardo alla reputazione internazionale di un governo.
C'è, chiaramente, la possibilità teorica che le accuse, almeno per quanto riguarda le condotte sul campo di battaglia, come il fare fuoco contro i civili che si arrendono, sarebbero impugnate dai tribunali penali israeliani. Le organizzazioni per i diritti dell'uomo israeliane di prestigio, inclusa B'Tselem, stanno raccogliendo le prove per tali azioni legali ed avanzano l'argomentazione che un'iniziativa israeliana ha il beneficio nazionale di pregiudicare le convocazioni internazionali per tali azioni legali.
Quest’iniziativa israeliana, anche se non segue in alcun modo la via dell’azione legale, quasi certamente a causa delle costrizioni politiche, ha un significato. Darà credito ai controversi contenziosi internazionali per cui l’incriminazione ed il perseguimento dei leader politici e militari israeliani e di coloro che hanno compiuto i crimini di guerra dovrebbero avere luogo in qualche sede legale. Se in Israele la politica impedisce l’azione legale, l’attuazione del diritto penale internazionale dipende dall’intentare una qualsiasi causa possibile in un tribunale internazionale o in tribunali nazionali e stranieri e, se questo si dimostrasse impossibile, dal convocare un tribunale non governativo della società civile dotato di un’autorità legale simbolica.
Quello che sembra ragionevolmente chiaro è che nonostante il clamore per le indagini e le responsabilità sui crimini di guerra, sta mancando la volontà politica di procedere contro Israele a livello intergovernativo, all'interno delle Nazioni Unite come al di fuori di esse. Le realtà della geopolitica sono costruite, quando si tratta di crimini di guerra, intorno a doppi standard. Una cosa è procedere contro Saddam Hussein o Slobodan Milosevic, ma è completamente diverso andare contro George W Bush o Ehud Olmert. Sin dal processo di Norimberga dopo la seconda guerra mondiale, esiste l'impunità per quelli che agiscono in favore degli stati vincitori e potenti ed è probabile che nel prossimo futuro nulla possa minacciare questo dato di fatto della vita internazionale, oscurando in tal modo lo status del diritto internazionale come veicolo della giustizia globale, vale a dire la continuità nel suo dovere sanzionatorio. Quando si entra nel diritto penale internazionale, continua ad esistere l'impunità per il forte ed il vittorioso e la probabile responsabilità per il debole o lo sconfitto.
Sembra probabilmente che le iniziative della società civile condurranno all’istituzione di uno o più tribunali che operino senza il beneficio dell’autorizzazione governativa. Tali tribunali divennero autorevoli durante la guerra del Vietnam, quando Bertrand Russell assunse la direzione nell’istituire il Tribunale Russell. Da allora in poi il Tribunale Permanente dei Popoli, costituito a Roma, ha presieduto più di 20 sedute su di una varietà di temi internazionali che né l'ONU né i governi toccheranno.
Nel 2005 il Tribunale Mondiale sull'Iraq, tenuto ad Istanbul, accolse le deposizioni di 54 testimoni e la sua giuria, presieduta dalla scrittrice indiana Arundhati Roy, presentò una Dichiarazione di Coscienza che condannava gli Stati Uniti e la Gran Bretagna per l'invasione e l’occupazione dell'Iraq, citando i nomi dei dirigenti di entrambi i paesi che si sarebbero dovuti ritenere penalmente responsabili.
Il tribunale redasse un impressionante rapporto documentale su tali imputazioni, ricevendo una considerevole attenzione dai media, almeno in Medio Oriente. Tale iniziativa è attaccata o ignorata dai media [occidentali] perché unilaterale e priva di peso legale, ma in assenza di un’azione formale riguardo alle responsabilità, iniziative anche informali colmano, almeno simbolicamente, un vacuum legale e danno legittimità ad iniziative non violente contro la guerra.
La guerra della legittimità
Alla fine, il problema non eludibile è capire se i crimini di guerra ascrivibili al comportamento di Israele a Gaza interessano, ed in tale caso, quanto. Io credo che siano importanti in considerazione di quella che potrebbe chiamarsi "la seconda guerra", la guerra della legittimità, che spesso finisce per dare forma alle conseguenze politiche più dei risultati del campo di battaglia. Gli Stati Uniti vinsero ogni battaglia in Vietnam e persero la guerra; lo stesso vale per la Francia in Indocina e Algeria, e per l'Unione Sovietica in Afghanistan. Lo Scià dell'Iran crollò, come fece il regime dell’apartheid in Sudafrica, a causa delle sconfitte nella guerra della legittimità.
A mio giudizio l’affiorare di queste imputazioni contro Israele, durante e dopo i suoi attacchi su Gaza, hanno dato luogo ad importanti successi per i palestinesi sul fronte della legittimità. La percezione popolare molto diffusa della criminalità israeliana, specialmente l’aver intrapreso una guerra usando un armamento moderno contro una popolazione indifesa, ha spinto le persone in tutto il mondo a proporre il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni. Questa mobilitazione esercita una pressione su governi ed imprese perché abbandonino le relazioni con Israele, e richiama alla memoria la campagna mondiale anti-apartheid che tanto fece per mutare il panorama politico in Sudafrica. Vincere la guerra della legittimità non è garanzia di realizzazione dell’autodeterminazione palestinese nei prossimi anni, ma cambia l'equazione politica in una misura non pienamente apprezzabile in questo momento.
L’ordinamento globale offre una struttura legale capace di imporre il diritto penale internazionale, ma non si migliorerà senza la presenza della volontà politica. Israele sarà probabilmente immune da iniziative giudiziarie formali per accuse di crimini di guerra, ma affronterà le conseguenze che hanno origine dalla veridicità che queste accuse possiedono per l’opinione pubblica mondiale. Questa ricaduta sta rimodellando i fondamenti dello scontro Israele/Palestina e sta dando, rispetto al passato, di gran lunga più importanza alla guerra della legittimità (combattuta su un campo di battaglia politico globale).
Nota
[1] Il concetto di giurisdizione universale ha le sue radici nel confronto con la pirateria dei secoli passati, che permise ad ogni paese di catturare e perseguire un vascello pirata dovunque si trovasse, a dispetto della nazionalità di coloro che erano accusati di questo crimine.
Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all'Università di Princeton e nel 2008 è stato nominato Relatore Speciale dell’ONU per i Diritti umani dei palestinesi