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- popoli resistenti - palestina - 26-01-10 - n. 303
da: I Quaderni di Oltre Confine - “RIFLETTORI SU GAZA - Quale futuro per la Palestina?”
Mille occhi, e appetiti, su Gaza
di Maurizio Musolino, resp. Medio Oriente PdCI.
22/01/10
Gaza sotto assedio, stretta da un embargo tanto crudele e immorale quanto illegale e assassino, ma anche Gaza al centro della politica internazionale dei maggiori attori mondiali.
Sì, proprio così, quella piccola striscia di terra palestinese è oggi il centro di molti avvenimenti, scelte e destini dei principali protagonisti del globo. A Gaza infatti si gioca il futuro di molti leader arabi e lo stesso presidente statunitense deve oggi puntare su questo territorio per cercare di rialzare i consensi, ridotti al minimo da fallimenti e tentennamenti. Appena un anno fa Barak Obama aveva promesso alla vigilia della sua elezione una rapida uscita dal pantano iracheno e dalla guerra afgana e un nuovo impulso al processo di pace fra Israele e Anp. Dodici mesi e la realtà ci racconta altro. Ci racconta di un Iraq tutt’altro che pacificato, della decisione di inviare a Kabul decine di migliaia di altri soldati a stelle e strisce e di una Palestina ancora senza diritti. Nulla.
Una nebbia fittissima copre ogni ipotesi di un rilancio del dialogo fra israeliani e palestinesi, sul quale pesano macigni che Obama non riesce a rimuovere. Da una parte il governo di Tel Aviv è forse oggi il più a destra di sempre e si regge proprio sulla negazione di qualsiasi incontro con i palestinesi, da qui il rifiuto di qualsiasi compromesso – anche minimo – sul tema delle colonie, dall’altra parte Abu Mazen e l’Anp faticano a ritrovare consensi e vigore a causa di una situazione interna ai territori palestinesi occupati sempre più drammatica, all’incapacità di far concretizzare vie di uscite e ad una leadership quanto meno stanca e logorata.
Le ripercussioni di questo stallo ricadono per intero anche sugli stati arabi confinanti; dall’Egitto che vede Mubarak impegnato ad assicurare al figlio una difficile successione, alle collusioni giordane, per finire alle ambiguità di sempre che legano l’Arabia Saudita sia ai gruppi dell’estremismo islamico, anche quelli vicini ad Al Qaida, che all’amministrazione di Washington. Per tutti questi soggetti risolvere la questione Gaza, significherebbe oggi una boccata di ossigeno.
Ma Gaza è anche il centro dello scontro per l’egemonia sul mondo islamicosunnita fra Il Cairo e la Turchia. Il presidente della repubblica turca ha infatti da qualche tempo fatto fare alla politica estera del suo Paese una inversione di 180 gradi. Ovvero ha recuperato a pieno una vocazione “ottomana” rispetto a quella “asiatica” che aveva caratterizzato gli ultimi decenni il paese. Il neo-ottomanismo di Erdogan si concretizza in un protagonismo sull’area mediorientale che fa di Istanbul il perno su cui ruotano tanto il dialogo fra Siria e Israele sul Golan, quanto attraverso Hamas la possibilità di divenire interlocutore privilegiato anche di alcune frange islamico-sunnita oggi apparentemente in rotta con l’Amministrazione Usa.
Pezzi di universo islamico che spesso hanno fra le loro maggiori aspirazioni – anche se mai pubblicamente dichiarate – quella di vedersi riconoscere un ruolo e una rappresentanza proprio agli occhi del “demonio” americano. Hamas in questo senso non fa certo eccezione. E se quindi la Turchia segna un punto a suo vantaggio con la decisione del governo di Gaza di affidare ad Erdogan e ad emissari tedeschi le trattative per la liberazione del soldato israeliano rapito alcuni anni fa, l’Egitto risponde intensificando il blocco a Rafah e erigendo un muro sotterraneo capace di rendere inagibili i tunnel che oggi rappresentano l’unico polmone per la Striscia di Gaza. In questa scelta di strangolare l’esecutivo di Hamas incontra poi il sostegno di buona parte della dirigenza dell’Anp, desiderosa di riproporsi al mondo, ma anche in questo caso prima di tutto agli Stati Uniti, come l’unico e il solo rappresentante degli interessi palestinesi. Il cerchio si chiude con il re di Giordania e Netaniahu.
Entrambi tollerano benissimo la presenza di Hamas a Gaza - per il primo giustifica la sua politica repressiva contro le forze islamiche nel regno hashemita che poi si traduce con una fortissima oppressione verso tutte le forme di opposizione interna, per il secondo è paradossalmente la controprova della necessità di costruire in Israele uno stato ebraico, più di quanto nella realtà lo sia anche adesso – ma nello stesso tempo non possono negare a Barak Obama il loro sostegno, anche se formale, per rilanciare una trattativa da troppi anni morta e sepolta.
Infine il ruolo di Siria e Iran che vedono in Hamas un elemento di stabilizzazione-instabile della regione. Non una pace, ma uno status quo, magari ricco di tensione, buono per molti. L’Iran al di là delle divisioni all’interno del mondo musulmano, fra sciiti e sunniti, dialoga con Hamas e sostiene il governo di Gaza come deterrente ad un eventuale attacco diretto verso Teheran; Damasco dà da tempo ospitalità ai maggiori leader del movimento islamico palestinese come contropartita del via libera ad eventuali trattative per il recupero del Golan e come forma di pressione verso una dirigenza moderata dell’Anp che da decenni ha voltato le spalle alla famiglia Assad.
Un intrigato gioco di incastri, che ha però una vittima: il popolo di Palestina, il popolo di Gaza. Quegli uomini e quelle donne che vedono sempre di più peggiorare la propria vita, quegli uomini e quelle donne che subiscono il peso dell’embargo, ma anche quello di una islamizzazione forzata portata avanti da Hamas. Quegli uomini e quelle donne che invocano da anni la fine delle divisioni intra-palestinesi che indeboliscono la lotta per l’indipendenza.
A quegli uomini e a quelle donne va la solidarietà, senza se e senza ma, dei comunisti. Con loro vogliamo lottare.
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