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La guerra implacabile di Israele contro i bambini di Palestina

Ilan Pappe * | palestinechronicle.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

17/11/2022


Il funerale di Alaa Qaddum, 5 anni, ucciso da un attacco aereo israeliano nella Gaza assediata. (Foto: Mahmoud Ajjour, The Palestine Chronicle)

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"L'umanità ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di se stessa." Preambolo, Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo (1959)

Più della metà della popolazione che vive in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza ha meno di 18 anni; infatti, si può tranquillamente affermare che la metà degli abitanti della Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza assediata sono bambini. Chiunque conduca una guerra contro questi due territori, attraverso la demolizione delle case, gli arresti senza processo, la politica di sparare per uccidere e le umiliazioni, sta conducendo una guerra contro i bambini.

A volte, intere brigate militari dell'esercito israeliano, accompagnate da unità d'élite, polizia di frontiera e polizia inseguono un bambino e, nella maggior parte dei casi, lo uccidono o, se va bene, lo arrestano.

Se c'è qualcosa che è cambiato negli ultimi anni in quella che finalmente le Nazioni Unite sono state disposte a chiamare colonizzazione della Palestina, è l'intensificarsi della politica israeliana di "sparare per uccidere". E anche se molti di noi sanno che il nuovo governo israeliano non cambierà le politiche perseguite dai governi precedenti, ci si può aspettare un'ulteriore brutalizzazione nella guerra contro i bambini della Palestina.

Mentre scrivo questa rubrica, è giunta la notizia dell'uccisione da parte dei soldati israeliani di Fulla Rasmi Abd al-Aziz al-Musalamah. Stava andando a festeggiare il suo 16° compleanno. Si trovava con altre persone in un'auto vicino a Beitunia, quando i soldati, senza alcun motivo, hanno aperto il fuoco sull'auto e l'hanno uccisa. Inutile dire che il giornale israeliano che ha riportato l'"incidente" ha incolpato l'autista e non si è nemmeno preoccupato di menzionare il suo nome.

L'uccisione di bambini non è un aspetto nuovo delle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi. Nell'aprile del 1948, la leadership militare delle forze sioniste iniziò a definire con maggiore chiarezza la propria politica nei confronti della popolazione che sarebbe rimasta nei villaggi occupati durante la pulizia etnica del 1948. Una delle sue chiare linee guida era quella di uccidere o mandare in un campo di prigionia, a discrezione del comandante sul posto, "uomini in età da combattimento". Il comando definisce chiaramente cosa si intende per uomini: chiunque abbia più di dieci anni.

Come ogni politica distruttiva israeliana dopo l'espulsione e le uccisioni di massa del 1948, un nuovo metodo di azione e politica incrementale e per gradi è diventato la norma. Si tratta di una politica assai ingannevole, in quanto ci si trova di fronte all'uccisione di una o due persone di tanto in tanto, con delitti non facilmente collegabili per produrre un'accusa schiacciante. Questo era vero nei primi anni Cinquanta, ma da allora i numeri sono enormi e le uccisioni incrementali sono molto più visibili.

Nel novembre 1950, l'esercito israeliano uccise a colpi di pistola tre bambini di 8, 10 e 12 anni del villaggio di Yalo, mentre nel 1952 un commando israeliano uccise 4 bambini di età compresa tra i 6 e i 14 anni a Beit Jalla. Un anno dopo, tra i cinque pastori uccisi dagli israeliani nel febbraio 1953, uno era un ragazzo di 13 anni di al-Burg.

L'infanticidio incrementale a volte è sostituito da uccisioni più intensive di bambini. Durante la Prima Intifada, secondo l'associazione dei medici israeliani e palestinesi per i diritti umani, ogni due settimane l'esercito israeliano sparava in testa a un bambino sotto i sei anni.

Durante la Seconda Intifada, sono stati uccisi 600 bambini palestinesi. Tra questi, il dodicenne Muhammad al-Dura, il quattordicenne Fairs Odeh e l'undicenne Khalil al-Mughrabi. Cinquemila bambini sono stati feriti. Nel 2007, l'aviazione israeliana ha ucciso 8 bambini della famiglia Shehadeh a Gaza.

Nella prima ondata di attacchi su Gaza, nel 2008, sono morti più di 300 bambini, e altri 30 nel 2012. Il numero più alto di morti è stato registrato nel 2014, con oltre 550 bambini. In altre parole, dal 2000, 2.250 bambini palestinesi sono stati uccisi dall'esercito e dalle forze di sicurezza israeliane. Ciò equivarrebbe all'uccisione di quasi 45.000 bambini in Gran Bretagna da parte di forze militari o di polizia nello stesso periodo.

Perché è così importante registrare questi dati lugubri e terrificanti e definirne chiaramente il significato legale e morale? Per alcune ragioni. In primo luogo, il fatto che solo qui, in un media alternativo, si venga a conoscenza di queste atrocità, è un'indicazione dell'ipocrisia dei media occidentali e dell'élite politica quando si parla di Palestina, rispetto alla compassione mostrata verso i bambini in Ucraina o in Iran.

In secondo luogo, queste cifre accentuano la minaccia esistenziale che il sionismo e Israele rappresentano ancora per il popolo palestinese e il suo futuro. Israele non brama solo la terra, ma è intenzionato a portare avanti la distruzione del popolo stesso.

Ma la cosa più importante di tutte è l'esasperante assenza della Palestina dalla dibattito internazionale sulle uccisioni di massa in generale e su quelle dei bambini in particolare. Prendiamo ad esempio la definizione internazionale di omicidio di massa. Essa è definita come:

"Le azioni deliberate di gruppi armati, incluse ma non limitate alle forze di sicurezza dello Stato... che provocano la morte di almeno 1.000 civili non combattenti presi di mira come parte di un gruppo specifico in un periodo di un anno o meno".

Nella Prima e nella Seconda Intifada, nel 2009 e nel 2014, il numero di palestinesi uccisi da Israele ha superato di gran lunga il migliaio. Da nessuna parte, nelle Nazioni Unite o in altre organizzazioni umane che registrano uccisioni di massa in tutto il mondo, i palestinesi appaiono come un caso di studio.

Il gioco non è ovviamente sui numeri, ma molto più sull'ideologia che facilita tali uccisioni di massa; un tipo di disumanità possibile solo se gli esseri umani presi di mira sono disumanizzati. Un'ideologia che in molti casi porta a politiche genocide. La definizione di genocidio, secondo l'articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, include le uccisioni di massa, le lesioni fisiche e mentali e l'allontanamento fisico come indicatori di tali politiche.

Il rapporto del rappresentante speciale del Segretario generale dell'ottobre 2009, aggiornato nel novembre 2013, elenca sei gravi violazioni della legge internazionale sui diritti umani riguardanti i diritti dei bambini nei conflitti armati. In Palestina non c'è alcun conflitto armato, eppure tre di queste gravi violazioni si verificano quotidianamente nella Cisgiordania colonizzata e occasionalmente, in numero massiccio, nella Striscia di Gaza assediata.

Uccisioni e mutilazioni di bambini, attacchi contro scuole e ospedali e negazione dell'accesso umanitario. Alcune delle politiche israeliane attuate durante l'assedio di Gaza, in termini di negazione di cibo, energia e soprattutto assistenza medica, creano un criterio a sé stante che avrebbe dovuto essere aggiunto a questo documento.

Nell'agosto di quest'anno, il capo delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha espresso allarme per l'alto numero di palestinesi, compresi i bambini, uccisi e feriti nei territori palestinesi occupati dall'inizio del 2022. Si riferiva all'uccisione di 37 bambini dall'inizio dell'anno fino a quell'agosto ed era particolarmente inorridita dall'uccisione di 19 bambini in una settimana. Ha dichiarato:

"Infliggere ferite a qualsiasi bambino nel corso di un conflitto è profondamente inquietante, e l'uccisione e la mutilazione di così tanti bambini quest'anno è inconcepibile".

Essendo io stesso un padre, avrei usato una parola più forte di "inconcepibile". Ma mi accontenterò se l'uccisione di massa di bambini palestinesi da parte di Israele non verrà più negata o emarginata e apparirà come argomento urgente nelle sedi in cui la comunità internazionale discute delle più gravi violazioni dei diritti umani nel nostro tempo, e agirà di conseguenza.

Ilan Pappé, storico e professore all'Università di Exeter


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