Palestina A 77 anni dal 15 maggio 1948, Israele usa le stesse pratiche: violenza, sfollamento, distruzione delle reti economiche, politiche, culturali. Ieri pesantissimi raid su Gaza, 84 uccisi. In Cisgiordania suonano le sirene a lutto, a Tel Aviv commemorazioni vietate
Corpi di palestinesi uccisi nel raid israeliano che ieri all'alba ha colpito Jabaliya - Ap/Jehad Alshrafi
Le sirene hanno suonato per 77 secondi ieri nelle città e i villaggi della Cisgiordania, uno per ogni anno trascorso dalla Nakba e nella Nakba. 15 maggio 1948, Israele si proclama Stato e la Palestina vive la sua catastrofe, l'espulsione forzata dell'80% della sua popolazione dell'epoca, quasi un milione di persone.
Non durò un giorno solo, andò avanti per mesi, fatti di massacri per mano delle milizie paramilitari sioniste, esecuzioni, villaggi dati alle fiamme, bombardamenti sulle città della costa - le più ricche e vitali, i centri culturali e politici - e porte di casa chiuse a chiave, nell'attesa di un ritorno che è rimasto utopia. In quei mesi evaporava una società intera, la sua economia, la sua cultura, i suoi legami sociali, familiari, di quartiere, come non fossero mai esistiti.
Sparivano i giornali, i teatri, i cafè, gli agrumeti, i porti. I pochi che riuscirono a restare si ritrovarono chiusi in ghetti militarizzati, sotto legge marziale, in un paese nuovo di cui non parlavano la lingua e da cui erano visti come alieni, nemici. Gli altri, la stragrande maggioranza, fuggirono a piedi verso i vicini paesi arabi o furono caricati con la forza su camion e navi, in direzione di una diaspora che assumeva i contorni delle tende in stoffa bianca di campi profughi improvvisati.
Il popolo delle tende, 77 anni dopo, è ancora tale. Con il tempo e con la presa di coscienza che l'esilio non sarebbe stato breve come un brutto sogno, la stoffa è stata sostituita dal cemento di case arroccate una sull'altra nei campi profughi a Beirut, Damasco, Tripoli e in quelli di ciò che resta della Palestina storica, sotto la straniante categoria di «Territori palestinesi occupati».
Da 77 anni i palestinesi insistono a dire che la Nakba non è mai finita, è quotidiana realtà di spossessamento e identità negata, e mai come negli ultimi venti mesi è chiaro anche al resto del mondo: se nel 1948 le famiglie lasciarono le proprie case intatte, con gli armadi ancora pieni di vestiti, le tavole apparecchiate, i libri sulle mensole e i gelsomini nei cortili, ora le abbandonano che sono un cumulo di macerie indistinguibili l'uno dall'altro.
A Gaza, ma anche a Tulkarem e Jenin. I numeri sono impressionati: due milioni di sfollati nella Striscia, quasi l'intera popolazione, già nata profuga del 1948 in uno sfiancante circolo di esilio; 40mila solo nel nord della Cisgiordania, mentre a sud decine di comunità pastorali hanno dovuto lasciare le proprie terre in silenzio, spinti via - come 77 anni fa - dalle violenze brutali di gruppi di coloni, di fatto paramilitari.
A Gaza la Nakba oggi assume gli stessi contorni di quella dell'epoca: Israele lavora - su ammissione del primo ministro Netanyahu, che ha lamentato di non aver ancora trovato paesi volenterosi all'accoglienza della popolazione indesiderata - per espellere più palestinesi possibile. Nel frattempo, riduce sempre di più il territorio a disposizione, radendo al suolo le infrastrutture e allargando la cosiddetta «zona cuscinetto» con l'obiettivo - condiviso con gli Stati uniti - di usare gli aiuti come un magnete: centri di distribuzione a sud per costringere un popolo ridotto alla fame a concentrarsi nell'ennesimo ghetto.
L'altra faccia dei raid aerei, un mix di pratiche militari che hanno come fine l'assunzione del controllo totale non solo del territorio ma delle vite dei palestinesi. Ieri sono stati brutali, in serata si contavano almeno 84 uccisi. La maggior parte, 50, all'alba a Jabaliya: Israele ha colpito - senza avvertimento - cinque palazzi (o meglio, i loro scheletri) dove si erano rifugiate decine di famiglie. «Stavamo dormendo quando un'esplosione ci ha svegliato - ha raccontato ad al Jazeera Anas Saleh - Siamo scampati per miracolo. Tutti i nostri vicini sono stati uccisi». «Tutte le case sono sparite, anche la nostra. Grazie a dio siamo vivi», ha detto un altro palestinese.
Tra i target di ieri anche gli ospedali: prima l'European Hospital di Khan Younis, con sei raid che hanno centrato il cortile e distrutto un bulldozer portato lì per rimuovere le macerie dopo la strage di ieri nello stesso posto, 28 persone ammazzate; poi l'ordine di evacuazione dello Shifa, pubblicato su X dall'esercito israeliano, che ha gettato nel panico medici e pazienti. A Khan Younis, in un altro bombardamento, sono stati uccisi due bambini.
È la Nakba continua, e sempre più agghiacciante. Vietato anche parlarne: ieri il ministro israeliano all'educazione Kisch ha chiesto il taglio dei fondi pubblici (un miliardo di dollari in totale) alla Hebrew e alla Tel Aviv University come punizione per aver permesso agli studenti palestinesi di commemorare la Nakba. Dopotutto esiste una legge apposita che vieta qualsiasi manifestazione sulla catastrofe palestinese.
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