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La politica del riconoscimento e la cancellazione della Palestina: come l'Occidente utilizza il riconoscimento per gestire la Palestina e richiedere la legittimità di Israele

Jwan Zreiq | palestine-studies.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

11/07/2025

NEW YORK, USA - APRIL 18: US Deputy Ambassador to the UN Robert Wood votes against a resolution allowing Palestinian UN membership at United Nations headquarters in New York, on April 18, 2024, during a United Nations Security Council meeting on the situation in the Middle East, including the Palestinian question. The United States vetoed a Security Council measure on a Palestinian bid for full United Nations membership. The draft resolution, which was introduced by Algeria and 'recommends to the General As

Negli ultimi mesi, diversi governi occidentali hanno dichiarato il riconoscimento simbolico dello Stato palestinese. Tuttavia, tali gesti giungono in un momento di assedio, sfollamenti e occupazione militare, sollevando la seguente domanda: cosa viene riconosciuto esattamente e a quale costo?

La Palestina odierna è priva di sovranità. Non ha alcun controllo sui propri confini, sul proprio spazio aereo o sulle proprie risorse naturali. La sua popolazione vive sotto un'occupazione militare che governa ogni aspetto della vita quotidiana, dalle restrizioni alla libertà di movimento e alla demolizione delle abitazioni, fino al diniego dei servizi essenziali.

In questo contesto, il riconoscimento funziona più come teatro politico che come giustizia. Permette alle potenze occidentali di rivendicare progressi senza mettere in discussione i sistemi che sostengono l'oppressione palestinese.

Il riconoscimento simbolico è diventato uno strumento per gestire le richieste politiche palestinesi: riconoscere uno Stato sulla carta, eludendo la responsabilità per decenni di violenza, espropriazione e blocco.

Questa elusione non è nuova. Nel 1917, la Gran Bretagna emanò la Dichiarazione Balfour, promettendo la Palestina, che non le apparteneva, come "focolare nazionale per il popolo ebraico". La lettera del ministro degli Esteri Arthur Balfour a Lord Rothschild segnò l'inizio ufficiale di un progetto di espropriazione, in cui la sovranità palestinese fu cancellata dagli interessi imperiali.

Il riconoscimento odierno prosegue questa eredità: potenze straniere che definiscono il futuro di un popolo senza il suo consenso.

Allo stesso tempo, i palestinesi e i loro alleati sono costantemente sollecitati ad affermare il "diritto all'esistenza" di Israele. Ma non si tratta di una questione neutrale: è una trappola politica, volta a disciplinare il discorso e a limitare le richieste di giustizia.

Prendiamo Zohran Mamdani, membro dell'Assemblea dello Stato di New York e candidato democratico alla carica di sindaco di New York City, a cui è stato chiesto più volte in un forum pubblico di affermare Israele come Stato ebraico.

Egli ha rifiutato di sostenere qualsiasi Stato fondato sulla supremazia etnica o religiosa, insistendo invece sulla parità di diritti per tutti, indipendentemente dalla loro origine.

Questo principio da solo ha scatenato una tempesta: attacchi mediatici, accuse di antisemitismo e minacce personali.

Perché questa domanda viene posta solo ai palestinesi e ai loro sostenitori? Perché devono affermare la legittimità di uno Stato costruito sulla loro spoliazione?

Forse è ora di ribaltare la domanda: i leader israeliani e i loro alleati occidentali credono che la Palestina abbia il diritto di esistere? Condannano l'apartheid e l'occupazione che hanno plasmato la vita dei palestinesi per quasi un secolo?

I governi riconoscono la Palestina non perché le condizioni siano migliorate, ma perché il riconoscimento è politicamente conveniente. È un modo per rispondere alle pressioni internazionali senza cambiare la propria politica. Non ci sono sanzioni contro Israele. Nessuna richiesta di revocare l'assedio di Gaza.

Non c'è alcuno sforzo per fermare l'espansione degli insediamenti o difendere i diritti dei rifugiati.

Questo tipo di riconoscimento è vuoto. Riduce la tragedia palestinese a un "conflitto" gestibile. Riformula un sistema di dominio razziale come una questione di confini, non di potere. In effetti, il riconoscimento diventa un cessate il fuoco diplomatico: placa il rumore, senza fermare la violenza. Spesso è avvolto nel linguaggio di una "soluzione a due Stati". Ma quel quadro non corrisponde più alla realtà. C'è un solo regime che controlla tutta la terra tra il fiume e il mare: un sistema di apartheid basato sulla separazione, il controllo e il dominio.

Israele controlla i cieli, i confini, l'acqua e i movimenti. Impone sistemi giuridici separati. Aggrapparsi all'illusione dei due Stati significa negare la struttura del presente.

La Palestina che il mondo ora "riconosce" non è la Palestina dei rifugiati, né città come Haifa e Jaffa. È un frammento ridotto, reciso dall'immaginario politico che ha mantenuto viva la Palestina molto tempo dopo che era stata cancellata dalle mappe.

In questa prospettiva, la Palestina deve essere resa innocua: privata del diritto al ritorno, della rivendicazione della terra e della resistenza al colonialismo di insediamento.

Ma rifiutare questo tipo di riconoscimento non significa rifiutare la diplomazia. Significa rifiutare di accettare simboli al posto della sostanza.

I palestinesi non chiedono di essere visti. Chiedono la libertà. Uno Stato non ha alcun significato se non può proteggere il suo popolo, aprire i suoi cieli o seppellire i suoi morti senza permesso. Non ha alcun significato se è costruito sulle macerie, sul silenzio e sui diritti negati. Il riconoscimento deve seguire la trasformazione: la fine dell'occupazione, la revoca dell'assedio, il diritto al ritorno.

Il mondo non sta riconoscendo la Palestina. Sta riconoscendo la sua assenza.

Jwan Zreiq è una scrittrice e ricercatrice palestinese che vive in Giordania.


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