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Intervista all'ottantenne Lheila Khaled, storica guerrigliera palestinese
Julio L. Zamarrón | diario-red.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
20/05/2025
All'inizio del 2025, un gruppo composto da volontari provenienti da diverse regioni della Spagna ha avuto modo di intervistare la leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che dà il nome a questa Brigata: Leila Khaled.
L'ottantenne storica guerrigliera palestinese riflette su vari temi in una lunga intervista pubblicata in tre parti per Canal Red.

Prima parte [diario-red.com] Khaled riflette sul genocidio, la resistenza, il presente e il futuro della Palestina.
Seconda parte [diario-red.com] La storica guerrigliera palestinese riflette sulla posizione internazionale nei confronti della Palestina
Terza parte [diario-red.com] Khaled riflette in questa ultima parte sul ruolo che le donne palestinesi hanno avuto nella resistenza armata, nella lotta attiva e in tutte le forme di resistenza.
* * *
Parte prima

D: Sarebbe fantastico iniziare parlando con te degli eventi dell'ultimo anno. Stiamo assistendo a un genocidio palese, di cui tutta l'umanità è testimone e che possiamo affermare essere evidente, poiché sia i popoli occidentali che quelli arabi vedono chiaramente ogni giorno i massacri perpetrati dal sionismo israeliano. In una precedente intervista, hai affermato che il 7 ottobre ha segnato l'inizio della liberazione palestinese. Cosa significa per te la liberazione palestinese? Come la definisci?
Il 7 ottobre ha segnato una nuova fase nella storia del movimento nazionale palestinese. Non è stata una normale operazione militare, ma un vero e proprio punto di svolta.
Da un punto di vista militare, lo schieramento di 3.000 combattenti in un'azione simultanea non ha precedenti. Quello che è successo quel giorno è stata una chiara dichiarazione al mondo intero che il popolo palestinese vive sotto occupazione e che è giunto il momento di avviare il suo processo di liberazione. È così che intendo il 7 ottobre. Questo evento ha avuto un impatto e una risonanza globale. Il massacro non era ancora iniziato, ma la risposta è arrivata dopo sotto forma di genocidio.
Questo è un conflitto storico. Il popolo palestinese lotta da cento anni per la sua libertà e indipendenza, attraversando diverse fasi nel corso della sua storia. Non siamo stati i primi a prendere le armi e a combattere. Partiamo dal presupposto che la liberazione non può essere ottenuta attraverso negoziati né con alcun altro mezzo che non sia la lotta armata. E questa non è un'invenzione palestinese.
Nel corso della storia, numerosi popoli hanno utilizzato questo mezzo per ottenere la loro indipendenza, riuscendo a sconfiggere i loro colonizzatori in momenti diversi. In questo contesto, il 7 ottobre ha rappresentato l'inizio di una nuova fase, l'inizio della liberazione.
Dal punto di vista strategico, l'azione militare di quel giorno ha segnato una svolta. Un gruppo di 3.000 combattenti è riuscito a entrare in una base militare israeliana, situata all'interno di un insediamento, senza incontrare una resistenza significativa. Questo fatto ha amplificato la visibilità internazionale della causa palestinese. Il 7 ottobre è stato il risultato di decenni di lotta del popolo palestinese e del movimento nazionale palestinese, con tutte le sue ideologie e correnti di pensiero. Qual era l'obiettivo di questa azione? Fin dall'inizio, ha scosso le fondamenta del nostro nemico, che occupa la nostra terra sotto un regime coloniale e di sostituzione della popolazione.
Quando parliamo di questa occupazione, ci riferiamo a un fenomeno diverso da qualsiasi altro nella storia. Per questo consideriamo il 7 ottobre come il culmine della lotta accumulata dal popolo palestinese in tutte le sue fasi. Non è successo per caso, ma era una necessità per la liberazione.
Il popolo palestinese resiste dal 1917, quando fu emanata la Dichiarazione Balfour, che prometteva una patria nazionale per gli ebrei in Palestina. Ma questa non è stata una colonizzazione convenzionale, in cui gli eserciti occupano territori, come si è visto nella storia. Per questo ha un'importanza speciale nella vita del popolo palestinese.
Ora parliamo dei risultati ottenuti finora. In primo luogo, questa battaglia dura ormai da un anno e due mesi [l'intervista è stata realizzata alla fine del 2024]. In questo processo, il nemico, i suoi alleati e i suoi sostenitori, in particolare gli Stati Uniti, hanno svolto un ruolo fondamentale. Per la prima volta nella nostra storia con il nemico sionista in Palestina, l'occupazione non si limita solo a un'amministrazione militare e a un popolo sottomesso. Si tratta di un fenomeno molto più ampio e complesso.
I massacri sono iniziati nel 1948. Tuttavia, il popolo palestinese resiste dal 1917, affrontando la Dichiarazione Balfour e la migrazione sionista. Senza entrare troppo nei dettagli, il 7 ottobre rimarrà nella storia come un momento chiave in questa lotta storica, a conferma che la resistenza palestinese è ancora viva e non ha smesso di perseguire il suo obiettivo di raggiungere la libertà.
Ritieni che il prezzo che il popolo palestinese sta pagando sia troppo alto? Con così tante vittime, diresti che questa conseguenza era prevedibile e che si era preparati ad affrontarla? O credi che ora il popolo palestinese sia semplicemente una vittima? Questo prezzo è necessario?
Il conflitto con il nemico ha sempre causato vittime. Sempre. Siamo vittime dello sfollamento, poiché non tutti i palestinesi si trovano nella loro terra. Siamo il risultato di una Nakba continua, che continua dal 1948.
Il popolo palestinese continua a lottare e ad affrontare tutte le sfide perché non abbiamo altra scelta. Non c'è alternativa per chi vive ancora nei campi profughi. L'occupazione militare continua in Palestina e tutto il popolo palestinese subisce le conseguenze di una Nakba che non è ancora finita.
Stiamo pagando un prezzo? Sì, siamo consapevoli che il costo è alto. Le prigioni sono piene. Non si tratta di un fenomeno recente. Non è iniziato nel 1967, ma molto prima, durante il mandato britannico in Palestina. E questo prezzo lo paghiamo volontariamente, perché non abbiamo altra scelta se non quella di vincere. Finché il nemico rimarrà nella nostra terra, dovremo affrontarlo.
Tuttavia, questa volta il costo è stato ancora più alto. L'occupazione ha attaccato il nostro popolo con una brutalità senza precedenti. Non è la prima guerra nella nostra terra; dal 2008 abbiamo affrontato sei offensive. In tutti questi anni, il popolo palestinese ha resistito. Per questo motivo, il 7 ottobre è stato un evento che ha sorpreso positivamente. Sapevamo che avremmo pagato un prezzo, ma, ad essere onesti, non ci aspettavamo che fosse con il sangue dei nostri bambini, delle nostre donne e del nostro popolo.
Nonostante tutto, il popolo palestinese continua a sostenere la resistenza, anche all'interno di Gaza. La gente è stanca, sì, ma non ha espresso il proprio rifiuto della lotta. Pertanto, comprendiamo che questa strada richiede grandi sacrifici. La storia ha dimostrato che la liberazione delle nazioni avviene solo in questo modo.
I media hanno concentrato la loro attenzione esclusivamente sugli ostaggi a Gaza e, in molti casi, su Hamas, senza considerare che quanto accaduto il 7 ottobre è stato un atto di resistenza, come hai descritto in precedenza. Qual è la tua posizione politica su questo approccio?
L'attenzione principale si è concentrata su Hamas. La fallacia dello Stato occupante è che afferma di essere contro un'organizzazione, quando in realtà è contro il popolo palestinese. Coloro che lottano, indipendentemente dalla fazione a cui appartengono, fanno parte del popolo palestinese. Cercano di riscrivere la storia secondo i propri interessi e desideri, con l'obiettivo di cambiare la narrativa.
Tuttavia, sappiamo che la resistenza è parte essenziale del popolo palestinese. Fazioni come Hamas, la Jihad Islamica o il Fronte Popolare hanno fatto ricorso alle armi in passato e continuano a farlo oggi. È quindi comprensibile che i media occidentali insistano sul fatto che Israele, che chiamiamo "Stato illegittimo", sia stato creato da una risoluzione dell'ONU. Tuttavia, dobbiamo guardare alla storia per ricordare che Israele non è uno Stato comune.
Israele fa parte del movimento sionista, un progetto sostenuto dall'Occidente, con tutto il suo sistema e protetto dalle risoluzioni dell'ONU. Questa è una vera tragedia per noi come popolo, perché ci viene presentata solo una parte della storia: l'esistenza di Israele come Stato.
Nel frattempo, noi palestinesi siamo classificati solo come rifugiati che hanno bisogno di aiuti umanitari, come se la nostra situazione fosse semplicemente una crisi umanitaria e non la lotta di un popolo che rivendica i propri diritti e il ritorno alla propria terra. Ci negano il diritto al ritorno, ma noi affermiamo che questa è una lotta per la libertà, l'indipendenza e la nostra terra.
Si afferma che il Mossad fosse a conoscenza dell'attacco del 7 ottobre e abbia scelto di lasciarlo avvenire.
Il Mossad mente, così come tutti i suoi leader. Mentono per dare l'impressione di essere stati informati e preparati.
Fin dal primo giorno, Netanyahu ha dichiarato guerra e poi ha accusato i servizi di sicurezza di negligenza. Ma il Mossad non fa forse parte di quegli stessi servizi di sicurezza? Vogliono attribuirsi il merito. Credono che la Palestina gli appartenga e vogliono far credere che stanno difendendo la loro terra.
Ma è davvero così? Se affermano di difendere la loro terra, significa che riconoscono di aver oppresso un popolo e di essere stati occupanti. Allora perché si sorprendono che ci sia una risposta? Come possono fare una simile affermazione? Oggi, con la tecnologia e i social media, i segreti sono rari. Tutti possono vedere cosa succede attraverso i loro telefoni. Quindi stanno mentendo.
Ora hanno formato un comitato per indagare su chi sia il responsabile. Netanyahu, nonostante la sua posizione di primo ministro, non si è assunto alcuna responsabilità. Accusa gli altri e si scagiona. Ma se fosse davvero innocente, perché ha mobilitato il suo esercito? Perché ha dichiarato guerra? A quale scopo?
Non vogliamo continuare a parlare del 7 ottobre, perché crediamo che tu abbia già chiarito la questione. Tuttavia, prima di cambiare argomento, un'ultima domanda: nell'ultimo anno abbiamo assistito a manifestazioni in Israele per protestare contro la guerra. Sappiamo che un'alta percentuale della società israeliana sostiene il progetto sionista e appoggia l'occupazione. Questa parte della società è contraria all'esistenza del popolo palestinese e persino al concetto di due Stati. In Occidente, alcuni credono che ci siano giovani progressisti, persino comunisti e anarchici, che protestano a Tel Aviv contro la guerra, e il loro messaggio ha un grande impatto sui giovani occidentali. Quale messaggio hai per loro sulla realtà dei giovani israeliani e la loro opposizione al genocidio?
Le manifestazioni in Israele sono iniziate prima del 7 ottobre, in protesta contro una riforma giudiziaria promossa dal governo, che mirava a dare a Netanyahu un maggiore controllo sul sistema giudiziario del Paese. Inizialmente, le proteste erano dirette contro Netanyahu, ma dopo il 7 ottobre hanno cambiato obiettivo. Il loro slogan principale si è concentrato sulla questione degli ostaggi, invece che sulla richiesta di porre fine alla guerra.
Questo non è un popolo, ma una società eterogenea che si trova nella nostra terra sotto il nome di "Stato di Israele". Per questo motivo, il 7 ottobre ha rivelato verità che il mondo fino a quel momento ignorava. Ora il mondo conosce l'origine di questo conflitto e il motivo per cui persiste. Non si tratta solo di un conflitto con i palestinesi, ma contro l'intera nazione araba. Dal 1948 abbiamo assistito a numerose guerre con l'Egitto, la Siria, la Giordania e altri paesi.
Perché? Perché il progetto sionista ha come obiettivo principale la creazione dello Stato di Israele, un obiettivo che è già stato raggiunto. L'altro progetto è che Netanyahu osi dire che cambierà il Medio Oriente mentre è impantanato a Gaza e il suo esercito è bloccato lì.
Per la prima volta nella storia di Israele, questa entità ha chiesto protezione agli Stati Uniti, che hanno risposto inviando navi e attrezzature in Medio Oriente. Ma la questione non si limita a questo. Ora le verità sono più chiare e logiche, anche per questo mondo che ci ha negato e trattato solo come rifugiati, mentre continuiamo a vivere sotto occupazione.
Oggi tutto è chiaro. Sappiamo che si tratta di un genocidio, e il genocidio, per definizione, è lo sterminio di un intero popolo, cosa che gli israeliani stanno compiendo. Questo costituisce un crimine di guerra. Tuttavia, fino ad ora, Israele non è stato punito per tutti i massacri commessi nel corso della nostra storia. Per questo motivo, ora si leva con più forza la voce mondiale che denuncia questo genocidio, chiedendo che Israele sia punito. La pressione sui tribunali internazionali affinché prendano una decisione è crescente. È deplorevole che, già nel 2004, la Corte internazionale di giustizia abbia stabilito che l'occupazione, gli insediamenti e il muro sono illegali. In questo contesto, la Corte penale internazionale dovrebbe basarsi su questa decisione, poiché l'occupazione è illegittima e illegale fin dall'inizio e viola il diritto internazionale.
Non voglio entrare in altri argomenti, ma mi chiedo: chi ha definito il diritto internazionale? Lo hanno stabilito i paesi che hanno vinto la seconda guerra mondiale, ma chi lo applica? Nessuno lo fa. Per questo motivo Israele si considera al di sopra del diritto internazionale.
Parliamo della Palestina, della Palestina storica, come hai menzionato parlando delle origini della causa. Attualmente, alcuni paesi come la Spagna e la Norvegia stanno cercando di riconoscere lo Stato di Palestina e credono che questa sia la soluzione. Comunicano, ad esempio, con l'Autorità Palestinese, che sembra essere favorevole alla soluzione dei due Stati, secondo le notizie. Cosa ne pensi di questa iniziativa, del riconoscimento dello Stato di Palestina? Sei favorevole alla soluzione dei due Stati? Esistono molte soluzioni e approcci diversi. Cosa vuole veramente il popolo palestinese? Questa è la grande domanda. Partendo da qui, possiamo parlare dei progetti esistenti.
Il popolo palestinese vuole tornare nella sua terra, è un suo diritto, per poter decidere il proprio destino nella sua terra. Nessun popolo può decidere il proprio destino fuori dal proprio territorio. Gran parte del popolo palestinese è in esilio.
Stiamo creando uno Stato e alla fine uno Stato verrà creato. Fin dall'inizio, non siamo favorevoli alla soluzione dei due Stati. Io rappresento l'Organizzazione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e il nostro nome riflette la nostra identità. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina vuole la liberazione della Palestina. Ecco perché questo è il nome: liberazione della Palestina. Qualsiasi progetto che ci venga presentato che non sia questo, lo rifiutiamo.
Purtroppo, dopo l'intifada del 1987, una parte del popolo palestinese ha approfittato del momento e ha presentato una grande concessione negli accordi di Oslo. Prima di allora, le delegazioni di Madrid e Washington andavano e venivano. Ma l'idea principale e l'obiettivo è la liberazione della Palestina. Sempre sorge la domanda: cosa fare con gli ebrei? Non vogliamo fare loro nulla. Dico sempre che fanno la domanda sbagliata. Non è forse nostro diritto tornare e stare nella nostra patria?
C'è una risoluzione delle Nazioni Unite, la 194, che stabilisce il ritorno dei rifugiati alle loro case e il recupero delle loro proprietà come condizione per approvare l'adesione di Israele alle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite hanno accettato questo, hanno accettato di riconoscere Israele come entità per gli ebrei, come patria nazionale per loro, hanno diviso la terra come volevano e hanno detto che sarebbero stati due Stati.
Questo è quanto stabilisce la risoluzione 181 adottata dalle Nazioni Unite, la divisione della Palestina in due Stati: uno Stato ebraico e uno Stato arabo, ma non hanno detto palestinese. Per questo si basano su questo argomento, dicendo: perché si istituisce uno Stato e non l'altro? Lo Stato palestinese non è stato istituito ed è stato occupato da Israele nel 1967, che ha annesso altre terre.
Conosciamo questo progetto perché, come ho detto prima a proposito dell'occupazione, non si tratta di una normale occupazione militare, come quelle di un tempo, in cui si occupava semplicemente. L'Europa è sempre stata quella che ha colonizzato il mondo. Per questo diciamo che questa terra si chiama Palestina nella storia, nella geografia e nell'esistenza, come esistenza umana.
Ora queste questioni cominciano a chiarirsi un po'. Alcuni dicono che siamo contrari all'occupazione delle terre occupate nel 1967. Bene, e che ne è delle terre occupate prima di allora? Cosa ne pensate? Per questo non siamo favorevoli a nessuna soluzione che venga presentata né a nessun accordo. Qualsiasi accordo si voglia fare riguardo al popolo palestinese e alla sua causa, non trova il nostro favore se non mantiene il nostro diritto di esistere nella nostra terra, di tornarci, e questo riguarda i rifugiati, e allo stesso tempo stabilisce un sistema politico per noi e per coloro che vogliono rimanere, mentre coloro che non vogliono rimanere possono tornare nel loro paese, nel paese da cui sono venuti,
Per questo ora vediamo che molti israeliani si recano nelle ambasciate per ottenere la cittadinanza dei loro nonni, genitori o qualche parente. Perché sono arrivati in periodi diversi, non sono venuti insieme, ma da molti paesi. Vogliono ottenere una risposta da noi: perché non lo chiedete a loro? Perché lo chiedete a noi?
La nostra risposta alla loro domanda su cosa faremo con gli ebrei è chiara: non vogliamo fare loro nulla. Vogliamo liberare la nostra terra e tornarci. E questo a loro non piace, ci dicono che non accettiamo accordi e, per questo, vogliono combatterci.
Queste sono equazioni naturali. Dove c'è occupazione, c'è resistenza. Questo è stato presente nel corso di tutta la storia. Non abbiamo inventato la lotta armata. Cosa diciamo del Vietnam? Dell'Algeria? Del Sudafrica? Dei paesi dell'America Latina? Queste rivoluzioni sono avvenute in quei paesi, per quale motivo? Per la libertà del loro popolo.
Anche noi; non siamo diversi in questa questione. Pertanto, c'è una distorsione deliberata dei termini, fatta intenzionalmente a vantaggio dell'entità sionista, non del popolo palestinese.
La domanda sull'Olocausto in Europa non dovrebbe essere rivolta a noi. Non siamo stati noi, sono stati gli europei a farlo, non noi. Gli ebrei sono venuti da noi e noi li abbiamo accolti. Quando sono emigrati in quel periodo, li abbiamo accolti. Ci sono ancora dei video disponibili che potete vedere, che mostrano come sono arrivati sulle navi e come i palestinesi li hanno aiutati.
Perché sono venuti? Perché eravamo in Palestina sotto il colonialismo britannico, e questo ha facilitato la loro missione. Poi si sono trasformati in bande, ci hanno tradito e ci hanno cacciato dal nostro paese. No ai due Stati, come si dice "un diritto usato per uno scopo malvagio non è un diritto", nessuno ci concede il nostro diritto, siamo noi che lo rivendichiamo. E il nostro diritto è quello di tornare, e questa è la chiave della soluzione.
Non c'è nessuna soluzione che possa andare avanti, come gli accordi di Oslo, l'"offerta del secolo" e altri. Sono tutti progetti inutili, al contrario, sono progetti della parte nemica del popolo, dei suoi diritti e dei suoi sogni di libertà.
Non ti chiederò la tua opinione sull'accordo di Oslo, perché è già ben nota. Tuttavia, la questione della soluzione dei due Stati è ora rilevante, poiché quest'anno alcuni paesi hanno iniziato a riconoscere lo Stato di Palestina. Allo stesso tempo, continuano a inviare armi allo Stato occupante. Sostengono che se lo si riconosce, si potranno ottenere più diritti. Vorrei che questo punto fosse conosciuto e discusso. La seconda questione è la seguente: in precedenti interviste, hai menzionato l'ipocrisia araba nella lotta palestinese. Cosa intendi esattamente con "ipocrisia araba"?
"I paesi arabi hanno normalizzato le loro relazioni con Israele. Usano la causa palestinese come scusa. Dicono: 'Siamo con il popolo palestinese, aiutiamo il popolo palestinese, e deve avere il suo Stato...' Ne parlano e ora promuovono la soluzione dei due Stati. Tuttavia, c'è una differenza tra creare uno Stato in una parte liberata della nostra terra, come è successo a Gaza, dove gli israeliani hanno dovuto andarsene perché sentivano che quel luogo era diventato un 'nido di vespe', come ha detto Isaac Rabin.
Non vogliono che quella situazione si ripeta nel resto della Palestina. Quello che cercano è di distruggerci. Stiamo vivendo quello che si chiama genocidio. È una pulizia etnica, non solo un genocidio, ma un omicidio sistematico per sterminare un popolo.
Ci vedono come una razza non semitica che deve morire, noi e gli altri. E coloro che lottano contro l'antisemitismo hanno assistito a ciò che è accaduto, come ad Amsterdam. [si riferisce agli scontri contro i tifosi del club israeliano Maccabi] Ma questo è stato presente fin dall'inizio, quindi non dobbiamo temere i termini del nemico.
Ora non parlano solo di occupazione, ma anche di genocidio, e lo vediamo riflesso nei cartelloni delle manifestazioni. Anche la parola "apartheid" sembra infastidire Israele. Attualmente, esiste una settimana dedicata alla lotta contro l'apartheid sionista israeliano. Nel terzo mese dell'anno, durante la prima settimana di marzo, si celebrano questi giorni di protesta contro l'apartheid. Questo stato è stato caratterizzato da due termini: apartheid e genocidio, combinati insieme.
La causa palestinese è diventata nota nelle strade occidentali e arabe. Non c'è nessuno che non legga, non c'è nessuno che non sostenga la Palestina, nessuno dice che non si tratta di genocidio. Ma in Europa, in Francia o in Germania, questi slogan sono stati perseguitati. Si diffondeva la paura che la gente scendesse in strada e parlasse di ciò che sta accadendo. Oggi cercano di far passare la frase "dal fiume al mare" come una frase terroristica o antisemita. Cosa significa per te la frase "dal fiume al mare"? E quanto è importante?
Stiamo parlando della Palestina storica. È così, dal fiume al mare. È nei documenti religiosi. Non esiste nulla che si chiami 'Israele'. Anche nei documenti non esisteva "Israele". Esisteva la Palestina.
Nella Bibbia è Palestina, nel Corano è Palestina, nella Torah è Palestina. Come è potuto succedere? Non parliamo dal punto di vista storico. Cosa è successo? Ma vogliamo dire, cosa hanno fatto gli arabi in tutte le nostre guerre con loro? Niente.
Al contrario, hanno consegnato la Palestina. Cosa erano prima? Non erano paesi, erano divisi. Dopo il governo ottomano, quindi, erano legati al colonialismo. Sia gli inglesi che i francesi hanno occupato l'intera regione. L'hanno disegnata a loro misura. Solo per dividere gli arabi.
E hanno lanciato slogan con la causa palestinese. Ma non abbiamo visto alcuna azione. La cosa più pericolosa ora è che stanno normalizzando le relazioni. Sei paesi hanno normalizzato le relazioni con Israele. L'Arabia Saudita sta aspettando la fine della guerra per firmare il suo accordo. Forse questa guerra impedirà loro di firmare. Forse sentono un pericolo maggiore per loro. Ma fino ad ora non sentivano alcun pericolo. Lo abbiamo visto nella Lega Araba. Quali decisioni hanno preso? Qualcosa di vergognoso. Questa è la nostra storia con loro. Abbiamo notato che nei luoghi in cui i palestinesi sono stati attaccati, nessun paese li ha difesi. I paesi arabi, alcuni hanno già normalizzato le relazioni e altri no. Sono tutti dalla stessa parte.
* * *
Seconda parte

Qual è il ruolo dell'Autorità Palestinese in tutto questo?
L'Autorità Palestinese e i paesi arabi sono consapevoli dell'entità sionista. Sanno qual è l'obiettivo. Oggi hanno iniziato in Palestina, domani continueranno in un altro paese. E lo stesso Netanyahu esce in pubblico con una mappa e lo indica.
Oslo è un punto di svolta contro la causa del popolo palestinese, e coloro che hanno firmato l'accordo fanno parte della leadership del popolo palestinese, in particolare fanno parte della leadership dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
Hanno approfittato della prima intifada per firmare questo accordo, che è un accordo di principio, non simile all'accordo di Camp David, che contiene misure concrete, o all'accordo di Wadi Araba, che ha altri aspetti.
L'accordo di Oslo ha aperto un ponte affinché gli arabi normalizzassero le relazioni con Israele, e questo è stato il primo risultato dell'accordo. Ma ci sono stati risultati catastrofici sul campo. All'inizio dicevano che Israele aveva violato l'accordo di Oslo, in cui il mondo ha riconosciuto almeno il ritiro dai territori occupati. Ma questo accordo non parla del ritiro israeliano dai territori occupati. L'accordo non parla di questa questione. L'accordo non parla dei diritti al ritorno del popolo palestinese.
E questo è stato confermato dalla risoluzione 194 dell'ONU, che stabilisce il diritto al ritorno dei rifugiati, e sulla base di ciò è stata creata l'UNRWA come organismo dell'ONU per aiutare i palestinesi con assistenza umanitaria e impiego.
Pertanto, l'accordo mira a porre fine all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e a sostituirla con l'Autorità Palestinese, e questo è ciò che è avvenuto sul campo. L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina è diventata un nome, utilizzato solo per firmare accordi, e il mondo lo ha accettato.
Purtroppo, questo accordo non ha affrontato la questione degli insediamenti. Chiunque voglia firmare un accordo con un nemico deve affrontare i suoi problemi. Qual è la causa palestinese? È una questione di terra e di popolo. Chi controlla la terra? E il popolo, dov'è il diritto al ritorno dei rifugiati? Ci sono più di 10 milioni di rifugiati palestinesi fuori dalla Palestina, senza contare i rifugiati all'interno della Palestina. Non hanno parlato della questione dell'acqua, né degli insediamenti, né dei diritti del popolo palestinese, allora di cosa hanno parlato?
Hanno parlato di un accordo di principio. Quando sono andati a firmare l'accordo alla Casa Bianca, dopo i negoziati di Oslo tra i negoziatori palestinesi e quelli israeliani, hanno agito alle spalle del popolo palestinese. Il movimento nazionale si è indebolito con questo accordo, ci sono state divisioni all'interno del movimento nazionale palestinese. Alcuni hanno sostenuto l'accordo, come il movimento Fatah, e questo ha fatto sì che Fatah si frammentasse, non sarebbe più stato il Fatah che imbracciava le armi e combatteva, ecc.
Chiunque abbia letto l'accordo troverà che è scritto in un linguaggio generico. L'ho letto dieci volte, se non di più, perché ogni volta scopro qualcosa di nuovo. Non c'è nulla di pratico sul campo. Né acqua, né insediamenti, né confisca di terre, né Gerusalemme, niente di tutto questo.
Per questo hanno stipulato accordi di sicurezza, ed era questo lo scopo di questo accordo. Far sì che l'Autorità Palestinese fosse nelle mani degli israeliani per affrontare il popolo palestinese se avesse cercato di resistere.
Ed è proprio quello a cui stiamo assistendo con il coordinamento della sicurezza. Hanno introdotto Dayton per dire che volevano creare il "nuovo palestinese", cioè il nuovo palestinese che non resiste, ma è contro la resistenza. E gli slogan della lotta armata sono stati sostituiti da quelli della resistenza pacifica. Cosa significa resistenza pacifica? Non abbiamo mai sentito dire che un paese si sia liberato solo attraverso le manifestazioni.
Beh, le manifestazioni sono importanti, sono l'espressione del popolo sui suoi sogni e le sue speranze di libertà. Questo ha quindi aperto una grande porta agli arabi per normalizzare le loro relazioni con Israele. Emirati, Bahrein, Arabia Saudita, Marocco, Sudan, tutti questi paesi hanno normalizzato le loro relazioni in un anno, con quello che chiamano l'accordo di Abramo. Questi paesi non hanno firmato accordi dettagliati, ma hanno firmato la normalizzazione con Israele. Quando hanno voluto mettere per iscritto le clausole dell'accordo, Israele ha chiamato l'uomo più importante in materia di diritto, che è ebreo, ma a parte questo, il suo nome è Yoel Zinger, uno dei più famosi avvocati di diritto internazionale.
È venuto a Tel Aviv e ha chiesto a Isaac Rabin: cosa volete da questo accordo? Lui rispose: "Lo vogliamo ambiguo, ogni paragrafo deve essere ambiguo e deve poter essere interpretato in molti modi, il che significa che ogni persona lo interpreterà come vuole", e qui si riferisce ai palestinesi.
Yoel Zinger fece una domanda: "Esiste uno Stato palestinese? Lui rispose di no. "C'è un ritiro israeliano? No. E ha modificato l'accordo di Oslo su questa base, dicendo loro che potevano firmare accordi secondari dopo aver firmato prima l'accordo di Oslo. Ed è quello che è successo. Quindi Israele non rispetta la firma di quell'accordo né altro. Infatti, gli insediamenti sono aumentati, la demolizione di case è aumentata in Cisgiordania. Sono lì, e presto ci saranno un milione di coloni negli insediamenti della Cisgiordania.
La situazione all'interno della Cisgiordania è completamente controllata dagli apparati di sicurezza, ma nonostante ciò, hanno scoperto che la situazione non era come la volevano, si chiedono perché c'è resistenza, perché dopo Oslo sono sorte nuove brigate di resistenza, come la brigata di Jenin, la brigata di Tulkarem, la brigata di Gerico, la brigata di Nablus e altre.
Tutto ciò dimostra che il popolo palestinese resiste a qualsiasi progetto che non gli garantisca i propri diritti. Non c'è nessun progetto tranne uno, quello della lotta armata, la via più breve per i popoli per ottenere la libertà ed è la via migliore che un popolo sceglie per la libertà della propria terra e il recupero dei propri diritti.
Hai parlato dei rifugiati palestinesi all'estero e dell'importanza della loro lotta quando scendono in piazza per manifestare, e del fatto che le manifestazioni non saranno l'unica soluzione per liberare la Palestina, ma che è necessaria anche la lotta armata per la liberazione. Ma anche le manifestazioni sono importanti, soprattutto per i rifugiati che manifestano per il diritto al ritorno e altre questioni. Recentemente è emersa una nuova generazione con una nuova coscienza, nata all'estero, che sta guidando le manifestazioni e parla della lotta armata, e la vediamo nelle manifestazioni alla guida. E di questa generazione fanno parte le donne, le palestinesi all'estero, nella diaspora. Hai visto queste manifestazioni? Cosa ne pensi dell'importanza delle manifestazioni all'estero, specialmente quelle guidate dalle donne?
Il 7 ottobre ha portato con sé un cambiamento significativo nella coscienza dei popoli del mondo. Per la prima volta, si sono sentite manifestazioni per la Palestina in luoghi lontani come la Thailandia, e la bandiera palestinese ha sventolato in tutto il mondo. Mai prima d'ora si era vista una dimostrazione di solidarietà globale di questa portata.
In quelle manifestazioni, si sono viste persone che indossavano la kefiah e scendevano in strada nonostante le leggi che cercano di vietare questa espressione di sostegno. I giovani hanno sfidato queste leggi, dimostrando la loro fermezza e determinazione. Uno dei risultati più importanti del 7 ottobre è stato proprio questo: ha chiarito in modo inequivocabile chi sta con il popolo palestinese e chi sta con l'occupante, a livello globale.
Un fenomeno degno di nota di questo risveglio è stata la cosiddetta "Intifada delle università". In università rinomate come Harvard e Yale, studenti di diverse discipline - storia, sociologia, psicologia, scienze politiche - hanno iniziato a mettere in discussione lo status quo e a impegnarsi nella lotta. Questi centri accademici, che preparano le future generazioni ad assumere ruoli di potere, sono diventati campi di scontro ideologico. Così, il 7 ottobre ha permesso di vedere chiaramente chi sta con il popolo palestinese e chi sta con l'occupante.
Questo momento storico richiede anche che andiamo nel mondo per spiegare in dettaglio i nostri diritti. L'occupante deve essere indicato per quello che è: un criminale di guerra che commette genocidio, tra gli altri crimini. Nelle recenti manifestazioni, abbiamo visto emergere nuovi slogan che prima non venivano gridati. Nelle guerre passate si sentivano slogan come "Fermate la guerra!". Ora invece si sentono grida come "Fermate il genocidio!" e "Fermate il razzismo e l'apartheid!", il che dimostra un cambiamento nella percezione globale del conflitto.
Questo segna un chiaro appello a confrontarsi con gli Stati Uniti, il movimento sionista e i regimi arabi reazionari, tutti riuniti nello stesso campo. Di fronte a questo, ogni persona libera deve scegliere: stare dalla parte dell'aggressore o dalla parte del popolo che resiste.
Il popolo palestinese ha dimostrato la sua determinazione a resistere e abbiamo assistito a una crescente solidarietà mondiale con la sua causa. Questo processo sta promuovendo l'espansione di nuove forme di lotta, come il boicottaggio (BDS), che, sebbene esistesse già prima del 7 ottobre, ha acquisito ancora più forza in tutto il mondo. Questo boicottaggio è uno strumento che è già stato testato con successo nella lotta contro l'apartheid in Sudafrica e oggi viene utilizzato come arma chiave nella lotta per la liberazione della Palestina.
Parliamo della posizione internazionale. Sappiamo che il Sudafrica ha presentato una denuncia contro Netanyahu, accusandolo di essere un criminale di guerra, cosa che consideriamo un passo importante, poiché nessuno aveva osato chiamare Netanyahu con il suo vero nome. Cosa ne pensi dell'importanza di questa denuncia? E quale pensi che sarà il suo futuro?
Dal 7 ottobre, il trattamento riservato al popolo palestinese da parte del mondo e delle istituzioni internazionali è stato notevolmente carente. Dal 1948, la Palestina non è stata riconosciuta come un caso legittimo di un popolo, nonostante le risoluzioni delle Nazioni Unite a favore dei diritti palestinesi. La risoluzione 194, ad esempio, prevede il ritorno dei rifugiati nelle case da cui sono stati espulsi con la forza, cosa che non è stata rispettata dalle istituzioni dell'ONU. Il Consiglio di Sicurezza, nel corso di 75 anni di occupazione, non è riuscito a far rispettare le proprie risoluzioni a favore del popolo palestinese.
Sebbene l'occupazione sia descritta come un'aggressione a un altro popolo e territorio, non è stato fatto nulla di concreto per fermarla. Ciò ha evidenziato il declino morale del sistema internazionale, che ha affrontato la questione palestinese solo come un problema, senza darle la giusta definizione. Esiste un doppio standard in Occidente, che si vanta di difendere valori come la democrazia, la libertà di espressione, i diritti delle donne e dei bambini e persino i diritti della comunità LGBT, ma sappiamo che questi valori non esistono nella nostra regione.
La causa palestinese si distingue per la sua giustizia e il suo fondamento etico. Ciò si è riflesso nel modo in cui la resistenza palestinese, sotto la guida di Hamas, ha trattato i soldati israeliani che teneva in custodia. La battaglia attuale è tra un popolo e un occupante sostenuto dai suoi collaboratori. In questa fase, si evidenziano cambiamenti sul campo: non sono più solo gli Stati Uniti a controllare il mondo; sono emersi nuovi poli di potere e questo mondo non può rimanere sotto un dominio unipolare.
Attualmente, esistono quattro poli sulla scena globale. Cosa rappresenta il BRICS? Sebbene si tratti di un'alleanza economica, costituisce anche una forma di contrappeso alla NATO, non attraverso le armi o con più basi militari, ma attraverso l'economia.
In questo gruppo sono presenti Cina, Russia, India e, in una certa misura, Brasile. Sono paesi emergenti, diversi dalle grandi potenze tradizionali come Stati Uniti, Russia, Francia o Cina. In questo contesto, si osserva un crollo morale nei confronti del popolo palestinese. Ne è prova il fatto che, due mesi fa, il procuratore della Corte penale internazionale intendeva emettere un mandato di arresto contro Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant.
Tuttavia, una delegazione del Congresso statunitense si è incontrata con lui per avvertirlo che non poteva farlo. La questione è stata chiusa e la decisione è stata rinviata. Il motivo? È stato sottoposto a pressioni. Situazioni simili si osservano anche alla Corte internazionale di giustizia. Com'è possibile che, fino ad ora, non abbiano riconosciuto alcuna prova di genocidio? Tutte le prove sono state presentate nella denuncia presentata dal Sudafrica. Quando il Sudafrica parla di genocidio, si riferisce a un crimine di guerra. Il Nicaragua, da parte sua, ha presentato una causa contro la Germania per la fornitura di armi a Israele e ha sostenuto l'iniziativa sudafricana. Nessun paese arabo ha fatto lo stesso.
Va notato che alcuni paesi arabi hanno firmato e sono membri dello Statuto della Corte internazionale di giustizia. Dov'è la giustizia quando ci sono bambini che muoiono di fame? Quale tipo di corte non ha ancora esaminato i video? Sembra che abbiano bisogno di dieci anni per guardarli e concludere che si tratta di un genocidio. Si sostiene che la parola "genocidio" sia troppo grave e che debba essere provata l'intenzionalità, che Israele abbia agito con premeditazione. Si aspettano forse che Israele lo dichiari apertamente? Si discute in tribunale se ci sia stata intenzionalità o se il genocidio sia avvenuto per caso?
Certo che è stato premeditato: il genocidio del popolo palestinese è stato compiuto intenzionalmente. Per questo motivo, anche questi tribunali sono sottoposti a pressioni per impedire che giungano a una conclusione definitiva.
E, sinceramente, credo che non arriveranno a tale decisione. Non ho fiducia in queste istituzioni. Assolutamente. Non c'è giustizia. Dicono di preoccuparsi per noi, per la distruzione di massa, per i nostri figli... ma sono tutte bugie. Una grande bugia. Sembra che bisognerebbe mandare loro dei tranquillanti per farli dormire. Che razza di logica è questa?
Vedono tutto: lo vedono dallo spazio e noi lo vediamo dalla terra. Vedono il sangue che continua a scorrere. Ma parlano solo degli ostaggi. È la prima volta nella storia che questa entità pone l'attenzione sugli ostaggi. E ora gli ostaggi sono tra il popolo palestinese.
Credo che nel 2006 ci fossero tre ostaggi di Hezbollah. Ma tutti conosciamo il caso di Gilad Shalit.
Hezbollah ha quindi lanciato lo slogan: "Non lasceremo i nostri prigionieri". In tutti i negoziati che si sono svolti, la parte israeliana ha rifiutato di liberare Samir Kuntar, Yahya Skaf e altri detenuti. In risposta, hanno condotto un'operazione, catturato soldati israeliani e successivamente li hanno scambiati.
Oggi Israele non è più disposto ad accettare accordi che comportino il rilascio di prigionieri. Attualmente ha un governo di estrema destra, anche se in realtà tutti i governi precedenti erano anch'essi estremisti: sono governi di occupazione.
Tutti hanno trattato il popolo palestinese come se fosse un popolo che merita di essere ucciso, imprigionato, torturato. Sono state imposte barriere per limitarne la mobilità, gli è stato negato l'accesso all'acqua. Tutto questo è stato fatto contro il popolo palestinese e, tuttavia, sembra che a nessuno importasse.
Oggi Israele si è rivelato un peso per l'intera comunità internazionale, non solo per il popolo palestinese. Lo vediamo anche nel comportamento dei suoi cittadini in Europa.
Facciamo un confronto: nella guerra in Ucraina non abbiamo visto manifestazioni di massa di sostegno. Ce ne sono state alcune, qua e là. Ma come ha trattato l'Occidente i rifugiati ucraini? Non ha offerto loro tende, ma li ha ospitati direttamente in alberghi.
L'Europa, ad esempio, si presenta come difensore della democrazia e dei diritti umani. Tuttavia, abbiamo visto chiaramente come hanno trattato gli ucraini... e come ci hanno trattato storicamente.
Ora vogliono risolvere la questione dell'Ucraina. Devono farlo. Il figlio di Donald Trump ha persino detto a Zelenski: "Il tuo budget diminuirà quando mio padre diventerà presidente". In altre parole, non riceveranno più armi.
C'è anche un movimento crescente nelle strade degli Stati Uniti riguardo al sostegno economico e militare all'Ucraina. Si dice che la leadership ucraina rubi fondi e venda armi americane. La gente si interroga sull'efficacia dell'intervento degli Stati Uniti in questa guerra tra Russia e Ucraina e sul perché debba pagare le tasse per finanziarla.
Per quanto riguarda la Palestina, sorge la stessa domanda: perché si devono pagare le tasse a uno Stato che sta commettendo un genocidio contro un altro popolo? Ora stiamo vivendo una fase di gestazione, che darà luogo a molti eventi in futuro, quando finiranno i combattimenti, e non credo che finiranno presto.
Pensi che questa guerra durerà a lungo?
Diventerà una guerra di logoramento. È già durata quasi un anno. Ma non parlo di anni, parlo di generazioni. Alcune analisi politiche affermano che questa guerra durerà dai tre ai cinque anni; altre dicono che durerà solo pochi mesi, perché quello a cui stiamo assistendo è l'inizio della fine di Israele. Ma è possibile distruggere Israele e l'entità sionista in pochi anni?
Anche il semplice annuncio di un cessate il fuoco sarebbe interpretato come un riconoscimento della sconfitta israeliana. Questo è evidente. Per noi, come popolo e come resistenza, esiste solo un'opzione: la vittoria. Scegliere un'altra strada significherebbe arrendersi, e noi non siamo disposti ad arrenderci.
Nessuno, nessuna entità o partito, ha il diritto di deviare questa lotta verso un accordo simile a quello di Oslo, o anche solo a uno minore. Sarebbe una resa mascherata.
Perché Netanyahu teme così tanto il cessate il fuoco? Non sa cosa sta facendo? Certo che lo sa. È sotto pressione, ma allo stesso tempo continua con gli armamenti e con le uccisioni. Joe Biden gli ha detto: "Hai 30 giorni per portare a termine la missione".
Sono gli Stati Uniti a guidare questa guerra. Israele non agisce da solo. Washington la dirige, la finanzia e la rifornisce con ogni tipo di armamento moderno. Perché dovrebbero cessare il fuoco? Nessuno li sanziona. Chiunque critichi Israele viene bollato come antisemita secondo le leggi del mondo occidentale.
Criticare Israele è proibito nel quadro concettuale occidentale. Dovremmo adottare questo concetto? O dovremmo seguire ciò che i popoli vogliono veramente? È qui che entra in gioco il nostro ruolo: comunicare con i popoli del mondo su un tema che trascende i nostri confini e che riguarda tutte le nazioni libere del pianeta. Nel frattempo, ascoltiamo i leader arabi continuare a insistere sulla soluzione dei due Stati e sull'Iniziativa Araba. Cosa significa questo quando ci sono bombe che cadono, omicidi e morti continue...? Scusate...
* * *
Parte terza

Parliamo del ruolo delle donne. Come sappiamo, le donne palestinesi hanno avuto un ruolo fondamentale nella resistenza armata, nella lotta attiva e in tutte le forme di resistenza. Vale anche la pena sottolineare un dettaglio simbolico: il nome "Palestina" è femminile. Può essere usato per chiamare una donna, ma non è usuale - né culturalmente appropriato - usarlo per un uomo.
Anche se generalmente non vediamo donne nei video relativi alla resistenza armata, sappiamo che la loro partecipazione è significativa e cruciale. Potresti dirci di più sul ruolo che le donne svolgono nella causa palestinese?
Qualsiasi popolo che subisce persecuzioni è composto da donne e uomini. Ma le donne sentono l'oppressione in modo più profondo, perché sono loro che danno la vita. Io do la vita, tu dai la vita, lei dà la vita. [indicando le compagne donne].
La donna è più sensibile all'oppressione, non per la sua biologia, ma per il suo modo di pensare. La sua consapevolezza dell'oppressione è molto elevata, quindi, come parte del suo popolo, affronta naturalmente questa oppressione, qualunque essa sia. E la forma più crudele di oppressione è l'occupazione: ti priva della tua casa, ti espelle e mette qualcun altro al tuo posto, tra le tante altre cose.
La lotta delle donne palestinesi, come quella di qualsiasi donna oppressa, è doppiamente complessa. Perché? Perché, come ho detto, lei dà la vita, e questo la spinge a proteggere quella vita, a difenderla come se difendesse il proprio figlio. Lo abbiamo visto nel corso di tutta la nostra storia.
Per capirlo meglio, bisogna distinguere tra le diverse fasi storiche. Nel 1921, sotto il mandato britannico, le donne palestinesi iniziarono a organizzarsi. Questo permise loro di affrontare la questione degli immigrati sionisti, organizzando proteste e scioperi per frenare l'immigrazione in Palestina.
Nel 1935-1936, quando scoppiò la rivoluzione armata, le donne passarono da questo lavoro sociale a una nuova fase. Parteciparono attivamente, trasportando armi e donando l'oro con cui si adornavano per sostenere la lotta armata. Lo consegnarono ai loro mariti, fratelli o padri per acquistare armi. Questo fu un ruolo chiave.
Le donne palestinesi hanno dimostrato il loro impegno nei confronti del movimento nazionale. Le abbiamo viste salutare con orgoglio i loro figli martiri, festeggiarli, e questo sorprende il nemico. È un atto di sfida di fronte alla perdita, e lo dicono chiaramente: "Per la Palestina".
Le abbiamo viste portare armi, nelle prigioni dell'occupazione, martirizzate come gli uomini. E se iniziassimo a nominarle, non finiremmo mai. Ma possiamo ricordare la prima martire della rivoluzione moderna, Shadia Abu Ghazaleh, morta per una bomba spedita a casa sua.
Non possiamo ignorare queste tappe. Nell'intifada del 1987, le donne hanno avuto una presenza potente nelle strade. Erano in prima linea, a proteggere i loro figli, mariti, fratelli, e molte sono state uccise. Quell'intifada è stata una rivoluzione non armata.
In tutte le fasi della lotta del popolo palestinese, dentro e fuori dal territorio, le donne sono sempre state presenti. Ad esempio, nel Giorno della Terra, il 30 marzo 1967, una donna di nome Khadija Shawneh è stata martirizzata mentre manifestava. Tuttavia, questi eventi protagonisti delle donne non sono stati documentati né riconosciuti come dovrebbero. Questa è una responsabilità che dobbiamo assumerci come donne: documentare la nostra storia.
Oggi circolano libri sul ruolo delle donne palestinesi. Durante la Nakba del 1948, le donne furono fondamentali per proteggere la famiglia. Non solo non rimanemmo nelle tende, ma furono le donne a proteggere la famiglia dalla dispersione e dalla perdita.
Quando gli uomini andavano al fronte, venivano uccisi o imprigionati, e le donne rimanevano a proteggere i propri figli, a proteggere la vita stessa. Pertanto, in questa protezione, esse svolgevano un ruolo politico. Ad esempio, prima degli anni Trenta, le donne vendevano il loro oro per aiutare ad acquistare armi, ma allo stesso tempo alcune donne portavano armi in quella fase, e sono le stesse donne che sono rimaste nelle tende per proteggere i propri figli.
In esilio, sono state anche loro a guidare le manifestazioni durante l'intifada. Hanno affrontato l'occupante a petto nudo. E oggi, quando i loro figli vengono uccisi nel mezzo di questo continuo sterminio, vediamo come gridano al mondo: "Dove sono gli arabi? Dove sono i musulmani?". Ma alla fine, lei dice "per la Palestina". Lo dice e poi aggiunge "noi siamo con la resistenza", questo è qualcosa che sentiamo spesso dire da loro.
Il ruolo delle donne ha un impatto anche sui media, anche nelle condizioni più difficili. Eppure lei dice: "Siamo stanche, per favore, fermate questo massacro". Perché è madre, dà la vita, e per questo si oppone allo sterminio. I suoi figli, suo marito, suo padre vengono uccisi... e lei stessa muore a causa dei bombardamenti indiscriminati.
Questa cultura di resistenza che porta avanti la donna è condivisa anche dal popolo palestinese. La donna, per sua scelta, sostiene questa resistenza. Nessuno può sapere tutto ciò che sopporta. La perdita dei suoi figli non è facile, né la perdita della sua casa, ma lei rimane salda: perché continua a resistere all'interno di Gaza? Quante volte abbiamo sentito le donne dire: "Rimarrò in questa terra. Sono nata qui e qui morirò"?
A livello organizzativo, le donne si sono unite a partiti politici e fazioni, ma non è stato loro riconosciuto il diritto di partecipare al processo decisionale come agli uomini. Ciò ha richiesto tempo, poiché nel contesto palestinese predominavano due correnti principali: una progressista e l'altra religiosa. Ora ce n'è una terza, quella liberale, che genera una commistione nella società.
Tuttavia, questa commistione si fonde nella resistenza. È naturale quando un popolo affronta l'occupante e i suoi alleati. Si unisce. E in questo contesto, il ruolo delle donne non è solo quello di madri afflitte. Non sono solo madri. Sono persone che hanno subito l'oppressione, che cercano di proteggere e aiutare. Le vediamo negli ospedali, nei servizi pubblici, mentre cercano di soddisfare i bisogni, e ancora oggi rimangono salde. Assicurano che non lasceranno la loro terra.
Vediamo che i partiti politici in Palestina sono sempre guidati da uomini e sappiamo che il "Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina" è un partito che sostiene i diritti delle donne. Come donna che rappresenta il partito e che ne conosce i meccanismi interni, ci parli del ruolo delle donne all'interno del "Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina".
Abbiamo attraversato diverse fasi. Dall'inizio della rivoluzione armata dopo il 1967, il Fronte Popolare ha adottato lo slogan "donne e uomini insieme nella lotta per la liberazione" e abbiamo iniziato ad attuare questo slogan, non solo a livello di struttura organizzativa, ma anche a livello delle donne ovunque si trovassero. Sia gli uomini che le donne portavano le armi e per questo il Fronte Popolare, all'inizio, ha iniziato a diventare la sinistra palestinese di ideologia marxista.
Abbiamo stabilito questo approccio nel nostro sistema interno e in tutti i nostri documenti, non come una dottrina o una teoria, ma in modo scientifico. Abbiamo utilizzato questi strumenti per analizzare i fenomeni e gli eventi che accadevano intorno a noi. Nei nostri documenti, come Fronte Popolare, era chiaro che questo tema doveva essere sollevato. In precedenza, eravamo conosciuti come "il Movimento dei Nazionalisti Arabi", ma abbiamo deciso di dargli un approccio più scientifico e pratico. Non solo abbiamo adottato lo slogan, ma abbiamo lavorato per applicarlo in modo efficace fin dall'inizio. Tuttavia, le donne hanno dovuto affrontare grandi sfide per occupare un posto all'interno della struttura organizzativa, il che ha generato una lotta costante per andare avanti.
Noi donne abbiamo subito la repressione fin dall'inizio. Le nostre compagne sono state incarcerate dalle forze di occupazione subito dopo il 1967, il che dimostra la nostra presenza attiva nella resistenza. Personalmente, ero coinvolta nella parte militare.
Nonostante ciò, non siamo riuscite ad avanzare rapidamente all'interno dell'organizzazione. Abbiamo svolto un ruolo chiave nel cercare di tradurre il concetto del ruolo e della posizione delle donne, sia all'interno del partito che della società, affinché potessero godere degli stessi diritti e delle stesse responsabilità degli uomini. Per questo motivo, nel nostro sistema interno non esiste alcuna differenza tra uomini e donne: siamo tutti uguali e ci sono criteri chiari su questo tema.
Quando siamo arrivati alla scelta tra Leila e Khadija, abbiamo scoperto che la nostra base di partito sceglieva gli uomini per qualsiasi carica all'interno della struttura organizzativa. Fin dall'inizio, all'inizio degli anni Settanta, ci sono stati timidi tentativi all'interno del Fronte Popolare affinché le donne occupassero una posizione uguale a quella degli uomini nel sistema interno del Fronte. Tuttavia, questo non è stato completamente attuato. All'epoca, c'era solo un piccolo numero di donne nel Comitato Centrale, e questo avvenne durante il terzo congresso del Fronte. Da quel momento in poi, le donne hanno iniziato a svolgere un ruolo importante nei dibattiti sul ruolo delle donne.
Ho contribuito insieme alle mie compagne affinché l'8 marzo, Giornata internazionale della donna, fosse riconosciuto ufficialmente nel 1979.
Sebbene tardivamente, questo risultato è stato ottenuto grazie ai nostri sforzi all'interno dell'organizzazione. Abbiamo affrontato grandi difficoltà, poiché la donna nella società è fortemente influenzata da molte usanze e tradizioni. L'avvento della rivoluzione palestinese ha contribuito a rompere alcune di queste usanze, ma non ha eliminato completamente le idee sulla liberazione della donna, che arriva dopo la liberazione politica ed economica.
Si tratta di un retaggio sociale profondamente radicato nella nostra storia, in cui il lavoro tra uomini e donne era diviso in modo molto netto.
La questione ha richiesto tempo, ma abbiamo sempre potuto contare sul sostegno della direzione dell'organizzazione. Ad esempio, in occasione della Giornata internazionale della donna, abbiamo proposto che l'ufficio politico organizzasse seminari per tutto il partito e siamo riusciti a far approvare questa misura. Sono stati realizzati processi educativi sia per gli uomini che per le donne, con l'obiettivo di aumentare la consapevolezza collettiva sui diritti e il ruolo delle donne.
Tuttavia, nell'applicare queste idee, abbiamo incontrato resistenza riguardo al ruolo delle donne, con l'argomentazione che le donne avrebbero potuto sottrarre posti ad altri. Così, durante le elezioni interne dell'organizzazione, sia gli uomini che le donne si candidavano per le cariche, ma in questo processo le donne tendevano a perdere. Nonostante ciò, alla fine siamo riusciti a chiarire la questione all'interno dell'organizzazione. Non dobbiamo dimenticare che, come Fronte Popolare, stavamo combattendo su diversi fronti, sia in Giordania che altrove, in ambito esterno.
All'interno, la situazione era ancora più difficile, soprattutto quando si trattava di rompere le tradizioni. All'esterno, c'era un chiaro processo di classificazione. Potete immaginare che non accettassero che una donna guidasse le pattuglie di sorveglianza, nonostante sia gli uomini che le donne portassero armi sul campo? Queste erano barriere imposte da idee antiche e obsolete.
L'intifada ha profondamente infranto queste tradizioni e non si chiedeva più all'uomo dove fosse andata sua moglie, perché tutti si muovevano liberamente per le strade. Tuttavia, dopo ogni sconfitta, la prima persona a cui veniva chiesto era la donna.
In alcuni luoghi si legge che hai iniziato la lotta armata quando avevi 15 anni, è vero?
No, a 15 anni ho iniziato a chiedere di entrare a far parte del Movimento dei Nazionalisti Arabi, influenzata dai miei fratelli maggiori, che ne facevano parte. È stato allora che ho iniziato a organizzarmi politicamente, ma non sono stata accettata a causa della mia giovane età e perché il sistema non lo permetteva. Tuttavia, in seguito ho deciso di unirmi alla rivoluzione e di lasciarmi tutto il resto alle spalle.
Ci sembra di capire che hai incontrato difficoltà nell'entrare a far parte del partito, sia a livello familiare che sociale.
No, provengo da una famiglia di politici che appartiene al Movimento dei Nazionalisti Arabi, compresa mia madre, che ci sosteneva. Dopo la Rivoluzione del 1952 in Egitto, lo slancio nazionalista è cresciuto in tutta la regione, quindi uscivamo regolarmente a manifestare. Tuttavia, la contraffazione proveniva da alcuni uomini che non volevano che le loro figlie partecipassero alle manifestazioni e cercavano di frenare questo slancio. Alcuni ci sono riusciti, ma altri no, e le donne hanno continuato ad assumere il loro ruolo nel cambiamento. È stato naturale vedere come si sviluppava questo movimento.
Pensi che questo ruolo si sia evoluto?
Sì, anche se nei momenti di sconfitta no. Ad esempio, dopo l'accordo di Oslo, è stata una catastrofe. Una volta sono andata in Palestina e ho parlato con le donne dell'importanza del nostro ruolo attivo nella società. Una donna mi ha detto che, dall'inizio di questa fase, aveva cinque figli nelle prigioni dell'occupazione e un altro nella tomba. Era così che lei vedeva il nostro ruolo: lontano dalla prigione o dalla morte, ma alla fine anche questa donna è stata arrestata.
Continuando con il tema del ruolo delle donne, ma da una prospettiva diversa, cosa ne pensi del ruolo delle donne sioniste nell'esercito israeliano? Sono armate e hanno un ruolo, ci si aspetta che prestino servizio in questo esercito e l'Occidente le vede come combattenti. Tu come le vedi?
Ogni occupante, sia uomo che donna, non è un combattente. Entrambi sono uguali nell'ingiustizia verso l'altro, e l'altro siamo noi. Pertanto, non guardo al genere dell'occupante. Chi serve nell'esercito, sia uomo che donna, sa di essere un occupante, conosce questa verità.
Ecco perché temono momenti come quello del 7 ottobre. Serviranno in questo esercito, ma non sono arrivati in modo naturale in questa terra. Sono venuti come immigrati, hanno commesso massacri contro di noi e hanno occupato le nostre case. Allora, come devo vedere questa donna?
Una volta mi è successa una cosa. Eravamo a una conferenza delle donne a Berlino sotto la supervisione delle Nazioni Unite, in rappresentanza dell'Unione delle donne palestinesi. Avevamo deciso di non parlare con il gruppo di donne israeliane, anche se erano palestinesi dei territori occupati. Non volevamo entrare in nessuna discussione, né con la delegazione israeliana né con nessun altro. Questa era la nostra decisione preliminare.
Mentre entravo nella sala, ho incontrato uno scrittore sovietico orientalista che era accompagnato da una donna. Si è avvicinato a me e, dopo aver salutato entrambi, ci ha presentati. Anche se conoscevo già il suo nome, non l'avevo mai incontrata di persona. Si trattava di Filetsa Langar, un avvocato israeliano. Non avevo mai visto la sua foto, ma sapevo di lei, poiché difendeva le donne palestinesi detenute. Fu perseguitata per il suo attivismo e, infatti, subì un tentativo di omicidio insieme al marito.
Quando la salutai, mi disse, con quel suo strano accento arabo: "Sai, Leila? Tutte queste donne riunite qui vorrebbero essere come te".
Incuriosita dal suo commento, le chiesi da dove venisse. Lo scrittore sovietico, sentendo la mia domanda, mi rispose sorpreso: "Non la conoscevi?". Gli risposi di no e lui mi rivelò che si trattava di Filetsa Langar. Dopo averle stretto la mano, mi pulii le mani, consapevole della sua storia, e proseguii per la mia strada. Poco dopo, lo scrittore mi ha avvicinato di nuovo, chiedendomi perché mi fossi comportata in quel modo. Gli ho spiegato che non volevo parlare con chi occupa la mia casa.
Non hai parlato con nessuno lì?
Durante l'evento, gli israeliani hanno cercato di farmi parlare sui loro media, ma ho rifiutato categoricamente. C'erano donne palestinesi che lavoravano per la televisione israeliana che mi chiamavano, offrendomi di parlare in diretta di qualsiasi cosa volessi, assicurandomi che non avrebbero cambiato una sola parola di ciò che avrei detto. Ho risposto che se non c'erano altri canali disponibili per parlare, avrei preferito farlo da sola per strada.
Ho detto chiaramente: "Non parlo con loro, e se voi li accettate, io non li accetto. Non contattatemi più. Non è appropriato parlare della Palestina con loro. Lo farò quando se ne andranno dalle nostre case. Fino ad allora, il nostro luogo di incontro è il campo di battaglia. Non ho altro da dire, non ci sono altre opzioni".
Credi che il ruolo delle donne sia importante nella causa palestinese? Certamente, sotto tutti gli aspetti. C'è qualche donna palestinese contemporanea che ha attirato la tua attenzione? Puoi parlarci di qualcuna di loro?
Quello che mi colpisce di più sono le donne detenute, perché quello che vivono in carcere è molto peggio di quello che subisce qualsiasi altra persona. Sono sottoposte a torture atroci con l'obiettivo di spezzarle, pensando che così possano distruggere l'idea per cui lottano. Conosco madri di prigionieri e martiri, e sento che noi donne non abbiamo ottenuto pienamente i nostri diritti in questa lotta, a meno che non diventiamo martiri.
Ad essere onesti, all'interno del Fronte Popolare, noi donne abbiamo raggiunto i livelli più alti, partecipando attivamente ai livelli organizzativi più importanti, come il Comitato Centrale e l'Ufficio Politico. Anche nel Fronte Democratico, che si è separato dal Fronte Popolare, le donne sono riuscite a ricoprire cariche simili. Questo è un chiaro segno dell'evoluzione del partito.
Non solo gli uomini sono stati nominati a cariche all'interno del Fronte Popolare, ma anche le donne fanno parte di quella struttura. Questo non è stato solo il risultato della lotta intellettuale, ma abbiamo anche svolto un ruolo chiave nella sensibilizzazione, sia all'interno della società che all'interno dello stesso Fronte.
Abbiamo lavorato instancabilmente e ci troviamo a livelli intermedi di responsabilità. Ma perché non saliamo a livelli più alti? Gli uomini capiscono più di noi? L'esperienza, dopotutto, affina le persone. La direzione è sempre stata con noi in tutte le proposte che abbiamo presentato, il che ci dà soddisfazione. È necessario che questo continui a svilupparsi.
Cosa ne pensi delle donne arabe?
Le donne arabe sono tristi, mi dispiace vederle così, ma non dimentichiamo che le donne in Algeria hanno svolto un ruolo fondamentale nella loro lotta. Per quanto riguarda le donne vietnamite, una volta le abbiamo incontrate e volevamo che occupassero posizioni nella struttura dell'Unione Internazionale delle Donne Democratiche. Loro hanno rifiutato, spiegando che non potevano assumere tali ruoli perché avevano compiti enormi e pesanti dopo la liberazione.
Ora faccio un paragone: in Vietnam hanno subito un genocidio con armi pesanti, ma non sono riusciti a sterminare tutto il popolo. E con noi, non potranno nemmeno sterminare un milione o due milioni di persone a Gaza. Siamo contro il genocidio.
Ho condotto operazioni militari. Perché l'ho fatto? Per liberare i prigionieri, ma soprattutto per liberare le donne. Mi hanno detto che le mie compagne erano in prigione e che dovevo contribuire a liberarle. Questo mi ha spinto a condurre l'operazione, e la mia coscienza era tranquilla nel farlo. Liberando i miei compagni e le mie compagne in prigione, ho sentito che stavamo costruendo un futuro più giusto.
Qui possiamo leggere e comprendere la storia delle donne nel mondo, e dobbiamo studiarla. Non è solo la nostra storia; scopriamo che ci sono donne che nel corso della storia hanno svolto un ruolo importante nelle rivoluzioni e nella difesa delle loro terre.
Ieri siamo andati alle tombe di George Habash e Wadad Qamari. Sappiamo che Wadad era una militante che fu arrestata in Siria e cercò di liberare Al-Hakeem (George Habash), anche se non abbiamo tutte le informazioni sulla sua storia. Manteneva il suo lavoro segreto, ma è diventata un simbolo. Puoi dirci di più su Wadad?
Dopo l'arresto della leadership del Fronte Popolare dopo la guerra del 1967, la leadership fu affidata a Wadad, che svolse un ruolo chiave nel lavoro militare. Durante questo periodo, i suoi fratelli furono arrestati. Affidò compiti militari ad altre compagne, come Rasmiya Ouda, Aisha Ouda e molte altre. Furono tra le prime donne ad essere incarcerate con condanne all'ergastolo. Sebbene Wadad fosse responsabile di loro, non ha mai parlato pubblicamente di questo argomento.
Quando ha visto la sua famiglia sottoposta a così tanti arresti, ha deciso di fuggire segretamente dal Paese. Nessuno sapeva dove fosse andata. Quando venivano a chiedere di lei, la famiglia rispondeva di non sapere nulla della sua sorte. Wadad ha affidato i suoi compiti ai suoi compagni e se n'è andata perché era in pericolo.
Wadad ha lavorato in molti campi, ma si è tenuta lontana dai media, poiché sperava di tornare un giorno a Gerusalemme per vedere la sua famiglia. Anche se era di poche parole, il nostro rapporto, grazie al lavoro che condividevamo, consisteva in molte conversazioni su vari argomenti.
Rifiutava di apparire sui media e all'inizio anch'io ero contraria per paura.
I media sono come un'arma a doppio taglio: o sono con te o contro di te. La maggior parte dei media è contro di noi. Guardano le donne velate e pensano che siano gli uomini o la religione a costringerle a farlo.
Cosa è più difficile per le donne: il velo sul corpo o il velo sul pensiero? A mio parere, il velo sul pensiero è molto più difficile. Si chiedono come la sinistra palestinese possa collaborare con gli islamisti. Ma nella fase di liberazione non discutiamo di questioni ideologiche. Sul campo, la parola la ha la pistola, e sia loro che noi conosciamo bene la linea militare.
C'è molta strada da fare prima di arrivare a parlare di ideologie. Noi esprimiamo il nostro pensiero attraverso le posizioni che prendiamo, e anche loro hanno il diritto di farlo. Il diritto è per tutti, e questo spazio è per tutto il popolo palestinese e per i liberi del mondo. Quindi il problema non è coprire le donne con il velo religioso, ma con il velo ideologico, che è molto più pericoloso.
Tutte le donne del mondo, quando parlano della causa palestinese, la descrivono come una lotta contro l'oppressione femminile, al punto da considerarla una causa femminista, umana. È corretto collegare la causa palestinese in questo modo?
No, come ho detto prima, sia le donne che gli uomini sono insieme nella lotta per la liberazione. Non le diamo altri nomi o etichette, che siamo coperte o meno. Lottiamo semplicemente per esercitare i nostri diritti senza queste etichette imposte.
La sorpresa per molti, fin dai primi anni Settanta, era come una donna potesse fare queste cose. Su di me, come ho fatto questo o quello. Ma c'erano anche uomini che facevano lo stesso. Qual è la differenza?
La mentalità occidentale non ha accettato la nuova immagine della donna, non la vuole. Preferisce che le donne si concentrino sulla loro altezza, sul loro corpo, sul trucco e sui capelli... Anche all'interno dei nostri stessi circoli popolari, si diceva che ci univamo alla rivoluzione per scegliere i mariti. Immagina, un vicino mi ha chiesto se avevo trovato un fidanzato nella rivoluzione. È assurdo! Non mi sono unita alla rivoluzione per trovare un fidanzato! Eravamo esposte alla morte nelle nostre missioni, e i media occidentali si concentravano su questo, così come alcuni media arabi.
Sei contraria a definire la causa palestinese come una causa femminista? Credi che i diritti siano gli stessi per uomini e donne?
Sì, lo credo. Ma allo stesso tempo, questa è una causa profondamente umana. È la storia di un popolo sottoposto alla guerra e all'omicidio costante. L'occupazione uccide senza distinzioni: uccide le donne e i loro figli, gli uomini e le loro famiglie allo stesso modo.
Questo conferisce al conflitto un'altra dimensione, più intensa e profonda. Immagina che, nel mezzo di una guerra, metà del nostro popolo prenda l'iniziativa e poi arrivi l'Arabia Saudita... e cosa manda? Sacchi per cadaveri: alcuni per gli uomini e altri per le donne. Anche nella morte c'è distinzione!
A volte, nei video, vengono sfocati i volti delle donne uccise che non indossavano l'hijab. Una donna muore bombardata nella sua casa o nel suo negozio, eppure c'è chi si preoccupa se indossasse o meno il velo. Pensi che in mezzo a tutto questo ci sia spazio per ideologie o pensieri imposti? Io credo di no. Una volta ho detto una frase in Gran Bretagna che ha avuto un grande impatto. L'hanno stampata su giacche, magliette e altri oggetti. Ho detto: "Una donna può essere una combattente, una freedom fighter, e allo stesso tempo essere donna, amare ed essere amata".
L'ho pronunciata in inglese e, curiosamente, i media arabi non l'hanno pubblicata né le hanno dato importanza. La donna ha il diritto di amare, di essere amata, di avere figli e di formare una famiglia. La rivoluzione non è solo per i single. È per tutti: sposati o meno, uomini o donne.
Nel 1970 pensavo che sarei morta durante l'operazione dell'aereo. Hanno ucciso il mio compagno e ho sentito che stavo vivendo un miracolo: hanno cercato di uccidermi e non ci sono riusciti. A volte mi chiedo perché. E in questa vita che mi è stata concessa come un miracolo, voglio anche amare, sposarmi, avere figli, avere nipoti.
Sono una donna, una persona molto naturale. Perché dovrei essere diversa? Lo sono solo per il ruolo che ricopro. Faccio parte di un partito di combattenti, e anche questo fa parte di chi sono. Credo che le donne palestinesi abbiano dato molto, non solo alle donne arabe, ma alle donne di tutto il mondo. Ci vedono come un simbolo della lotta delle donne ovunque. In questa guerra in corso contro Gaza, vedo che le mie foto ricompaiono. Cosa significa questo? Che la resistenza continua ad essere una scelta dei popoli e che la mia esperienza è vista come parte di quella linea di lotta. Questa è una grande responsabilità per me.
Non l'ho detto prima, ma dall'inizio di questa intervista mi è stato assegnato un nuovo compito e una nuova responsabilità. Voi avete dato al vostro gruppo il mio nome: Leila Khaled.
Questo, per me, rappresenta un impegno. Mi obbliga a seguire questa strada, non un'altra. Ho figli e nipoti, e sono felice con loro. Per questo vi ringrazio. E no, non era necessario chiedermi il permesso per usare il mio nome.
Quando qualcuno mi dice: "Tu ci rappresenti", sento il peso di questa responsabilità. E mi chiedo: cosa vi aspettate da me? Quello che posso dirvi è che sarò sempre pronta ad aiutarvi.
Siamo esseri umani. Sentiamo l'ingiustizia, ma abbiamo anche una visione chiara del futuro.
Io dico che il futuro appartiene a noi. Appartiene a noi, ai nostri figli. Non credo che potrò tornare in Palestina, come migliaia di palestinesi che sono ancora in esilio. Ma se sono riuscita ad aiutarvi ad aprire la strada, allora mi sentirò in pace. Quella strada è aperta anche ai miei nipoti, affinché possano conoscere e portare avanti la causa.
La storia ci insegna che l'oppressione non dura per sempre. Anche se oggi in Palestina l'oppressione continua. È naturale, chi sopravvive ha bisogno di cure, ma poi penserà al motivo che li ha portati a quella situazione. Poi si chiederanno: perché ho perso mio padre? Perché piango per mia madre? Perché l'ho persa in un bombardamento?
La generazione attuale non penserà come quelle precedenti. Avrà nuovi strumenti, una nuova comprensione. Oggi vediamo in televisione bambini che parlano per strada come se fossero analisti politici. Vediamo adulti nei programmi di dibattito, sì, ma quel bambino riassume tutto quando dice, con totale spontaneità: "Questa terra è nostra e continuerà ad essere nostra".
Credi che la battaglia finale sia con il concetto di "tutto o niente"?
No, non si tratta di questo. Questa lotta non è una battaglia unica e definitiva. Sono battaglie lunghe, che dobbiamo combattere con tenacia. Il nostro scontro non è solo contro Israele. È contro un intero blocco di nemici: il sionismo, l'imperialismo e i suoi alleati sotto la guida degli Stati Uniti, oltre alle reazioni arabe. Per noi questo è stato chiaro fin dall'inizio.
Esiste un piccolo libro intitolato La strategia politica e organizzativa. Quel testo è stato fondamentale per noi. Partendo da esso abbiamo sviluppato meccanismi e strumenti, ma senza rinunciare all'idea essenziale: abbiamo una terra e vogliamo liberarla. Punto. Chi è d'accordo con questa premessa è il benvenuto. Chi non lo è, che non venga, che se ne vada.
In Libano, all'inizio, non esisteva il lavoro armato. Ma con il tempo, e grazie alla presenza della resistenza, si è prodotta una profonda integrazione tra il popolo libanese e quello palestinese, uniti nella difesa del Libano e della nostra esistenza come movimento di resistenza. Nel 1982 siamo stati sconfitti, nonostante l'eroica resistenza di quel periodo. Ma anche i bambini lo capiscono. All'epoca ero madre. Ho avuto un figlio nel 1982 e un altro nel 1985. Non ho mai raccontato loro tutto quello che è successo, ma sapevano che la loro madre lavorava, e lavorava per la Palestina.
Ricordo che una volta mio figlio minore mi chiese: "Mamma, quante persone ti ascoltano nei tuoi discorsi? Mille? Duemila? Diecimila? La cosa migliore sarebbe sparare. Così tutti sentirebbero il rumore dello sparo". Quella frase mi sorprese. Mio figlio era profondamente legato all'idea della lotta armata. Non voleva che viaggiassi così tanto. Voleva che restassi con lui. Qualche tempo dopo, portai mio figlio maggiore con me in Giappone, dove ero stata invitata a tenere una conferenza. Frequentava le scuole medie e, come condizione per accompagnarmi, doveva parlare della gioventù palestinese. Si preparò, fece ricerche, scrisse il suo discorso... ed era la prima volta che lo vedevo parlare inglese così fluentemente, interagendo con le persone.
In seguito, portai il secondo in Sudafrica. Volevo che capissero che loro madre non era assente per cose banali. Che quello che faceva aveva un senso, che era importante. Alla fine, lo capirono. Non ebbi bisogno di dirglielo, lo vissero in prima persona.
Una volta, quando mio figlio tornava dall'asilo, le maestre gli hanno detto: "Lui è il figlio di Leila Khaled, quella che ha dirottato un aereo".
Quello stesso pomeriggio, mentre mangiavamo, mi ha chiesto: "Mamma, hai rubato un aereo?"
Gli ho risposto con calma: "Una madre non ruba. Hai capito male".
Ma lui ha insistito: «Dimmi la verità... hai preso un aereo?».
Allora gli ho detto: «Aspetta un po' e ti racconterò cosa ho fatto».
E lui mi ha chiesto con totale innocenza: «Dove l'hai messo? Portalo qui, giochiamoci».
È così che lo capiva in quel momento. Più tardi, quando sono cresciuti, ho potuto spiegare loro tutta la storia: perché l'abbiamo fatto, come e per quale motivo. Tutto questo è successo in Siria, e loro sono cresciuti in un ambiente in cui la lotta era parte della vita quotidiana.
Ricordo una conferenza delle donne della Jihad Popolare che si tenne proprio di fronte a casa nostra. Si protrasse fino al pomeriggio. A un certo punto, è arrivato l'altro mio figlio e ha detto: "Basta parlare di sionismo e imperialismo. Torna a casa, è tardi."
Quanti anni aveva?
Circa quattro anni.
Tutti hanno riso. Era stato all'asilo tutta la mattina e, al ritorno, non mi ha trovato. Ero in ritardo.
È difficile trasmettere queste idee ai bambini. Sono piccoli momenti che sono accaduti e mi dispiace non essere stata più presente.
Ad esempio, quando uno di loro era malato, lo mandavo comunque all'asilo. Scrivevo sul suo quaderno a che ora doveva prendere le medicine, cosa poteva mangiare e alcune frasi da far leggere alla maestra.
Quando sono cresciuti, ho dato loro quei quaderni perché li vedessero. Lì annotavo tutto quello che facevano.
A volte mi chiedo: perché avevo tanta fretta? Perché li ho lasciati quando erano malati? È stato un errore. Avrei dovuto stare al loro fianco a casa. Ora penso che sia troppo tardi per questo.
Facevi attività politiche e sociali come madre?
Sì. C'è stato un periodo in cui sono riuscita a trovare un buon equilibrio, ma poi non ci sono più riuscita. Ci sono cose che una madre deve fare con i propri figli. Non devono sentire che la Palestina ha portato via loro la madre o il padre.
Non devono sentirsi così. Dobbiamo insegnare loro che hanno una patria in cui torneranno, e che è per questo che lavoriamo. Che c'è una casa migliore, un giardino, giochi... Dobbiamo parlare con loro di tutto questo. Alla fine sono cresciuti, hanno imparato e ora sono qui.
Vorrei chiederti di lasciare un messaggio a tutti i giovani che incontriamo nei nostri incontri nelle università, presentando loro la causa palestinese.
Il mio messaggio ai giovani è di approfittare delle esperienze degli altri per costruire il loro presente e il loro futuro, a beneficio proprio e della generazione che verrà dopo di loro.
Questo messaggio è per tutti coloro che hanno scelto di stare dalla parte delle cause giuste. È una questione profondamente umana, che dimostra la capacità di una persona di stare dalla parte della giustizia, ovunque essa sia, e contro l'ingiustizia, ovunque essa sia.
Che Guevara diceva: "Dove c'è ingiustizia, c'è patria". Condivido questa idea. E c'è una frase che mi piace dire ai giovani: "Voi siete i creatori del vostro futuro, ma quel futuro deve essere costruito sul presente, e il vostro presente è brillante".
Dal 7 ottobre abbiamo visto giovani, dentro e fuori le università, scendere in piazza con slogan di libertà, contro il genocidio, contro l'occupazione e contro il razzismo. Questi slogan devono tradursi in azioni concrete. Avete la libertà di scegliere gli strumenti e la fortuna di vivere nell'era della rivoluzione informatica e tecnologica, che è alla vostra portata.
Per questo spero che vi uniate attorno a idee comuni, che adottiate un'ideologia progressista e umana. Mantenete l'unità. Non dividetevi in entità o associazioni.
Unificate gli sforzi per avere successo e raggiungere gli obiettivi che vi proponete, come un tutt'uno.
Vi faccio un grande applauso. Perché avete fatto molto in poco tempo e avete fatto sentire la voce degli oppressi nel mondo: la voce del popolo palestinese.
Vorrebbe aggiungere qualcosa? C'è qualche argomento che non le abbiamo chiesto?
Sì. Vorrei dire una frase: "Se l'ingiustizia è il sistema stabilito, allora la rivoluzione è la soluzione".
Non dobbiamo accettare l'ingiustizia. L'essere umano ha la capacità di sconfiggerla.
* * *

Traduzione e interpretazione: Mai Al Bayoumi.
Edizione: Irene Zugasti.
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