da www.rassegna.it, 12 settembre 2005
Polonia / 25 anni dopo
la nascita di Solidarnosc
Il primato del profitto
di Vittorio Longhi
“Nie ma woinosci bez Solidarnosc”. Significa “Non c’è libertà senza
Solidarnosc” ed è lo slogan con cui Karol Wojtyla nel 1980 diede il proprio
appoggio, decisivo, al movimento di protesta dei lavoratori polacchi contro la
politica repressiva del regime comunista. Sono passati venticinque anni esatti
dalla rivolta degli operai dei cantieri navali di Danzica, il regime è caduto e
oggi la Polonia è un paese formalmente democratico che fa parte dell’Unione
europea.
La nascita di Solidarnosc è stata celebrata due settimane fa proprio nella
città portuale del Baltico, dove l’organizzazione guidata da Lech Walesa
nell’agosto del 1980 innescò quella serie di scioperi e di manifestazioni che
portarono poi a elezioni libere nel primo paese uscito dal blocco sovietico,
nel 1989.
Tuttavia, delle promesse di libertà e di prosperità fatte dalla Chiesa e dalle
potenze occidentali che appoggiarono le lotte dei portuali, ben poco sembra
essere stato mantenuto. Se gran parte dei mezzi di informazione oggi tende a
glorificare la storia del sindacato, poi trasformato in partito politico,
sottolineandone il ruolo nella trasformazione democratica all’interno
dell’Europa dell’Est, pochi si interrogano sul carattere di questa
trasformazione e sugli effetti che ha avuto per i lavoratori polacchi.
“Ho lottato tutta la vita contro il comunismo e contro la polizia segreta che
ci spingeva a lasciare il paese, dicendoci che avremmo rimpianto il regime.
Ancora oggi detesto quella gente ma devo ammettere che in alcune cose avevano
ragione, perché nessuno di noi ora può più contare sulla garanzia del lavoro,
su uno stipendio regolare e su una vita sicura”. Zbigniew Stefanski, operaio
quarantaseienne, ha militato come attivista di Solidarnosc fin dalla sua
nascita ed è uno dei pochi rimasti occupati nei cantieri di Danzica. Nel 1980,
all’inizio della stagione degli scioperi, erano 16mila i lavoratori del grande
cantiere Lenin, quello che produceva più navi per l’Unione Sovietica, e che
rappresentava il motore dell’economia del dopoguerra non solo per la città
portuale ma per tutto il paese. Oggi sono rimasti in poco più di tremila,
divisi tra piccole società private, e minacciati dai continui licenziamenti che
hanno portato il tasso di disoccupazione al 12 per cento in città. Anche se la
Polonia è ancora il quinto costruttore di navi dopo Giappone, Corea del Sud,
Cina e Germania, a Danzica si effettuano solo riparazioni e gli unici lavori
che interessano il porto riguardano il transito dei container. Questi
serviranno presto a trasportare le merci destinate alle centinaia di centri
commerciali che stanno fiorendo in ogni località, nella dilagante cultura del
consumo che investe i paesi dell’Est.
La situazione di Danzica rispecchia bene quella generale di un paese che, pur
essendo riuscito a entrare nell’Unione europea, oggi vive una fase di profonda
recessione economica, con un tasso ufficiale di disoccupazione che va dal 18
per cento fino al 40 in alcune zone, e presenta ancora un forte degrado
sociale.
Secondo gli analisti sono ancora gli effetti del passaggio brusco dall’economia
di stato a quella di un mercato senza regole che ha finito per produrre e
sviluppare una notevole polarizzazione dei redditi. Il divario cresce, infatti,
tra il ristretto gruppo di arricchiti grazie a un sistema di privatizzazioni e
corruzione incontrollabile e la massa di cittadini cui si sono ridotti
progressivamente il potere d’acquisto e le tutele sociali.
La logica neoliberista seguita dai governi che si sono succeduti in questi
anni, compreso quello attuale di centro sinistra guidato da Marek Pelka, si
riflette anche nelle politiche del lavoro. L’ultima riforma, in vigore dal 2003,
fa parte di un pacchetto chiamato “Prima di tutto, l’impresa”, che mira a dare
competitività alle aziende partendo dalla precarietà dell’occupazione. Il
diritto di associazione, ad esempio, è stato limitato per i dipendenti pubblici
e chi lavora nel privato non può più costituirsi in sindacato se non è coperto
da un contratto di categoria. Ma la legge concede alle imprese che dicono di
essere in difficoltà finanziarie anche la possibilità di sospendere le tutele
previste dai contratti collettivi, favorendone così la desindacalizzazione.
Lo stesso Solidarnosc riporta numerosi casi di aziende che regolarmente
licenziano dipendenti protetti da accordi collettivi per poi riassumerli come
collaboratori o che licenziano apertamente e senza giusta causa attivisti e
militanti sindacali.
Il diritto di sciopero, inoltre, per legge è riservato solo ai dipendenti del
settore privato, poiché quelli pubblici rientrano tutti indistintamente nella
sfera dei servizi “essenziali”. Il governo ha persino varato una norma sul
traffico mirata a scoraggiare le manifestazioni di protesta, costringendo a
proclamarne la data con almeno trenta giorni di anticipo e a farsi carico del
regolare transito dei veicoli.
Un’erosione dei diritti del lavoro, insomma, che va di pari passo con
l’indebolimento del sindacato. Se nel 1981 un cittadino su quattro aderiva a
Solidarnosc (10 milioni su una popolazione di 40), oggi gli iscritti sono poco
più di un milione e sono quasi tutti dipendenti pubblici, senza alcuna capacità
di pressione sulle decisioni del governo e delle imprese. D’altra parte, si
tratta di un sindacato che ha subìto in maniera forte l’influenza del Vaticano
e degli interessi occidentali. Epurate le componenti secolari e socialiste dal
movimento di protesta sorto nell’80, la Polonia si è progressivamente
allontanata da ogni possibilità di vera giustizia ed equità sociale.
(www.rassegna.it, 12 settembre
2005)